Richard Kelly
Donnie Darko
di Andrea Fontana
Donare al sogno un percorso specifico, i cui segni siano le matrici base: è questo il senso di Donnie Darko, film del 2001 dell'allora esordiente Richard Kelly. In piena epoca globalizzata, Kelly realizza un film in cui i codici filmici tendono ad una fusione eterea con gli elementi della cinematografia contemporanea e del passato prossimo. Sono presenti tutti i coefficienti che ancora oggi appaiono ossessione della visione significante dell'occhio-cinema di fine millennio: uno fra tutti, lo scollamento fra realtà e sogno, l'inevitabile sovrapposizione delle due "spiagge" che vanno a costituire l'opposizione hegeliana della nostra vita, la quale troppo spesso ci risulta essere priva di Sostanza, così come Spinoza la intendeva. Ma anche la convivenza di due generi come quello horror post-moderno, che tanto ha fatto in lavori quali The Others di Amenabar o The Sixth Sense di Shyamalan, e l'ambientazione collegiale di molto cinema statunitense. Donnie Darko è sicuramente uno dei migliori esempi di meta-cinema.
Colpisce il fatto che l'ambientazione storica ben precisa (il 1988) sia già Storia, con tutti i suoi elementi narrativi interni, che sono ora richiami ad "altro" ora fattori che vanno a costituire l'ossatura della pellicola stessa. Il 1988 è l'anno dello scontro fra Bush senior e Dukakis per l'elezione presidenziale: ne uscirà vincente il primo, futuro sostenitore di quella corrente conservatrice, neo-liberalista - propugnata da interventisti quali Woodrow Wilson -, che andrà poi a costituire l'essenza della politica del Bush figlio. È l'anno precedente all'uscita al cinema di Ritorno al futuro II di Robert Zemeckis (un richiamo palese alle tematiche del film kellyano), di cui Donnie si dichiara grande fan; ancora si sente l'influenza di un film quale La casa di Sam Raimi, destinato a cambiare i codici dell'horror/splatter di allora; è l'anno de L'ultima tentazione di Cristo, uno dei film più sofferti di Scorsese e uno dei più contestati dalla Chiesa perbenista. Fatti storici, filosofie politiche, film destinati a concludere un'epoca e a inseminarne un'altra, fertile di contraddizioni e sterili estetismi. In tutto questo s'inserisce la storia di Donnie.
Nell'illusione perpetrata dalle immagini filmiche, che gettano in un buio conoscitivo lo spettatore, germoglia quel dubbio che annega l'oggettività dell'immagine stessa, per farla riemergere sotto una nuova luce, che è quella della soggettività caratteriale: è la visione del personaggio a coincidere con la nostra, esattamente come succede in Memento di Nolan o The machinist di Anderson. Una coincidenza che diviene assoluta nel momento in cui la confusione di Donnie è anche, e soprattutto, la nostra confusione, derivante dall'impalpabilità di una realtà che sembra sempre più il riflesso di qualcos'altro.
Donnie Darko celebra la morte del Sogno americano, che prende corpo nei colori luminosi dei giardini perfetti di ogni casa, nel balletto su cui punta l'insegnate perbenista, nella filosofia spicciola di Cunningham. Eppure ne evidenzia la necessità, l'assoluta esigenza della sua presenza. Il che implica il sacrificio (un richiamo al film di Scorsese), affinché tale sogno permanga come pallida essenza illusoria, che diverrà poi quella Sostanza alla quale gli americani si aggrapperanno disperatamente, cadendo in un sonno ipertrofico che annebbierà le loro menti. Il sacrificio di Donnie corrisponde a questa necessità, ma scaturisce da una scelta consapevole derivante dall'amore per i suoi familiari e per la sua ragazza. Da questo sonno il popolo americano si sveglierà bruscamente, poco prima dell'uscita del film di Kelly, l'undici settembre 2001. Un boato assordante farà da sveglia. Ma questa, probabilmente, è un'altra storia. O forse no.
DONNIE DARKO
(Usa, 2001)
Regia
Richard Kelly
Sceneggiatura
Richard Kelly
Montaggio
Sam Bauer, Eric Strand
Fotografia
Steven Poster
Musica
Michael Andrews
Durata
113 min