1958-1960 Marco Ferreri: El joven director de cine (2a parte)
LA TRILOGIA SPAGNOLA
L'affermazione che il cinema nazionale si produce alle spalle del pubblico viene confermata dal fatto che in pochissime occasioni l'uomo spagnolo si vede riflesso nel grande schermo. Non accade la stessa cosa nel cinema fuori dalle nostre frontiere dove sono addirittura nate scuole cinematografiche interessate a rappresentare le problematiche e l'ambiente nei quali si muovono gli uomini dei loro rispettivi paesi. è il caso della nouvelle vague, del free cinema, del neorealismo, del cinema americano, etc. Senza dubbio, nel nostro paese, sebbene in forma isolata, alcuni film comunque hanno mostrato la nostra condizione (nel 1950 Surcos di Nieves Conde, o nel 1960 Los golfos di Carlos Saura). Inoltre esistono nella nostra cinematografia varie trilogie che riflettono diversi aspetti della realtà spagnola. La prima si attribuisce a Luis Garcia Berlanga, il quale definisce perfettamente le virtù de la razza spagnola: la speranza nel futuro, con Bienvenido Mr. Marshall (1952); l'amicizia e la disponibilità verso gli sconosciuti, con Calabuch (1956); la fede di fronte al miracolo, Los jueves, milagro (1958). La seconda trilogia è quella di Juan Antonio Bardem con la sua visione della gerarchia sociale spagnola. Una critica dell'alta società la si riscontra in Muerte de un ciclista (1955); della classe media senza orizzonti, in Calle Mayor (1956); e del lavoratore, attraverso i mietitori andalusi, in La venganza (1957). La ultima è opera di Marco Ferreri che si basa sull'uomo spagnolo. I fidanzati che devono sposarsi, in El pisito (1958); I ragazzi, con Los chicos (1959); gli anziani che, per paura della solitudine cercano le compagnie più diverse, ne El cochecito (1960).
(ENRIQUE IBANEZ, "Una trilogia de Marco ferreri nos descubre al hombre espanol" da Otro cine n°50, 1961)
EL PISITO
Avvicinare la prima fatica del regista milanese portando sulle spalle l'inevitabile peso delle opere che a questa seguirono non è cosa semplice, anche perché da subito si presenta come prodotto polisemantico dalle molte implicazioni.
Basti pensare, e così partiamo senza troppi indugi verso le opere spagnole di Ferreri, a un dato che può porre già qualche problema e presentarsi come ambiguo: chi è Isidoro Ferry? Quale ruolo ricoprì effettivamente all'interno della realizzazione del film?
Certo è che si occupò della produzione del film (la sceneggiatura venne inizialmente proposta a la UNINCI che non la accettò. Il responsabile, Ricardo Munoz Suay, individuò in quel rifiuto l'inizio del declino della casa di produzione, più attenta a mantenere una purezza ideologica che a intuire quali avrebbero potuto essere le vie d'uscita per il cinema spagnolo), rappresentando la Documento Film, e sembra proprio che il suo compito si fermasse lì. Infatti, il regista italiano era sprovvisto del permesso sindacale di lavoro. Questa carenza venne facilmente liquidata con l'accreditarsi di Ferry stesso. Non si spiegherebbe altrimenti la presenza alla regia di un personaggio che, secondo una breve biofilmografia tratta da una rivista dell'epoca "era stato aiuto regista in alcuni film, girato alcuni documentari (come Blume), ed era stato addirittura campione di nuoto" (JOSE MARIA PEREZ LOZANO, Esquemas de peliculas vol. III n° 44, Madrid, 1959).
Anzi sembra, senza dubbio, che il "co-regista" si limitasse alla mansione di consulente tecnico, cosicché in tutto e per tutto possiamo attribuire la paternità dell'opera al regista nostrano. Inoltre, anche se quest'ultimo fino ad allora non aveva mai pensato né tantomeno avuto l'occasione di stare dietro la macchina da presa, sembra improbabile che pensasse a un terzo intruso, dopo le avventurose esperienze passate insieme al suo sceneggiatore per arrivare fino alle riprese.
