Scorsese vuol dire ossessione: Shutter Island PDF 
Maurizio Ermisino   

Accendete un fiammifero. E poi un altro. E poi un altro ancora. Come fa Teddy Daniels (Leonardo Di Caprio) in una delle scene più suggestive di Shutter Island, l'ultimo film di Martin Scorsese, in cui quello che ormai è il nuovo attore feticcio del regista italoamericano interpreta un poliziotto inviato in un manicomio criminale per indagare sulla scomparsa di una paziente. E si troverà ad indagare anche dentro se stesso, e a combattere i propri fantasmi. La struttura del manicomio di Shutter Island suggerisce quella dei gironi infernali. È evidente nella scena in cui Teddy entra nella parte più nascosta della struttura di detenzione. E cerca di farsi luce accendendo dei cerini, che restano accesi per poco tempo, e non possono che dare una visione parziale. È una metafora di come Teddy abbia bisogno di fare luce: sulla vicenda in cui indaga e su se stesso. Così anche lo spettatore e il critico, cerino dopo cerino, guardano il film di Scorsese non solo per scoprirne passo dopo passo la storia, ma anche per far luce su quell’opera complessa e carica di riferimenti che è il suo nuovo film. Come il manicomio di Shutter Island è una struttura fatta a gironi, nei quali più si scende più si scopre, così l’opera di Scorsese è fatta di strati, un percorso che porta a scendere fino agli inizi della storia del cinema e a risalire “a veder le stelle” fino alla prima e alla più recente opera del regista.

È stato lo stesso Scorsese ad aiutarci a fare luce, a decrittare la sua opera, nell’incontro romano di presentazione del suo film. Mario Sesti ha definito Shutter Island “un film di Fritz Lang girato da Fuller, o viceversa”. Scorsese ha confermato, e a sua volta ha citato altri autori e titoli che sono stati d'ispirazione alla sua opera. Si tratta di Vertigine di Otto Preminger, e de Le catene della colpa di Jacques Tourneur. Partiamo allora da questi due film, due classici noir degli anni Quaranta, per capire cosa li accomuna al cinema di Scorsese. Quello che caratterizza queste due storie è l’ossessione. Una parola che può stare al centro di Shutter Island come a tutto il cinema di Scorsese. Una donna data per morta e poi ricomparsa, e il suo mentore, ossessionato da lei a tal punto da arrivare a compiere qualsiasi cosa, in Vertigine. Un detective privato che si è ritirato in un paesino di provincia e che vede tornare dei fantasmi dal suo passato, impersonati da un ex datore di lavoro e la sua ex amante, moglie del suo ex capo, ne Le catene della colpa. In cui è ancora più evidente il tema dell’ossessione per una persona, e soprattutto il fatalismo e l’impossibilità di liberarsi dal proprio passato, destinato a tornare inesorabile e a condizionare il presente. Per sempre. Anche Teddy Daniels, il protagonista di Shutter Island vive delle ossessioni, legate a filo doppio con il suo passato. La moglie che non c’è più. E i campi di concentramento nazisti di Dachau, ricordo indelebile del suo passato da soldato nella Seconda Guerra Mondiale. Ossessioni che si mescolano, e che cerca di evitare scappando. Non fisicamente, come il protagonista de Le catene della colpa, ma attraverso un proprio viaggio mentale. Un labirinto della mente senza via d’uscita.

