Uno sguardo che cerca un altro sguardo: l'interpellazione nell'incipit di Io e Annie
di Chiara Spinelli
L'incipit è il luogo del testo, sia cinematografico che letterario, nel quale la narrazione, trasmettendo le prime, fondamentali informazioni riguardo al plot, stabilisce un tramite, getta un ponte tra il racconto e i suoi destinatari. Nei primi minuti di un film, come nei primi paragrafi di un romanzo, il racconto, per stimolare quel delicato meccanismo percettivo, cognitivo ed epistemico che fonda il coinvolgimento dello spettatore, deve fare appello ad ogni mezzo, impiegare ogni stratagemma.
L'incipit, come l'explicit, suo naturale contraltare, si apre dunque a forme narrative più libere, che si rivolgono in forma più o meno mediata allo spettatore, seducendolo, invitandolo alla visione: proprio la sua natura di spartiacque lo rende più naturalmente duttile alla presenza di marche enunciative e forme di interpellazione, quelle forme cioè che, secondo Casetti , si rivolgono a colui per il quale è costruito il racconto e non a coloro che vi agiscono. Gli stessi titoli di testa presentano queste caratteristiche, ponendosi in un certo senso come forme di interpellazione allo spettatore: come ha fatto notare Eugeni , essi coinvolgono due livelli diversi di sapere spettatoriale, quello relativo alla diegesi e quello che riguarda il film come oggetto di valore e l'evento della sua fruizione; inoltre appartengono alla stesso livello enunciativo delle immagini, collocandosi in posizione extradiegetica e quindi volgendosi naturalmente verso l'esterno. L'incipit costituisce dunque un piccolo trauma, un istante di sospensione, una zona di confine nella quale, aperto il racconto ma non ancora pienamente collocati i ruoli, la narrazione può volgersi all'esterno, in un movimento conativo e fatico, così come lo intende Jakobson, cioè di "verifica del contatto" e "azione sul destinatario".

Se il cinema classico privilegia un ingresso nella finzione rassicurante, avvolgente, lineare, prettamente espositivo, che metta la storia prima di tutto al centro dell'interesse dello spettatore, così non accade nel cinema della modernità, che non si fa scrupoli di portare lo svelamento, la rottura del dispositivo e l'ambiguità del senso direttamente all'interno del testo, e per il quale l'incipit costituisce dunque un territorio quasi ovvio di sperimentazione.
Le forme di appello più marcate che possiamo trovare nell'incipit sono senza dubbio la voce over extradiegetica e lo sguardo in macchina. Le voci extradiegetiche, sia che appartengano a commentatori eterodiegetici sia che invece palesino la presenza di narratori omodiegetici, spesso mostrano apertamente di rivolgersi a qualcuno all'esterno del testo, attraverso deittici e forme grammaticali io-tu più o meno marcate. La voce over in prima persona ha, inoltre, particolari caratteristiche, diverse da quelle della voce in terza persona: Federica Villa fa notare come la prima definisca un racconto confidenziale, che stabilisce il contatto con lo spettatore in una forma che è quella della prossimità empatica, mentre la seconda definisce un racconto espositivo e marca una prossimità circostanziale.
Per quanto riguarda lo sguardo in macchina, ci troviamo di fronte al grado di interpellazione considerato più forte e trasgressivo per il linguaggio cinematografico. Questa figura rivela un altissimo livello di self-consciousness da parte del testo: grazie allo sguardo in macchina viene, infatti, svelato il lavoro della macchina da presa, che dovrebbe restare nascosto per permettere la massima trasparenza del testo filmico e quindi favorire l'effetto – finzione, e viene coinvolto nel gioco "il solo spazio irrimediabilmente altro, l'unico fuori campo che non può essere trasformato in campo", cioè lo spazio dello spettatore. La sua presenza nel cinema è dunque estremamente limitata e spesso confinata ad alcuni generi ben precisi, come il musical o il comico. Gli incipit segnati da questo tipo di meccanismi narrativi si caratterizzano dunque per un livello molto alto di consapevolezza del testo, che è frutto di un doppio lavoro, di messa in evidenza del dispositivo da una parte e di coinvolgimento marcato del destinatario dall'altra. Se la voce over extradiegetica, grazie alla sua funzione di commento che evoca quella del romanzo ottocentesco, ha finito per essere considerata come meno invasiva e trasgressiva, lo sguardo in macchina mantiene ancora oggi la sua carica eversiva rispetto alla linearità comunicativa del testo cinematografico.
