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La macchina da presa avanza lenta, striscia sinuosa verso un cuore verde, si addentra tra le foglie di un sottobosco senza età, e una preda scappa invano dall'uomo cacciatore. È solo l'inizio, perché l'uomo è sempre cacciatore, e sempre sarà preda di fronte ad un cacciatore più forte di lui.
Mel Gibson, regista d'origine australiana adottato dalla cinematografia catto-statunitense, sta facendo un percorso, lentamente si sta addentrando in un sentiero sempre più intimo, sempre più vicino all'uomo, la cui rappresentazione massificata (Braveheart, The Passion, Apolacypto) è solo una colorita moltiplicazione del singolo. Tuttavia, l'impressione che si ha di fronte ad Apocalypto è che Mel Gibson sia arrivato ad un punto, abbia raggiunto il suo scopo, perché forse è proprio questo, la prima apocalisse dell'uomo, che in qualche modo interrompe il suo viaggio, perché nella terra dei Maya non c'è viaggio, non c'è percorso (è una civiltà più forte quella che si presenta al varco), ma un cancro interno che uccide il prossimo, e se stesso. L'uomo combatte, l'uomo uccide, l'uomo sopravvive: l'uomo si estinguerà, per sua natura.
L'assunto di tutto il film sta nelle parole dell'anziano della tribù che racconta di quando tutti gli animali fecero dono delle proprie virtù all'uomo, il quale, dopo che la serpe gli consegnò la verità, si perse nell'oblio del dominio. La tribù della "metropolis" (è un conflitto tra passato e presente) possiede il dono del serpente, detiene il segreto della verità e la usa per sviluppare il proprio potere, per esercitarlo, per dominare dall'alto l'uomo che sta in basso. La tribù che detiene il primato della conoscenza, e che sa tramutarla in potere e dominio, non ha morale ed è prossima anch'essa a perdere la testa, così come, in un sanguinoso rituale gore, è disposta a tagliare quella del proprio nemico. Le figure più alte di questa società "naturale" usano le leggi della natura per sottomettere l'uomo, ma la natura dell'uomo non si può sottomettere, perché ha un'unica legge: la violenza. È una storia di violenza dunque (nemmeno troppo "visiva" come hanno strillato i giornali), è una "history of violence" di un popolo non troppo distante da quello contemporaneo (che è anche peggio, come lascia intendere la scoperta dello sbarco, il vero massacro mai visto), che sfrutta il sapere per sviluppare il dominio, come ci fa intuire il regista con quello sguardo di complicità sull'altare del sacrificio, sulla cima dell'impero, tra chi detiene i poteri della conoscenza e chi sa come utilizzarla.
Mel Gibson, a modo suo, ha realizzato anche un film contro la globalizzazione (la tribù ristretta contro quella massificata), che si compiace di una violenza forse troppo pubblicizzata, che gode di un'ora buona di ottimo cinema (e che per certi versi si trasforma in un misto tra Salò e le 120 giornate di Sodoma e Cannibal Holocaust), sorretto da una sceneggiatura di ferro, a tratti "fastidiosa" per pulizia e scorrevolezza. Dalle ultime produzioni americane, si evince, in modo evidente, quanto sia diffuso il senso di paura, un terrore espanso che, anche nello sguardo, è sinonimo già di sconfitta, e che domina nell'incontro tra il primo gruppo di profughi e quello dei cacciatori. In questa sua critica allo stato attuale delle cose (con un discorso preso molto da dietro, scegliendo i Maya - la società più violenta della storia conosciuta - a metafora della società contemporanea), Mel Gibson propone un'altra strada, lontana dal progresso (la famiglia che volta le spalle alla spiaggia e che torna nella foresta sapendo di dover compiere un'altra strada). In qualche modo c'è un percorso a ritroso (ancora Braveheart, The Passion, Apocalypto), un ritorno all'inferno forse, un ritorno (addentrarsi, tornare nell'utero/carrello iniziale in foresta, rinascita dall'utero/moglie nel pozzo) dopo il quale possono esserci solo gli scimpanzè di 2001: Odissea nello spazio, in qualche modo sempre all'origine e dopo ogni film che si propone di indagare sulla natura del conflitto, che per Kubrick era già universale. Passato e futuro per una società tribale che si rappresenta attraverso il mito della violenza: Interceptor, pellicola che ha fatto la fortuna artistica di Mel Gibson, non è così lontano; e poi c'è il tema del sacrificio, uno dei punti di contatto/crisi con La passione di Cristo, il precedente film del regista australiano: perché se per i testi sacri della cristianità il sacrificio compiuto da un martire è addirittura divino, in questa società è diabolico, in quanto coatto.
Il problema di Apocalypto, però, è che man mano che procede perde colpi, rallenta il passo, sceglie la strada del comune percorso che tutti gli spettatori conoscono, rischiando di dare per scontato molto, quando su qualcosa si poteva ancora indugiare (il significato della conoscenza perde nei confronti dell'uso che se ne fa). C'è molto senso di colpa (lo scambio tra l'anziana e il genero; il figlio del cattivo che viene ucciso dal pugnale regalatogli dal padre; il cacciatore cacciato) per un film che si è posto l'obiettivo di essere il più violento della stagione, e invece, sebbene sia davvero ben girato, in realtà rischia di essere il più incompleto. Qualche inquadratura davvero forzata (la soggettiva della testa decapitata), una costruzione della storia che sviluppa solo i doppi (tutti i cerchi si chiudono, compresa la fuga disperata tra i due che si incontrano nella foresta), per un film che allude all'apocalisse coppoliana (Testa di Giaguaro è Kurtz) proprio in un momento in cui il conflitto tra culture (o all'interno delle stesse culture) ha raggiunto un livello di insana intolleranza (la Babilonia di Griffith è la città Maya). Riguardo, infine, la scelta della lingua originale, al di là di tutte le discussioni sulla veridicità del linguaggio scelto (quello Maya yucateco in uso solo nello Yucatan), va comunque apprezzata la capacità del regista di costruire un film praticamente muto, capace di parlare solo con le immagini, che in qualche modo dicono più di quanto possano fare mille dialoghi: ancora lo sguardo di complicità dall'alto della conoscenza, tra chi detiene il sapere e chi ha il potere di usarlo.
Purtroppo, però, al cinema c'è di meglio, e nel mondo c'è di peggio.
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