Ad ogni modo El pisito fu un autentico fuoco d'artificio esploso nel cinema spagnolo. Apparentemente in linea con il realismo inaugurato da Bardem e da Berlanga con la sua opera Esa pareja feliz (1951), la sceneggiatura a quattro mani di Azcona e Ferreri si differenzia notevolmente da questo "neorealismo alla spagnola" soprattutto nel tono dell'opera. Infatti se lo sfondo dei primi due possedeva comunque delle sfumature leggere, con la seconda coppia si carica di un'oscurità che a volte si rivela addirittura inquietante, pur utilizzando il linguaggio della commedia.
Se da una parte è evidente la volontà di fotografare la realtà della fine degli anni cinquanta in Spagna, dall'altra appare altrettanto palese la necessità dell'autore-regista, di fissare una precisa tipologia umana inserita in una situazione limite.
In una Spagna dove si vive alla giornata, i personaggi si dimenano e si scontrano tra loro per conseguire il loro piccolo tornaconto. In questo caso l'obiettivo, ostinatamente perseguito da Rodolfo (Josè Luis Lopez Vazquez), è l'appartamento dove vive insieme a Martina (Concha Lopez Silva) - la padrona di casa anziana e prossima alla morte - e Dimas (Josè Cordero) un callista più propenso al vino che al lavoro, e una soubrette. L'avventata decisione della vecchia di lasciare tutti i suoi averi in eredità al protagonista fa scattare un perfido e meschino turbinio di azioni nel quale sono inevitabilmente coinvolti tutti i personaggi che possono trarre un qualsiasi vantaggio dalla situazione. Non sono altro che iene pronte a sbranare la preda indifesa.
Così cala su Rodolfo una pressione che diventa per lui insopportabile, soffocante e che spesso lo fa agire in maniera irragionevole. Principale fomentatrice del suo stato d'ansia è Pedrita (Mary Carrillo), la sua fidanzata che non intende prenderlo come marito se prima non possiede la sicurezza di un appartamento dove trasferirsi. è proprio appartamento (piso in spagnolo, ironicamente posto al diminutivo dall'ammiccante autore) la parola che viene maggiormente ripetuta durante tutto il film, divenendo unico tramite di comunicazione tra individui che hanno cancellato il normale linguaggio sostituendolo con quello del lucro. è una parola che segue l'inacidirsi dei rapporti, in una escalation alla quale porrà fine probabilmente solo la parola fine della pellicola.
Pedrita si fa sempre più incalzante e cinica nei confronti del fidanzato, desiderando la morte dell'anziana signora. Il suo personaggio è quello che maggiormente spicca per cattiveria e perfidia in quel "paesaggio" disperato. La ricognizione che opera all'interno dell'alloggio prima ancora del decesso, ha il sapore di un'autopsia eseguita da un medico prossimo alla pensione. Il momento di rabbiosa consapevolezza provato durante il desolante ballo al "Sesamo" collabora all'occultamento, ormai irreversibile, della sua gioventù, delle sue speranze, della sua purezza.
Una perdita percepita dalla donna che, non a caso, è attenta a sottolineare qualsiasi indizio del passaggio ineluttabile del tempo evidentemente spaventata dalla morte e, soprattutto, della morte come finale imprescindibile di qualsiasi esistenza, anche la più misera e inconcludente. Una concezione, quella di Pedrita, che si oppone alla serena accettazione del proprio trapasso di Martina, anche se palesa un innaturale attaccamento alle cose terrene.
Pertanto il personaggio femminile è quello che attira su di sé le maggiori antipatie. Ma non bisogna lasciarsi trarre in inganno. Infatti la sua colpa maggiore è quella di esprimere apertamente il proprio pensiero in mezzo a una fitta trama di mezze parole, bisbigli e sotterfugi.