Un esempio celeberrimo di incipit in questo senso è senz'altro quello di Io e Annie di Woody Allen. In Allen è molto marcata la presenza di esordi metanarrativi, non lineari, altamente consapevoli, com'è tipico di un cinema postmoderno e citazionista come il suo. In apertura, una strizzata d'occhio, o anche solo una parziale e temporanea ambiguità della scena iniziale sono caratteristici del suo cinema molto più che una semplice esposizione o un esordio in medias res: gli incipit di Woody Allen scelgono spesso di farci entrare nella finzione attraverso un filtro, che sia lo sguardo di un personaggio, come in Hannah e le sue sorelle, un film nel film, come in Stardust memories, o un racconto di secondo grado, come in Harry a pezzi.
Io e Annie, dunque, come paradigma dell'incipit con interpellazione marcata. Ma nel film immediatamente precedente, Amore e Guerra, Allen aveva già sperimentato questa particolare forma di appello, utilizzandola però all'interno della narrazione e limitandone la carica trasgressiva, giustificata dal genere di appartenenza dell'opera, un po' pastiche, un po' farsa storica, e, più in generale, film comico ispirato ai fratelli Marx. Il film si apriva con una voce over e si chiudeva con uno speech in macchina: due anni dopo, la formula verrà ribaltata e applicata a una commedia sentimentale e moderna, con effetti ben più marcati.
Come mi sono messo in questa situazione non lo capirò mai...
Un'immagine di nuvole che corrono veloci nel cielo e una panoramica sulle croci di legno di un cimitero di campagna aprono il film. Una voce over si lamenta del proprio, infausto destino di condannato a morte che verrà giustiziato all'alba del giorno dopo e riflette amaramente sulla vita e sulla morte. Prima di concludere il proprio amaro discorso, la voce si lascia però andare al classico motto di spirito alleniano: "Me ne vado domattina alle sei. Doveva essere alle quattro, ma ho un avvocato in gamba, ho ottenuto clemenza." Non ci sono interlocutori interni al testo: la voce si rivolge a noi. L'intero film si svolge in flashback a ripercorrere la vita del protagonista, dall'infanzia fino al delitto per il quale sta per scontare la condanna a morte, il tentato assassinio di Napoleone: nell'ultima scena, dopo essere stato giustiziato, l'uomo si congeda dal pubblico con un'interpellazione con sguardo in macchina, prima di allontanarsi con una danza macabra in compagnia della Morte. L'appello dell'incipit è quindi ripreso e chiosato, in modo ancora più forte, dal monologo con sguardo in macchina finale. Il racconto è quindi strutturato dalla soggettività del personaggio che lo apre e mantiene quasi completamente un'aderenza al suo sapere omodiegetico, tranne qualche rara deroga.
Inoltre, l'opera è intervallata da altre due interpellazioni, oltre a quella finale, poste in due punti chiave dell'azione, cioè nel momento in cui Sonja propone a Boris di assassinare Napoleone e quando il protagonista si trova di fronte all'imperatore tramortito e non sa risolversi ad ucciderlo. Questi appelli al pubblico mostrano tutta la matrice cabarettistica di cui, in questa prima fase della sua carriera, è ancora impregnata la scrittura alleniana: le interpellazioni del personaggio sono un misto di nonsense, battute anacronistiche e parodia di speculazioni filosofiche.
I monologhi recitati alla macchina da presa nel corso del film caricano di una valenza forte anche l'incipit in voce over, finendo per costruire nel complesso la sensazione di un racconto - confessione completamente attraversato dalla soggettività del protagonista e dal suo anacronistico senso dell'umorismo. Questa scena stabilisce inoltre un preciso primacy effect, secondo la definizione di Bordwell , una "prima impressione" molto marcata: se le prime parole del personaggio appaiono serie e sembrano aprire la confessione disperata di un condannato a morte (e le immagini e la musica solenne di Prokof'ev confermano l'impressione) ecco che, alla fine della scena, il tipico joke alleniano ribalta il tono del film e apre la strada alla parodia. Il rovesciamento ironico dell'ultima frase modifica radicalmente la lettura successiva dell'opera da parte dello spettatore, che è spinto a riconsiderare le ipotesi fatte sulla natura del testo.
Io e Annie, occhi negli occhi con lo spettatore
L'incipit di Io e Annie è celeberrimo. Alvy Singer, il protagonista, ripreso di fronte, inquadrato fino a metà del busto, gli occhi diretti verso la macchina da presa, inizia a parlare rivolgendosi direttamente al pubblico. Il tono è confidenziale: il protagonista non si presenta, non ci dice il proprio nome, ma condivide direttamente con noi le proprie disavventure sentimentali con Annie come se ne fossimo già a conoscenza. La forma espressiva dello stand up comedian, il cabarettista che, solo di fronte al proprio pubblico, senza scenografia o copione, intrattiene gli spettatori con battute di spirito e aneddoti, si fonde qui con il richiamo alla tradizione ebraica del racconto in prima persona, espressa in letteratura da opere come Il lamento di Portnoy di Philiph Roth e Herzog di Saul Bellow. Questi due elementi tematico - formali, uniti a un riflesso della pratica automaieutica della psicanalisi, fanno da sfondo a un esordio così fortemente autoreferenziale ed influenzano tutto il racconto.
