Mantenere il successo, si sa, non è agile. Ma con una nutrita schiera di fan questo può accadere. Quello che è difficile, è ribadire di essere in grado di rinnovarsi e di proporre film, capaci di non apparire solamente mezzi di sfruttamento della scia fortunata. Nel caso di Aldo, Giovanni e Giacomo la cosa è un po' più complessa. Il grande trionfo del divertente Tre uomini e una gamba, girato con pochi fondi e ripagato da incassi favolosi, produsse altri due film, sebbene non all'altezza dell'originale, vale a dire Così è la vita e Chiedimi se sono felice.
Se Tre uomini e una gamba sfruttava spudoratamente le gags che li avevano resi noti a teatro e in tv, gli altri dovevano fare i conti con la necessità di inventare ex novo qualcosa di ugualmente gustoso. I risultati furono inferiori. Con La leggenda di Al, John e Jack il trio comico ha preferito osare: ha deciso di convogliare il budget (sostanzioso) su una trasferta d'oltreoceano, ha scelto di affidare l'intero lungometraggio a tre personaggi vagliati solo in brevi camei distribuiti nei film precedenti e ha cercato di costruire una storia tralasciando il sale della sua comicità, la differenza linguistica e comportamentale dei suoi membri (di fatto Aldo contro tutti). Trama: tre gangster di mezza tacca devono dimostrare al boss (Aldo Maccione) che ci sanno fare, ma combinano disastri.
Lo spunto non è innovativo, ma il rapporto fra i tre di solito promette scintille. In questo caso, salvo alcune occasioni che portano perlopiù a sorridere, più che a ridere di cuore, la volontà di plasmare un storia arzigogolata e fuori dal comune ha condotto i tre a snaturare le loro caratteristiche, che sono legate a un'umorismo smaccatamente regionale, talora nevrastenico e surreale, sovente basato sull'alternato due contro uno.
A furia di sentirsi accusare di costruire il film intorno alle battute, la terna comica ha deciso di infilare le gags seguendo la pellicola. Peccato. Esiste sempre la via di mezzo. Il desiderio di essere riconosciuti come autori ha portato a voler strafare, senza considerare che l'ironia sul dialetto pseudo-siculo può sorreggere le scaramucce in brevi sketch come in Tre uomini e una gamba o in Chiedimi se sono felice, ma su un film di quasi due ore la cosa può pesare nell'economia "acustica" degli astanti.
Soprattutto perché l'unico che regge bene è ovviamente il vero siciliano, Aldo Baglio, mentre gli altri due sono, diciamo la verità, penosi, specie Giovanni Storti. L'idioma che ne esce fuori è una sorta di stentato e risibile cicaleccio noioso e ripetitivo, lontano dalla cadenza isolana che mette in mostra Aldo, e che risulta invece spassosa nel confronto col lombardo degli altri due. La regia è a otto mani (il quarto è ancora Massimo Venier), le scenografie sono più curate, la fotografia e' più ricercata, i vestiti sono perfetti... ma manca la ritmica e/o il climax della comicità a cui ci avevano abituato. Il tentativo è lodevole, ma il risultato è francamente modesto.
In sostanza: il trio più amato dagli italiani (e che ha sostituito nei loro cuori quello targato Lopez/Marchesini/Solenghi) vuole crescere uscendo dai confini, non solo in senso geografico, ma si scontra con la difficoltà data dal voler far coesistere una storia comica con la ricostruzione d'epoca e con la complessità della vicenda stessa. Troppa carne al fuoco per un film lambiccato e un po' troppo lungo.
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