Infatti Rodolfo non è da meno, anzi forse, è addirittura peggio. La sua debolezza nei confronti della situazione che si trova a fronteggiare, il continuo non opporsi alle spinte ricevute dagli altri personaggi che lo circondano, la doppia faccia nei confronti dell'anziana che ha riversato in lui tutta la sua fiducia e il suo futuro - arrivando addirittura ad accettare un matrimonio a dir poco scandaloso -, lo trasformano in un bieco uomo senza qualità. Una perdita di dignità che sembra sottolineata dal ripetuto smarrimento del cappello, addirittura gettato in una gabbia di orsi per opera di un bambino dispettoso.
Un uomo che col suo atteggiamento asseconda il delirio della propria compagna, così percorrendo inconsapevolmente il cammino verso il disgregamento del loro rapporto. Questo si presenta simbolicamente quando si ritrovano rapacemente proiettati verso il libretto bancario che è caduto sulla faccia dell'anziana deceduta da qualche istante; la loro avidità viene ripagata col denaro che tanto bramavano, però hanno smarrito qualcosa di altrettanto caro, che difficilmente potranno ricomprare.
Questo menage a trois sui generis è accompagnato da tutta una galleria di personaggi dove nessuno spicca per qualità positive. è comunque evidente che le loro miserie sono imposte da una società repressiva e terribilmente corrotta; sembra quasi che El pisito non sia altro che un catalogo di vittime di una società senza speranza.
Paradossalmente questo film sembra essere anche il catalogo di alcune tematiche che ritorneranno nelle opere successive. Come già abbiamo detto all'inizio di questo lavoro, il pericolo nell'analizzare una prima opera di questo calibro è quello di incorrere facilmente in qualche forzatura. Ad ogni modo sono evidenti alcuni punti di contatto.
La critica, per esempio, è concorde nell'individuare in questa opera l'embrione di un tema tanto caro al regista, quale quello della fissazione. Il pensiero fisso, che inevitabilmente porta alla paranoia, appartiene a molti personaggi di questa prima opera spagnola. Oltre a Rodolfo e Pedrita, si devono menzionare il vero padrone di casa, ossessionato da una malattia alle gambe, o ancora il datore di lavoro ossessionato dal lavoro stesso.
È una situazione creatrice di claustrofobici autoprodotti, che nega una effettiva vivibilità. Sarà quindi questa idea fissa a muovere tanti personaggi delle sue opere successive fino a spingerli alle azioni più estreme. è il caso di film come Il professore (1964), L'uomo dei cinque palloni (1965), Il seme dell'uomo (1969), L'udienza (1971), solo per fare alcuni esempi. A questo proposito il Tinazzi: "Ad interessare Ferreri è prima di tutto lo strutturarsi e il manifestarsi di un'ossessione; ciò che gli importa è toccare un fattore essenziale che sia alla base del comportamento di un uomo. Spesso il film ci fornisce all'inizio i tratti di tale comportamento, tracce che in seguito si svilupperanno: con un'ossessione comincia Il professore (1964); l'idea fissa del protagonista de L'udienza si mantiene per tutta la narrazione; dal conteggio assillante dei pezzi prodotti dalla macchina prende le mosse Break up (1969). Quasi inutile ricordare che su una fissazione si basa tutto il congegno narrativo de El Cochecito, su un'aspirazione costante quello de El visito" (cit. GIORGIO TINAZZI, "Il tempo del non ritorno").
E ancora ne El pisito si può facilmente riscontrare l'incontro/scontro tra uomo e donna che verrà approfondito dall'autore stesso nelle pellicole degli anni futuri. Non si può comunque omettere questo esempio di predominio della figura femminile su quella maschile.
