David Lynch: il cuore selvaggio della realtà
di Umberto Ledda
Il nucleo della poetica di David Lynch
si esplicita con evidenza fin dall'incipit di Blue velvet:
dopo placide e assorte panoramiche sul mondo a colori vivi delle
città da sogno americane (il verde del prato, il rosso
delle rose, l'azzurro del cielo), la macchina da presa, dopo
essersi soffermata sull'improvviso infarto del vecchio Beaumont
(che non sappiamo essere il padre del protagonista), procede
lentamente avvicinandosi al terreno per poi oltrepassarlo e
immergersi all'interno della terra stessa, dove in un brusio
insopportabile gli insetti brulicano nell'oscurità. L'effetto
non è certo più quello di una cartolina propagandistica
dell'american way of life. Tutto il cinema di David Lynch
è racchiuso in questa breve sequenza. Ossessionato dall'interno
dei corpi, da ciò che si nasconde sotto la pelle, egli
attraverso il cinema ha sempre cercato infatti di svelare il
lato sotterraneo e oscuro del reale, quei nove decimi di un
iceberg che rimangono sommersi (la metafora è sua). Perchè
ciò che davvero importa non può essere visto,
scorre al di sotto della superficie dell'universo.
Quella di Lynch tuttavia non è una
ricerca connotata da precise motivazioni politiche, come potrebbe
apparire ad una visione superficiale di Blue velvet o
di Twin peaks. Al regista americano non sembra importare
molto di investigare sulle putredini e sull'ipocrisia della
provincia americana. Il nodo centrale delle sue ossessioni pare
piuttosto volto alla ricerca dell'orrore che si cela al di sotto
della realtà, a rivelare il lato oscuro dell'esistenza
stessa, non di una esistenza socialmente, geograficamente e
storicamente determinata. Una ricerca come tentativo di rivelare
l'essenza stessa del reale, di trovare la rivelazione al di
sotto dell'apparenza e della superficie delle cose, che lo avvicina
piuttosto a mistici dell'immagine come Herzog. Che poi questa
rivelazione nei due registi sia opposta nella sostanza (mistica
ed estatica nel tedesco, furiosa e oscura nell'americano) è
un altro discorso. Come Francis Bacon (pittore amatissimo da
Lynch, che lo ha citato più volte - solo per fare un
esempio, il volto di Fred Madison che si deforma e scompone
nel finale di Lost highways), che partiva da figure umane
per poi snaturarle attraverso l'intervento diretto sulla tela
(tramite levigazione, carteggiatura, abrasione) e raggiungere
lo spasmo interiore, così Lynch parte dalla normalità
per poi "straniarla" ferocemente fino a rivelarne
il cuore selvaggio.
Si tratta, prima di tutto, di una sorta
di estremizzazione della superficie, attuata soprattutto attraverso
l'uso dello stereotipo. Portato alle estreme conseguenze, oltre
il punto di rottura, ciò che è abusato si rivela
inquietante e nuovo, come quando, ripetendo troppe volte una
parola comune, questa appare nuova ed estranea, inquietante
nella sua novità. I film di Lynch sono costituiti da
tasselli di una normalità, di una banalità, sconcertante.
