Mean Streets: le squallide strade di Scorsese PDF 
Fabio Piozzi   

«I peccati non si scontano in Chiesa, si scontano per le strade, si scontano a casa: il resto è una balla e lo sanno tutti.». Questa frase pronunciata su schermo nero nell’incipit di Mean Streets (Id., 1973) dal personaggio di Charlie, interpretato da Harvey Keitel, riassume bene il concetto di fondo del terzo lungometraggio scorsesiano. E’ di strade che si parla sin dall’inizio, di “squallide strade” per la precisione, volendo attenerci ad una traduzione letterale del titolo, suggerito al regista dal critico e sceneggiatore statunitense Jay Cocks (il quale a sua volta l’ha ricavata da una frase di Raymond Chandler: «Un uomo deve camminare in queste squallide strade.»), dopo la lettura dello script. Le squallide strade di un inferno metropolitano specchio di una società (quella statunitense anni Settanta in questo caso, ma il discorso sarebbe generalizzabile sia in termini geografici che in termini cronologici) dominata da pistole, droghe, denaro, debiti e codici non scritti. Little Italy appunto.

Sono gli anni della criminalità divampante ed il quartiere italiano di New York, vissuto in prima persona dall’autore, i protagonisti di quest’opera, esemplificativi dell’altra faccia della società americana. A questo proposito è curioso citare un aneddoto verificatosi in precedenza alla lavorazione del film: George Lucas, futuro autore della saga di Star Wars , contattò Martin Scorsese per chiedere la sua disponibilità a recitare in American Graffiti (Id., 1973), proposta non accettata perché, a detta del regista italo-americano, nulla aveva egli da spartire con gli adolescenti abbronzati della California che di pistole avevano avuto esperienza solo tramite gli schermi del drive-in. Oltre alla risposta verbale arrivò poi quella materiale: Mean Streets (uscito nello stesso anno della pellicola di Lucas) parla di giovani delinquenti che bruciano la loro vita fra tentazioni, peccati, istinti e vizi di una vocazione autolesionista e senza aspirazioni, se non quella di vivere alla giornata. Già Chi sta bussando alla mia porta? (Who’s That Knocking at My Door?, 1969) poteva essere considerato come la prima tavola sulla quale Scorsese, in veste da pittore alle prime armi, iniziò ad abbozzare i primi disegni di una società italo-americana. Mean Streets porta per la prima volta a compimento questa analisi, facendosi carico dei compiti imputabili a ciò che potrebbe essere un trattato antropologico o sociologico: tracciare un profilo, un repertorio di italianamerican, intraprendere un viaggio nella psiche di una categoria di persone “innestate” da oltreoceano nel paese dei sogni e delle speranze. Dice il regista: «Mean Streets fu un tentativo di rappresentare me e i miei amici sullo schermo, di mostrare come vivevamo, cos’era la vita a Little Italy»(1).

Uno dei concetti cardine sui quali si fondano le credenze di chi popola Little Italy è quello della famiglia. Prima di tutto famiglia intesa come luogo domestico da rispettare e proteggere, riferendosi a valori arcaici importati dal paese natale, che vivono e prosperano anche fuori dai confini originari. Un esempio ne è la relazione di sangue che collega i personaggi di Mean Streets: Charlie è nipote di un boss mafioso al quale Johnny Boy deve parecchio denaro, e per questo si trova nella parte di mediatore fra un parente ed un amico. Ma Charlie è anche amante di Teresa, sorella epilettica di Johnny, e dalle insidie e dalle emarginazioni conseguenti la sua malattia cerca di proteggerla. In secondo luogo la famiglia viene intesa anche nell’accezione criminale del termine (pur cercando di evitare il luogo comune e lo stereotipo), quella che stipula e rispetta leggi proprie e stabilisce rigide gerarchie di appartenenza per i propri membri. E sono queste organizzazioni criminali di bassa lega a dominare le strade malfamate della New York di quegli anni, dove le forze dell’ordine sono praticamente assenti se non per intervenire nei casi più gravi e poi andarsene con qualche banconota in più nelle tasche, come nella scena in cui due poliziotti intervengono per la rissa nella sala da biliardo per poi scomparire dopo aver estorto il denaro per pagarsi il taxi. Le forze di polizia più che essere una presenza, fanno parte dello sfondo, spesso relegate solo all’aspetto sonoro che ci permette di scorgerne i rumori in lontananza, come nella primissima scena che apre il film, quando Charlie si sveglia di soprassalto nel suo letto e udiamo provenire dall’esterno della finestra del suo appartamento la sirena di una volante.