Sempre inerente alla sfera del rapporto uomo/donna e, in particolare, alla pulsione sessuale che tanto appassionò e ossessionò il regista, dobbiamo citare l'ambigua scena dell'eccitamento dei due fidanzati al capezzale dell'anziana moribonda. è un chiaro riferimento alla tematica dell'amore e della morte, eros e thanatos, che serpeggia in molti autori della storia del cinema e che in Ferreri trova il suo apice in film come La grande abbuffata (1973) o La carne (1991). I dubbi nascono invece da quelle critiche che vogliono vedere in alcuni passaggi de El Pisito il germe di quello che sarà lo sguardo surreale e visionario del Ferreri futuro. Infatti, sembra esagerato ed indubbiamente forzato tracciare una linea di unione tra quest'opera e quelle successive solo per alcune scene: il tram che attraversa un gregge di capre; il "viaggio" su una gallina mobile; o ancora lo storpio "salterino". Sarebbe molto suggestivo cadere in questa tentazione, ma non si può dimenticare che Ferreri proveniva dagli insegnamenti di uno dei maggiori esponenti del neorealismo e, sebbene non si possa dubitare della sua incredibile personalità, risulterebbe prematura l'elaborazione di una poetica così forte. Inoltre non si può dare per scontata la sua professata volontà di mantenere una forte attinenza con la realtà che lo circondava.
Queste stravaganze visive sono giustificabili proprio attraverso la volontà di fotografare la realtà spagnola e, in particolare, quella madrilena; è proprio la capitale stessa a offrire spettacoli così naturali, una convivenza così forte tra presente e passato, la crudezza della vita: "Arrivai lì (in una pensione di calle del Carmen) perché mi fu raccomandata da un amico, che aveva vissuto in quel posto mentre preparava il concorso per le Poste. La cameriera era una nana, la cuoca una ottantenne completamente calva e il padrone di casa un omosessuale vergognoso e incantatore chiamato Paquito. La cameriera era spesso ricoverata con gravi ferite alla vagina, perché i concorrenti, eccitati dalla visione di alcune modelle del piano di sotto, l'attaccavano ogni volta che si distraeva." (AA.VV., Rafael Azcona da Nosferatu n°33, Aprile 2000, pag. 34)
Pertanto El Pisito rappresenta non solo un semplice punto di partenza, ma un trampolino vero e proprio dal quale Ferreri si tufferà per sprofondare nel mare dei propri sogni, dei propri attacchi, dei pensieri e delle visioni dai quali non riemergerà più.
LOS CHICOS
Traspongo qui alcune dichiarazioni del regista nell'impossibilità di reperire il film in questione (è una di quelle pellicole fantasma che fanno impazzire i cinefili!).
"Il fatto è che mi chiesero di farlo. È un film così, di intenzioni abbastanza nobili, ma completamente mancato. [...]. È sbagliato e la sceneggiatura non funziona. è una sceneggiatura morta e priva di vita. Se c'erano buoni propositi, non si può dire altrettanto dei risultati. [...]
In Los chicos non c'erano le condizioni giuste, c'erano vincoli imposti dai produttori. La cosa era un po' seccante, niente di più. Vedere gli occhi di gente che non ti chiede nulla, però si piazza lì; e tu guardi alle tue spalle e vedi sei occhi, che stanno sempre lì, senza dire nulla, ma che sono tanto tristi e che si precipitano a vedere il materiale girato prima che potessi vederlo io."

(da un'intervista con Juan Cobos in Film Ideal, n°93, 1 Aprile 1962)
EL COCHECITO
"Un pomeriggio stavo aspettando di attraversare la Castillana quando apparve uno sciame di carrozzelle, guidate da invalidi schiamazzanti; il rosso scattò e mentre attraversavo percepì tra lo scoppiettare dei loro motori, frammenti dell'appassionato dibattito che si portavano dallo stadio Bernabeu:
- Se non ce la fanno neanche con le scarpe!!
- Per me sono un gruppo di paralitici!!"
(AA.VV., Rafael Azcona da Nosferatu n°33, Aprile 2000, pag. 33)
Dopo la parentesi de Los chicos (1959) - un film di cui Ferreri parlò sempre poco e malvolentieri e che, per la sua incredibile irreperibilità tanto in Italia quanto in Spagna, risulta essere oggetto misterioso - il regista torna a collaborare con Azcona.