Il materiale di cui sono fatti è il cliché,
lo stereotipo rappresentativo, la totale superficialità
contenutistica: tutto Wild at heart è costruito
sui modelli base dei generi cinematografici americani, riprodotti
in modo talmente calligrafico da evidenziare tutta la loro squallida
superficialità. Lynch costruisce i suoi film utilizzando
il luogo comune, facendo ben attenzione a evidenziare la sua
realtà ontologica di cliché. Crea un mondo
che è il paradigma stesso della superficie, della normalità,
dell'ovvietà, costruito con tasselli prefabbricati, con
luoghi comuni di una prevedibilità spesso esasperante:
come i finali di Blue velvet e Wild at heart,
così palesemente vacui e posticci nella loro ipocrisia
consolatoria, o le figure di Twin peaks (tanto ovvie
da essere derisorie), tutte ricalcate sui tipi di un qualsiasi
serial televisivo. Fire walk with me è davvero,
come è stato detto, "un pessimo film diretto da
un ottimo regista", pessimo nella sua ostentata superficialità,
nel suo riproporre gli stilemi più triti di horror, noir,
erotico e quant'altro. Eppure tutta questa smaccata banalità
è talmente esasperata da produrre un senso di fastidio
e di inquietudine, proprio perché lo stereotipo così
arrogantemente esibito si rivela inevitabilmente come tale,
cioè come struttura abusata e priva di senso. Un fastidio
che molti hanno interpretato come difetto, senza valutare che
proprio Lynch, consapevolmente, aveva preventivato la nausea
istintiva verso l'ovvietà di questi personaggi stravisti
in situazioni narrativamente canonizzate. Se la superficialità
crea in chi guarda la sensazione che l'apparenza sia il vero
significato della cosa vista, la sua esagerazione produce l'effetto
diametralmente opposto, instillando il dubbio che la vera essenza
si nasconda necessariamente altrove.
In Lost highways, dove il canone
riprodotto non è tanto quello tematico ma soprattutto
quello strutturale, la semplice estremizzazione di un topos
del genere noir (l'elemento onirico che rappresenta, spesso
in modo ambiguo, la proiezione mentale del protagonista) crea
una mise en abîme stordente e inquietante. Ciascuna
delle due parti in cui è diviso il film può ragionevolmente
essere valutata dallo spettatore come una proiezione mentale
del protagonista dell'altra. Partendo dalla norma strutturale,
attraverso la sua estremizzazione, lo straniamento porta ad
una percezione anormale, radicalmente estranea, che obbliga
ad una nuova e più ambigua decifrazione. Il finale di
Blue velvet è talmente banale e di cattivo gusto
da essere inquietante nella sua insensatezza. Partendo dalla
visione della superficie, lo sguardo ne avverte la meschinità
e prova un senso di vertigine, intuendo un nuovo senso oscuro
che sta nascosto al di sotto. L'introduzione dell'ambiguità
in un contesto normale è una delle più potenti
armi dello straniamento lynchiano: distrugge la certezza delle
cose, il senso univoco in favore di un senso profondo polimorfo,
ambiguo e fatto di risonanze irrazionali invece che di assiomi
e sillogismi. Il vero aspetto della realtà è mostruoso
e inquietante, e ha poco a che fare con le logiche della veglia.
È a tutti gli effetti un senso "notturno",
che solo la mente intorpidita e illogica può scorgere.
Nel cinema di David Lynch, il sogno è
una questione di forma, più che di sostanza, e la creazione
di una struttura onirica è più importante della
messa in scena delle rappresentazioni dell'inconscio. Lynch
non racconta storie surreali osservate lucidamente, ma piuttosto
storie banali (almeno secondo i canoni della suspension of
disbelief cinematografica) con uno sguardo allucinato, la
cui principale caratteristica è l'estrema lentezza, la
diversa durata del tempo. È una visione rallentata e
intorpidita, sia nei movimenti di macchina (Lynch è solito
"zavorrare" la macchina da presa con sacchi di sabbia
per accentuare questo impaccio dello sguardo) che nell'incedere
narrativo. La sequenza del teatro di Mulholland drive,
dove le due protagoniste assistono allo spettacolo di una cantante
che si esibisce in playback, dura troppo, è troppo insistita
per la sua importanza apparentemente limitata. Rappresentata
in modo piuttosto classico, essa finisce però, proprio
per il suo trascinarsi oltre il lecito, col creare inquietudine
e smarrimento. Come spesso accade d'altronde nel cinema di Lynch,
dove una scena banale o secondaria è dilatata temporalmente
oltre misura, fino alla deformazione.