Questo incipit costituisce il punto massimo di self-consciousness mai raggiunto da un esordio alleniano. La scena di interpellazione non ha nessun tipo di motivazione all'interno del racconto: non è riassorbita e giustificata da un controcampo che sveli un interlocutore del personaggio all'interno della finzione. Lo stesso sfondo sul quale si colloca il monologo di Alvy Singer è neutro, quasi a voler evocare uno spazio altrove: prima ancora che il racconto inizi, il suo personaggio principale, colui attraverso il cui punto di vista vivremo tutta la storia, si presenta di fronte a noi, apparentemente al di fuori della diegesi. La trasgressione dello sguardo in macchina, come abbiamo detto, è forte, evidenzia il dispositivo, rompe l'illusione: ma la sua posizione liminare, in questo caso, tende forse un po' a ridimensionarne il potere eversivo.
L'immagine di Alvy Singer, proprio perché collocata all'inizio e fonte del flashback successivo, perde in parte la propria carica di trasgressione nei confronti delle regole della trasparenza del linguaggio cinematografico. Infatti, la sua collocazione nell'incipit assolve probabilmente la funzione di "riassorbire" in parte lo strappo operato nella finzione da questa figura. Se uno sguardo in macchina posto al centro dell'azione, in un momento cioè in cui il protagonista dovrebbe essere assorbito dagli eventi e tutta la concentrazione dello spettatore dovrebbe essere volta alla comprensione del racconto, se, l'interpellazione, dicevamo, in quel caso ha un valore veramente spiazzante, questo avviene in modo meno forte e più mediato se lo stesso viene posto all'inizio del testo. E se l'incipit è un luogo retorico forte, il momento della narrazione in cui il contatto con il mondo esterno si fa più evidente, la soglia del racconto, ecco che allora, come abbiamo già detto, diventa il luogo in cui gli atti di discorso vengono vissuti come più naturali, o quantomeno come meno invasivi. In questo contesto, a diegesi apparentemente non ancora avviata, lo sguardo in macchina di un personaggio-narratore che ci introduce al racconto è sì una trasgressione alla trasparenza filmica, ma meno dolorosa e invadente per l'effetto-finzione. Lo stesso sfondo neutro alle spalle di Alvy aiuta a considerare lo spazio in cui è collocata l'interpellazione come esterno alla storia, un vero e proprio spazio del discorso .
Lo sguardo, quindi cerca e trova l'altro sguardo nell'altro spazio. Il contatto è avvenuto, con una formula spiazzante ma subito riassorbita nel flusso del racconto. L'entertainer Allen, il cabarettista, che sia condannato a morte nella Russia dell'Ottocento o scrittore in crisi sentimentale nella New York dei nostri giorni, sente il bisogno di rivolgersi al suo pubblico, di guardarlo dritto negli occhi, memore della propria tradizione ebraica, della terapia psicanalitica, ma soprattutto della presenza, di là dallo schermo, di un pubblico da coinvolgere ed ipnotizzare fin dalle proprie scene. E cosa di meglio, per ipnotizzare qualcuno, che guardarlo dritto negli occhi?
(1) Francesco Casetti, Dentro lo sguardo, Bompiani, Milano 1989
(2) Ruggero Eugeni, "Nascita di una finzione. La costruzione dello spettatore nei titoli di testa di 'Via col vento' " in R. EUGENI, Film, sapere, società. Per un'analisi sociosemiotica del testo letterario, Vita e Pensiero, Milano 1999
(3) Federica Villa, Il narratore essenziale nella commedia italiana degli anni Cinquanta, ETS, Pisa 1999
(4) Per la nozione di self-consciousness si veda David Bordwell, Janet Staiger, Kristin Thompson, The Classical Hollywood cinema. Film style and mode of production to 1960, Columbia University Press, 1987, in particolare la prima parte relativa al linguaggio cinematografico nel cinema classico americano, curata dallo stesso Bordwell.
(5) David Bordwell, Janet Staiger, Kristin Thompson, The Classical Hollywood cinema. Film style and mode of production to 1960, Columbia University Press, 1987
(6) Come fa notare la stessa Villa ne Il narratore essenziale, op. cit, p.