Basato sul racconto il Paralitico (apparso inizialmente in fascicoli con il giornale Arriba e, più tardi, in un libro affiancato da altre due storie nella raccolta Pobre, paralitico y muerto), il film venne presentato nelle sale con il titolo che noi conosciamo.
Inizialmente però i due artisti avevano pensato a Todos somos paraliticos (che si avvicinava molto di più al senso della sua storia, come sosteneva lo stesso Azcona), che per ovvii problemi di censura non era consigliabile.
Per lo stesso motivo si alterò anche il finale. Venne imposto che Anselmo, pentito per la nefandezza commessa, telefonasse a casa per avvertire del pericolo per poi darsi alla fuga ed essere arrestato come nel copione originale. Inoltre gli stessi autori operarono dei tagli nel montaggio finale per alleviare la sordidezza di una storia che, senza dubbio, intuivano problematica di fronte a quelle "forbici" implacabili.
Inoltre, sembra che Azcona prima che Ferreri si decidesse a realizzarla, l'avesse offerta a Berlanga. Questi non si sentì assolutamente attratto dall'idea (...esa cosa de ortopedia no me gustaba!) e la riteneva insufficiente per un lungometraggio (Azcona aveva già lavorato insieme a Berlanga nel 1959 per la stesura della sceneggiatura di Se vende un tranvia, realizzata da Juan Esterlich con la supervisione di Berlanga stesso).
La riunione dei due amici è sancita dal riaffacciarsi di quelle medesime tematiche caratterizzanti El pisito. Le pulsioni che muovono i protagonisti de El cochechito sono le medesime, pur con qualche sfumatura, dell'opera di due anni prima e sebbene la classe a cui si fa riferimento in questo caso sia la medio-alta borghesia (d'ora in poi sarà questo l'ambiente in cui lo scrittore localizzerà socialmente le sue storie).
Don Anselmo (José Imbert) è il padre di un facoltoso avvocato. Come tipico di quel periodo la casa riunisce in sé più generazioni, ospitando addirittura l'ufficio dove professa la sua attività.
La concentrazione di così tante generazioni nel medesimo luogo fa sì che quelle più vecchie vengano emarginate dalla velocità (e in parte anche dalla poca considerazione!) di quelle emergenti. Anselmo si vede costretto a vagare, annoiato per l'inconcludenza della vita da pensionato dopo tanti anni di lavoro, in uno spazio che non sente più appartenergli. è una situazione deprimente che combatte inventandosi mille modi per ammazzare il tempo.
Poche volte si è vista una descrizione così precisa e spietata - si possono forse citare gli esempi di Sul lago dorato (1981) di Mike Rydell o Una storia vera di David Lynch (1999) - della vecchiaia con tutte le sue ineluttabili conseguenze.
Tipico delle persone anziane è il crearsi una routine basata su appuntamenti fissi. La "gita" al cimitero con l'amico paralitico Luca (José Alvarez Lepe), rappresentata subito nella prima scena, è uno di questi; momento di raccoglimento di fronte alla morte con il potere inconscio di esorcizzarla.
L'elemento che frattura questo equilibrio è l'acquisto, da parte dell'amico infermo, di una carrozzella a motore. Questa, oltre ad allontanare fisicamente i due personaggi, aumenta considerevolmente l'indipendenza del malato, che arriva addirittura a sostenere l'inutilità delle sue gambe naturali.
Il distacco tra i due si palesa subito all'uscita dal cimitero quando Luca, non riuscendo a trovare un taxi per l'amico, pretende inizialmente di lasciarlo lì solo. Un distacco che nella sceneggiatura originale era inasprito dal danneggiamento della carrozzina e dalla conseguente reazione rabbiosa dell'invalido che, dopo averlo incitato a salire sulla parte posteriore del veicolo, spedisce l'amico a prendere la metropolitana (JOSE MARIA PEREZ LOZANO, Esquemas de peliculas, vol. V n° 99, Madrid, 1961).