Per la gente che brulica i bassifondi di Little Italy, di occupazioni e lavori nel senso stretto del termine non si può parlare: piuttosto il tempo viene trascorso fra una bevuta nella bettola di turno, frequentata dalla solita gentaglia, ed un pestaggio, fra un furto ed un estorsione, fra il contrabbando di gioielli e lo spaccio di sigarette. Oltre che dimostrare di esser legati solo ed esclusivamente ad operazioni illegali (o a lavori “puliti” di facciata come ristoranti o locali di ritrovo, che fungono da copertura), confermano il loro essere circoscritti ad attività sì illecite, ma comunque di bassa lega, di basse aspirazioni. Sono questi gli impieghi caratteristici dei personaggi che popolano le storie raccontate e vissute da Scorsese per le strade di Little Italy. Mean Streets può essere definito un film in the road, storpiando l’appellativo comunemente riconosciuto per una categoria di film (quelli on the road appunto) caratterizzati da vicende che si dispiegano lungo le strade percorse in sella ad una moto o al volante di un’auto . Nel caso di Scorsese i tipi umani rappresentati non imbracciano manubri di alcun tipo, ma armi piuttosto. E le strade non le percorrono, ma le vivono.

Il sottotitolo italiano al film recita: Domenica in chiesa, lunedì all’inferno. E’ quindi chiaro ed esplicitato in partenza il binomio religione e violenza che contraddistingue la vicenda e, di conseguenza, il tessuto di appartenenza. Per stessa ammissione del regista, all’epoca i modi per fare carriera non erano molti: o si sceglieva la strada ecclesiastica partendo dal seminario (idea che Scorsese ammette di aver accarezzato, per poi abbandonare) oppure si optava per la via criminale . O prete o delinquente, insomma. Anche se non era detto che una via escludesse l’altra. Chiesa e violenza sono dunque due poli opposti che si intersecano in modo da stipulare un reciproco patto di non belligeranza. Se da una parte i gangster si preoccupano di salvaguardare l’incolumità di chi ha il potere di intercedere per la loro salvezza finale, dall’altra, più per timore che per vantaggio, i preti scendono a compromessi e possono godere di uno status privilegiato di intoccabili. Status che, in una società come quella appena descritta, vale oro.

L’autore è pienamente consapevole e convinto che il concetto di violenza – non solo fisica, ma anche emotiva – sia connaturato alla società odierna , come una routine perfettamente complementare alle attività quotidiane e familiari, e ce lo dimostra inserendo ad inizio film un finto home movie che riprende Charlie nella vita di tutti i giorni (alcune inquadrature vennero girate nel 1965 ed appartengono alla reale vita privata del regista, mentre altre vennero riprese in super 8 in stile strettamente amatoriale, senza zoom né illuminazioni ). Tra casa, chiesa e strada scorrono immagini che ci documentano alcuni eventi del passato del protagonista, per terminare su di un’inquadratura, anch’essa ripresa dal vero, che mostra la festa di S. Gennaro, celebrazione religiosa di chiara importazione italiana, che solitamente si tiene le ultime due settimane del mese di settembre fra le vie del quartiere situato a Manhattan. I riferimenti religiosi nella pellicola in questione sono molteplici: dalle preghiere del personaggio di Harvey Keitel, alla festa in onore del Santo Patrono, alle croci, ai cimeli e agli oggetti ripresi in svariate inquadrature – l’oggettistica che compare, fra l’altro, era quella realmente appartenente alla famiglia del regista, ad indicare quanto di vero ci sia nella testimonianza filmica a noi proposta. Le basi religiose del regista sono state forti sin da piccolo a causa dell’educazione impartitagli, caratteristica poi trasferita su schermo tramite la trasposizione di personaggi e ambienti che potevano benissimo essere quelli della sua infanzia, imbevuti delle stesse dottrine, ma perseguitati da una sorte meno benevola (anche se parlare di sorte non sarebbe troppo appropriato, per dei personaggi che il proprio destino, loro malgrado, se lo costruiscono con le proprie mani).