Ma Scorsese vuol dire ossessione non solo perché molti dei suoi film ne parlano. È Scorsese stesso ad essere ossessionato. E la sua ossessione si chiama cinema. Scorsese, forse più di ogni altro regista vivente, è un cinefilo, un divoratore onnivoro di cinema, cresciuto e pane e celluloide. Allora, il libro scritto da Dennis Lehane (autore di Mystic River e Gone Baby Gone) è l’occasione per girare un’opera che è la vera e propria summa di tutto il cinema noir e horror. Per farlo Scorsese scende nei gironi della Settima Arte, arrivando a quel cinema seminale da cui nascono questi generi. “Con Shutter Island prende a modello il cinema espressionista tedesco, quello dell’epoca d’oro, tra gli ultimi anni del muto e i primi del sonoro: il cinema praticato da Robert Wiene, Karl Grune, Paul Leni, Friedrich Wilhelm Murnau, Fritz Lang”, scrive Callisto Cosulich. “Non si accontenta di ispirarsi all’espressionismo classico, ma tiene anche conto della sua versione hollywoodiana, importata dagli stessi registi e sceneggiatori tedeschi emigrati a Hollywood”, continua. Così il cerchio si chiude, il cinema europeo arriva in America e diventa il cinema americano che ha formato Scorsese, ragazzino ossessionato dalla visione del cinema. E in questo senso il passaggio dall’espressionismo all’horror è stato naturale. E Shutter Island è anche questo. “Non appena l’isola appare all’orizzonte, essa sembra identica a quelle in cui sono ambientati alcuni classici horror, King Kong, L’isola del dottor Mabuse, La pericolosa partita, L’isola degli zombies e Il vampiro dell’isola.”, scrive sempre Cosulich.

E a proposito di horror e di ossessioni, la discesa/ascesa nei gironi del cinema continua. E arriva fino agli anni Sessanta. E a Roman Polanski, anche lui citato espressamente dal regista tra i suoi modelli. Repulsion, Cul de sac. Ma soprattutto Rosemary’s Baby, film magistrale nel descrivere le reazioni di un personaggio alle prese con una sindrome da accerchiamento. Paranoia, complotto, claustrofobia, mancanza di vie d’uscita. E il dubbio sulla propria capacità di percezione, che sembra vacillare. Non a caso siamo nel 1954, epoca di Guerra Fredda e Maccartismo, altre terribili ossessioni collettive. Mentre quella dell’Olocausto è ancora troppo vicina per non turbare. C’è poi Orson Welles e Il processo, tra i modelli di Scorsese. Ma Il processo significa soprattutto Kafka. E non è forse kafkiana l'atmosfera che pervade tutto il film? E allora si ridiscende lungo i gironi della cultura per tornare in Europa, dove tutto è cominciato.

C’è poi chi, come Variety, ha scritto che Shutter Island occuperebbe nella filmografia di Scorsese lo stesso posto che ha Shining in quella di Kubrick. Accostamento forte, con il quale si può essere d’accordo o meno. Ma il paragone con il film di un altro grande regista dell'ossessione, che ha raccontato sempre personaggi alle prese con i propri fantasmi, è importante per spiegare che Scorsese, come Kubrick, anche se in maniera meno evidente, ha cambiato più volte pelle, raccontando però sempre gli stessi temi. Follia, dolore, frustrazione. In una parola, ossessione. Shutter Island, incursione nel thriller-horror come lo è stata Shining per Kubrick, non è altro che l'ultimo nodo di un fil rouge, rosso come il sangue, che unisce quasi tutti i film di Scorsese. Regista versatile che è passato dal film drammatico, al noir, al biopic, al film di gangster e al poliziesco, continuando sempre un discorso di ossessione e alienazione. “Teddy, torna in te”, è la prima frase che pronuncia, il Teddy Daniels di Di Caprio, mentre si guarda allo specchio. Analogamente al finale di The Aviator, quando Scorsese metteva in scena un'altra follia, quella del magnate Howard Hughes, che, guardandosi allo specchio, ripeteva “il mezzo del futuro”, evidenziando una delle sue tante ossessioni. E che riprende anche la famosissima scena di De Niro allo specchio in Taxi Driver, quella di “dici a me?”. È un altro cerchio (un altro girone infernale?) che si chiude. E che va a comporre quella serie infinita di cerchi concentrici di cui è fatto il cinema di Scorsese. Il cinema della follia e dell’ossessione. Visti i risultati, potremmo dire che il cinema per Scorsese è una magnifica ossessione.

 


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