Si crea, in questo modo, un costante fuori
sincrono fra sguardo e mondo rappresentato. Lynch riprende attraverso
la lente di una visione pesantemente rallentata e impastata,
che in rapporto alla sostanza delle sue storie produce un costante
straniamento. Guardando le cose con un tempo diverso si rivela
un nuovo senso e appaiono alla vista le cose oscure e nascoste,
la parte sommersa dell'iceberg, il cuore selvaggio della realtà.
Una nuova forma di visione, come nell'Herzog di Herz aus
glas e Die grosse ekstase des Bildschnitzers Steiner,
dove la frammentazione dell'immagine rallentata porta alla contemplazione
estatica di un'altra verità più profonda. È
così che viene a rivelarsi la totale corrispondenza tematica
fra The Straight story, spesso considerato un corpo estraneo,
e il resto dell'opus lynchiano. In Una storia vera,
ciò che altrove era impostato strutturalmente (il fuori
sincrono della visione) è ora traslato sul piano del
contenuto: non è più lo sguardo di Lynch ad essere
più lento rispetto allo scorrere delle cose, ma quello
del suo protagonista. Sulla sua motofalciatrice, Straight contempla
lentamente un mondo che si muove veloce (la scena dei ciclisti
che lo superano in massa, creando un senso di vertigine), e
si riappropria del senso segreto, questa volta sereno (è
questa, semmai, la novità), delle cose.
Lo stesso fuori sincrono temporale si rispecchia
in un fuori sincrono sonoro spesso evocato dal ricorrere del
tema del playback (Blue velvet, Wild at heart,
Mulholland drive) proprio come ulteriore fonte di straniamento
sensoriale, e quindi come creazione di una visione profonda.
Quando la cantante di Mulholland drive crolla mentre
la voce continua a cantare, è segno inequivocabile dell'incongruenza
fra una realtà inquietante e la sua apparenza: è
una scena emblematica per lo spaesamento che provoca e per l'angoscia
che proviene dallo scoprire di essere stati vittime di un vero
e proprio inganno sensoriale, rivelatosi in tutta la sua evidenza.
Del resto l'attenzione ossessiva per il sonoro, e per tutti
i depistaggi che esso può produrre, è nota in
Lynch fin dai tempi di Eraserhead, dove la musica e il
rumore sono elementi necessari alla creazione di un ambiente
straniante e straniato. Nel cinema del regista americano si
avverte spesso, al di sotto delle immagini, un rombo sordo di
provenienza imprecisata, che potrebbe sembrare il rumore di
immensi macchinari sotterranei (in Eraserhead è
ancora diegeticamente giustificato, ma già da Blue
velvet sarà del tutto immotivato), o di movimenti
tellurici lontani. Non è dato sapere la sua origine,
ma rimane sempre come una presenza costante, cui l'udito si
abitua presto ma che rimane come elemento fortemente ipnotico.
Il ruolo del rumore poi è duplice.
Da una parte, semplicemente, esplicita la presenza di qualcosa
che si nasconde sotto la superficie, la cui immensità
e potenza (spesso le sue modulazioni raggiungono intensità
altissime) non possono che atterrire, rivelando la fragilità
della superficie e il pulsare delle profondità. Dall'altra,
la sua azione è di natura psicologica, creando in molte
scene un senso ossessivo e stordente. Ed è proprio il
programmatico stordimento della percezione visiva e sonora che
porta alla rivelazione di ciò che è nascosto.
Tutta la prima parte di Lost Highways fa sistematicamente
ricorso a questo genere di straniamento: la casa dei coniugi
Madison rimbomba continuamente come se qualcosa dal profondo
si stesse muovendo e la lentezza vischiosa del procedere narrativo
(le dissolvenze in nero sono più lunghe della norma,
spesso l'oscurità riempie il campo per attimi interminabili)
crea un senso di disagio ancora prima che intervengano elementi
narrativi effettivamente perturbanti.
Il rumore, con il suo incedere ottundente,
e la lentezza pastosa ed esasperata della rappresentazione sono
elementi necessari per quella sensibilità straniata capace
di cogliere l'orrore e il caos, ma anche la bellezza selvaggia,
che si celano dietro il quotidiano.