Il mondo spirituale è la guida primaria del personaggio-tipo del cinema scorsesiano, ed in particolare di quelli appartenenti ai film ora in analisi, in quanto lontano dalle propensioni laiche (o agnostiche) che dominano l’epoca contemporanea e ben saldo ai valori ed alle tradizioni. La New York mostrata dall’autore in Mean Streets non è quella spersonalizzata e spersonalizzante di Wall Street, degli indici di borsa e dei grattacieli (mostrati solo di scorcio o in lontananza nel corso della pellicola, ad esempio quando il personaggio interpretato da Robert De Niro tenta di sparare all’Empire State Building per spegnerne le luci – i bassi strati che si ribellano a quelli più alti?), bensì è una città vissuta nella parte suburbana, divisa fra la Bibbia da un lato e una pistola carica dall’altro. Un po’ come raffigurato simbolicamente nel tatuaggio sulla schiena di Robert De Niro in Cape Fear – Il promontorio della paura (Cape Fear, di Martin Scorsese, 1991): un enorme bilancia da una parte mostra un piatto contenente una Bibbia che sotto reca la dicitura Truth, dall’altra il piatto contiene una spada sovrastante la parola Justice. Verità e giustizia dunque. Alla prima si tende attraverso la religione, alla seconda ci si arriva per mezzo delle proprie armi. Le preghiere vengono spese la domenica in chiesa, ma l’assoluzione e le pene per i propri peccati si scontano per strada, nell’inferno quotidiano, nella giungla cittadina che genera anime perdute in partenza e che (non sempre) cercano redenzione. In una sorta di fusione, la violenza diviene la vera religione che detta precetti, governa e punisce. Le attività illecite mosse dal denaro (l’unico dio capace di smuovere tutte le menti) sono il mezzo per guadagnarsi la sopravvivenza e la porta d’ingresso per un mondo che rifiuta piuttosto che accogliere, che pone un fine piuttosto che gettare le basi per un inizio, un mondo con il quale è difficile e pericoloso scherzare. La metafora del giocare col fuoco viene a più riprese citata nella pellicola, quando Charlie tocca con mano il centro della fiamma dimostrando che esiste un punto in cui la combustione non scotta, mettendo in atto un trucco «imparato da un prete». Anche Johnny si trova spesso alle prese con le fiamme: nella prima inquadratura con la quale entra in scena lo vediamo intendo a far esplodere un contenitore per le lettere, mentre nel finale dopo aver insultato con la cifra irrisoria di dieci dollari il proprio strozzino, brucia la banconota, e simbolicamente brucia così i valori di un’ intera comunità. Il bisogno di sfida è diretta conseguenza di una vocazione autolesionista dove chi gioca col fuoco, prima o poi, si troverà scottato.