L'emarginazione del personaggio principale si completa durante la scampagnata con il "club degli invalidi". La felicità derivante dalla scoperta di questo nuovo mondo (alla quale la solare fotografia di Juan Julio Baena conferisce una luminosità che ben accompagna lo stato d'animo della compagnia) induce Anselmo a desiderare il medesimo mezzo di locomozione.
Nasce da qui, per la paura di essere escluso su due fronti contemporaneamente (la famiglia e l'amicizia), la sua infantile fissazione di ottenere quel mezzo che per lui significa libertà, nuova giovinezza, vita. Una fissazione che presto si trasforma, in linea con i precedenti e i futuri personaggi ferreriani, in una ossessione vera e propria.
Una ossessione anticipata e inizialmente confusa per un capriccio senile, come può essere intesa l'abitudine di chiudere le porte e le finestre della casa (su cui si insiste molto), che presto si trasformerà in qualcosa di più pericoloso e irreversibile.
Da questo momento Anselmo si chiuderà nel suo mondo mono-referenziale, dando il via a uno spietato braccio di ferro con la famiglia. Qui inizia lo smascheramento dei personaggi mostruosi che lo circondano. Il nucleo familiare, rappresentato soprattutto dal figlio, non è assolutamente disposto ad assecondare i deliri di un anziano che oltre ad essere un impiccio, grava anche economicamente. Si può individuare nel feroce scontro padre/figlio in seguito al "furto" dei gioielli destinati alla nipote Yolanda (Maria Jesus Lampreave) - nel quale vengono addirittura sfoderati articoli del codice penale (il legame di sangue non ha più importanza!) - la causa principale che spingerà il vecchio Anselmo ad avvelenare i suoi discendenti.
Non è un caso che Alvarito (José luis Lopez Vazquez) sia l'unico che scampi alla tragedia, anche se questo non implica una positività del suo personaggio. Anzi, la dipendenza lavorativa dal futuro suocero, il lasciar scorrere via la vita in maniera sconclusionata (lo vediamo vestito da goliardo) fino al matrimonio - dopo il quale imporre le proprie condizioni - lo avvicinano incredibilmente al Rodolfo de El pisito. E l'ironia della coppia Ferreri/Azcona insiste su questo particolare, facendolo interpretare dal medesimo attore e imponendo così un rimando intrascurabile.
All'elenco non si può non aggiungere Ilario (Antonio Gavilan), l'ortopedico spietato che incalza l'anziano al fine di fargli comprare la carrozzina tanto contesa. E sarà proprio la concessione di una proroga di tre giorni ad assecondare un gesto tanto estremo.
E ancora si può riscontrare in Luca un egoismo ingiustificabile neanche con la sua infermità; uno sprezzo per la situazione dell'amico che non lascia vie di fuga.
L'unico personaggio che sembra possedere buone qualità è Alvarez (Angel Alvarez). Nuovamente gli sceneggiatori si prendono gioco dello spettatore. Infatti il richiamo al personaggio de El pisito è fin troppo esplicito (stesso attore, stesso nome!). Ma se nel primo film ricopre il ruolo di un satiro buontempone con la battuta pronta e con la passione per il cibo, in un atteggiamento burlesco che stride con il cinismo di quelli che lo circondano, nel secondo lo incontriamo come accompagnatore di Vicente (grottesco emblema di una aristocrazia decadente), però mantenendo la medesima ironia.
Quindi se da una parte Anselmo è circondato da una compagnia di perversi teatranti pronti a interpretare i ruoli più convenienti, dall'altra si muove in una dimensione dominata da storpi, mutilati e infermi, dove anche i bambini rappresentano una minaccia per gli anziani, come nel caso degli "aggressori" e possibili ladri che incontrano nel cimitero.
Ma saranno proprio gli emarginati a fornire paradossalmente e simbolicamente una via di salvezza al protagonista, per sfuggire alla pressione psicologica dei primi.
