Nel 1989 un Wim Wenders, su commissione del Centre Pompidou di Parigi, “pedinava” gli itinerari dello stilista giapponese Yohji Yamamoto, istituzionalizzando, forse per la prima volta, il parallelo fra alta moda e cinematografia. Lo stilista non è sarto, un artigiano solitario o un lavoratore manuale che ha occhi soltanto per la propria opera. Lo stilista è progettista e confezionatore seriale, coordinatore di un lavoro collettivo e stratificato e, come il cineasta, fa spesso i conti con la diffusione delle proprie idee su scala industriale e con il costante riscontro dalle grandi platee nonché, buon’ultima, con la questione della firma come vero e proprio brand creativo.
Tematiche, queste, che Appunti di viaggio su moda e città sfiorava appena, e che ora, invece, si concretizzano in tutta la loro problematicità al debutto su celluloide di Mr. Tom Ford, già direttore creativo per Gucci e Yves Saint Laurent e attualmente titolare di una linea d’abbigliamento che porta il suo nome. Inevitabile che, fin dalla passerella veneziana, l’occhio cadesse sull’abito del film, magari per compiacersi di ritrovare la cifra stilistica e il perfezionismo del Ford designer trasferiti sul grande schermo. Considerazioni scontate e pure un po’ banalotte, alle quali comunque l’opera prima del regista/stilista non si sottrae affatto: A Single Man vanta infatti un’estetica “griffata”, curata al limite della maniera e ben coadiuvata dalla fotografia di Edward Grau, qui al lavoro assieme allo stesso regista. Ogni singola inquadratura è il tassello di una cartolina che, in quanto tale, stilizza con eleganza minimale le coordinate politiche e sociali dell’epoca in questione: i primi anni Sessanta di un’America in piena guerra fredda.
Sotto la superficie impeccabilmente tirata a lucido pulsa però il cuore di una storia profonda e sentita, un racconto di dolore e d’amore perduto, narrato per la prima volta dall’omonimo romanzo di Christopher Isherwood. Un testo che la cosiddetta “letteratura gay” considera miliare e nei confronti del quale Ford non nasconde, per ragioni più e meno ovvie, un forte attaccamento affettivo. Docente di letteratura al college di Los Angeles, George Falconer (un Colin Firth insignito della coppa Volpi, ben sorvegliato e vagamente “mastroiannico”) affronta l’improvvisa perdita del compagno, dividendo il suo tempo e i suoi tormenti tra la vecchia amica alcolista Charley e le lusinghe di un suo giovane studente, nel quale, forse, un po’ si rivede. Fin dalle primissime immaginifiche sequenze, che mostrano George immerso nell’acqua, nel disperato tentativo di risalire a galla, è chiaro che lo sguardo dello spettatore coinciderà con l’occhio interno del protagonista. Fanno fede i repentini cambi di luce e colore, modulati secondo le sfumature che si avvicendano velocemente nell’animo del personaggio, e un accompagnamento d’archi protratto e costante, con il fine di anestetizzare i passaggi più salienti e di confonderli con gli altri. Ma la patinatura di cui si scriveva sopra va a scontrarsi con le esigenze drammatiche della trama e ne attutisce, con apprezzabile sobrietà, anche gli angoli potenzialmente più melò. La ormai nota sequenza del tentato suicidio del professore è quella che forse meglio sintetizza le più nobili intenzioni della pellicola: Falconer che rientra a casa e dispone ordinatamente sul tavolo quelli che vorrebbe fossero i suoi ultimi abiti, scrive una lettera con le istruzioni per l’uso, mette sul piatto un disco accuratamente selezionato dalla propria collezione, si stende sul letto e cerca la posizione migliore per farla finita. La totale assenza di enfasi da parte della regia e il lungo indugiare sui particolari – quasi senza tagli – smorzano il senso tragico delle azioni del protagonista e lo fanno inciampare nei meticolosi preparativi del suo addio, mostrando il goffo “dietro le quinte” della sua scena madre per poi, perfidamente, negargliela.
Trattare con guanti asettici e diluire in questa “estetica anestetica” un film che fondamentalmente tratta dell’elaborazione di un lutto è tentativo coraggioso, tanto più apprezzabile quanto più le opere che oggi invadono le sale sono imbevute di intimismi lacrimosi e sentimentalismi strillati (vedi il fenomeno tutto italiota del “muccinismo di ritorno”). Va da sé che un Ford non vale un Ferreri e che il professor Falconer non è esattamente un Glauco in pena d’amore, con la sua magnifica indifferenza pop verso l’estremismo dei suoi stessi gesti. Più di una volta il neoregista tradisce la sobrietà dei propri intenti, abbandonandosi a numerosi flashback riassuntivi sulla vita del docente e ad un uso dei colori fin troppo schematico. Si ha allora la sensazione che A Single Man, nonostante i molti pregi, sia un lavoro riuscito solo a metà, indeciso se fare di sé un semplice dramma dai toni piacevolmente contenuti oppure una riflessione estetica decisamente più audace.
TITOLO ORIGINALE: A Single Man; REGIA: Tom Ford; SCENEGGIATURA: Tom Ford, David Scearce; FOTOGRAFIA: Eduard Grau; MONTAGGIO: Joan Sobel; MUSICA: Abel Korzeniowski, Shigeru Umebayashi; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2009; DURATA: 95 min.
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