Tutti comunque concorrono a creare un'atmosfera inquietante, contribuendo a tracciare lo spaccato di una società malata e corrotta.
In questo film lo stile di Ferreri si affina. Permane un'evidente distanza quasi cronachistica dai personaggi, anche se i ripetuti movimenti di macchina circolari rimandano ad un universo chiuso che si stringe inevitabilmente intorno ad Anselmo. E proprio a lui è dedicato l'impietoso, forse l'unico, primo piano che lo vede piangere mentre assiste al trasporto dei cadaveri della sua famiglia. Una inquadratura prolungata che, malgrado la prossimità al soggetto, non permette una identificazione con esso ma, al contrario, sembra quasi un atto di accusa enfatizzato dal grottesco tentativo di fuga che seguirà.
La presenza di un gran numero di riprese in esterni (come abbiamo già accennato sapientemente sottolineati dal direttore di fotografia) aumenta il contrasto tra il soffocante mondo familiare e l'altro, carico di speranza, anche se quest'ultimo è frequentemente punteggiato da figure grottesche che si presentano sin dalle prime inquadrature.
È quindi evidente in questa terza opera una crescita dell'autore che assimila un proprio linguaggio, superando alcune ingenuità, per rilanciare una personale visione del mondo la cui alterazione è direttamente proporzionale ad una precisa contestualizzazione della realtà.
La schiettezza narrativa e una innaturale lucidità di analisi saranno le qualità che accompagneranno la prolifica produzione di Marco Ferreri.
Quindi El cochecito, in cui si possono individuare quelle "convinzioni" che col passare del tempo acquisteranno sempre maggiore autonomia, si inserisce, a tutti gli effetti, in quel processo evolutivo e creativo che, come già affermato, era partito qualche anno prima con l'esperienza de El pisito e, perché no, con il suo lungo apprendistato presso la fucina zavattinaiana. Un processo che non incontrerà mai una fine, né tantomeno una pausa. Proprio come quel padre spirituale che lo vide crescere, il regista milanese puntò tutto sulla sperimentazione tematica e, se vogliamo, anche tecnica (sempre se la consideriamo nell'accezione della provocazione).
Una continua ricerca che lo condusse attraverso i risultati più contraddittori, ma che sempre mantenne come costante sia un indomito rifiuto della staticità creativa, sia una coerenza di intenti che contraddistinsero il suo burrascoso passaggio nel cinema italiano ed europeo.
clicca qui per leggere la 1a parte di 1958-1960 Marco Ferreri: El joven director de cine


BIBLIOGRAFIA

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- M. GRANDE, "Marco Ferreri", Firenze, Il Castoro, 1980.

El pisito
- LUCIANO G. EGIDO, Cinema universitario n°9, Salamanca, 1959.
- JOSE MARIA PEREZ LOZANO, Esquemas de peliculas vol. III n° 44, Madrid, 1959.
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- JUAN MIGUEL LAMET, Film ideal n°44, Madrid, Marzo 1960.
- MANUEL VILLECAS LOPEZ, Film ideal n°45, Madrid, Aprile 1960.
- LUCIANO G. EGIDO, Cinema universitario n°13, Salamanca, 1961.
- JOSE MARIA PEREZ LOZANO, Esquemas de peliculas vol. III n° 52, Madrid, 1960.

El cochecito
- MANUEL VILLEGAS LOPEZ, Film ideal n° 69/70, Madrid, Aprile 1961.
- Roman GUBERN, Cinema universitario n°13, Salamanca, 1961.
- JOSE MARIA PEREZ LOZANO, Esquemas de peliculas vol. V n° 99, Madrid, 1961.
- JOSE MARIA LATORRE, Dirigido por... n°87, Barcellona, novembre 1981.

MATERIALI VIDEO
- Fiorella Infascelli, FERRERI, I LOVE YOU, Betacam digital, colore, 55 min., Italia 2000
- Pappi Corsicato, ARGENTO PURO, Betacam, colore, 9 min., Italia 1990