La pellicola in questione si dimostra priva di una trama cosiddetta “canonica”, in quanto si propone di trasporre su schermo le ipotetiche vicende di un perdigiorno chiamato Johnny Boy, invischiato in debiti di ogni sorta, intrecciate a quelle del nipote di un boss mafioso che cerca di mantenerlo a galla. La storia inizia senza che lo spettatore abbia tempo di rendersene conto, mano a mano arricchita da scene accessorie, ma importanti quanto la stessa vicenda centrale, come quella in cui due ragazzi in cerca di petardi illegali vengono truffati per una ventina di dollari. Piccole situazioni superflue a prima vista, ma fondamentali per impostare ed approfondire i rapporti fra i personaggi principali. L’intenzione di Scorsese è quella di darci uno spaccato quasi cronachistico delle vicende che lo hanno sempre circondato nella sua esistenza, che lo hanno svezzato e reso narratore della sua storia americana, quella che raramente si trova sui libri scolastici, per questo piuttosto che cadere nella trappola cinematografica dell’ammanettarsi ad una sola storia, preferisce rendere universale la propria pellicola come fosse una sorta di documentario. Come fosse la vita di una determinata categoria di persone ad essere protagonista e storia di sé stessa, nell’atto di auto-narrarsi senza bisogno di un evento scatenante che generi l’azione e senza finali salvifici che ne risollevino le sorti.

La gabbia di mattoni e cemento nella quale si trovano imprigionati li rende prede delle proprie degenerazioni, permette che la follia e la nevrosi ottundano i sensi di generazioni cresciute nel moralismo e nel perbenismo, in modo che l’unica valvola di sfogo sia da ricercare per strada, fra emarginazione e diversità. Johnny Boy è una mina vagante pronta ad esplodere in ogni momento, e consapevole della propria condizione immutabile di fallito disperato prende alla leggera ogni avvenimento che lo riguarda quasi per esorcizzare il suo stato di eterno perdente nei confronti di un mondo che lo rifiuta. Charlie d’altro canto affoga le proprie frustrazioni di bravo ragazzo peccatore nella relazione con una ragazza epilettica (malattia ancora non sdoganata all’epoca: un epilettico veniva visto alla stregua di un malato mentale, come sottolinea in un dialogo il boss zio del protagonista), confermando da un lato un interesse perverso per una tipologia di donna considerata “minorata”, dall’altro un bisogno di redimere e proteggere pecorelle smarrite. La rappresentazione della società che esce a prima vista da Mean Streets è quella di una società maschilista (Teresa, unico personaggio femminile di peso nella vicenda, fa il suo ingresso a metà pellicola) e dotata di una visione del mondo piuttosto limitante nei confronti di chi è affetto da una qualche malattia o da tendenze sessuali non conformi al senso comune. Chiarificatrice per quest’ultimo punto è la scena in cui su di un’auto con Charlie vengono caricati due omosessuali, molto macchiettistici e stereotipati come la società dell’epoca li etichettava, sbeffeggiati con vari epiteti e trattati malamente a causa dei propri atteggiamenti.

Per interpretare le parte dei due protagonisti, Scorsese sceglie l’ormai fidato Harvey Keitel (che aveva già collaborato ad alcuni lavori precedenti fra i quali Chi sta bussando alla mia porta? nelle vesti di protagonista) ed il giovane Robert De Niro, fresco della doppia collaborazione con Brian De Palma per Ciao America (Greetings, 1968) e Hi, Mom! (Id., 1970). Oltre agli indubbi meriti professionali, i due riescono a conferire un maggior senso di realismo alle parti che si trovano ad interpretare, sfruttando spesso la tecnica dell’improvvisazione (alla quale Scorsese ha fatto ricorso più volte nel corso delle sue opere), sia per quanto riguarda i dialoghi che per quanto concerne le azioni. Il regista ha confermato infatti che nelle scene di risse, capitava sovente che i pugni sferrati fossero veri. Se Keitel aveva già confermato il proprio talento precedentemente, De Niro dimostra di avere il volto e la fisicità adatta per interpretare lo squattrinato e sbruffone delinquente di piccolo calibro, nel pieno rispetto delle caratteristiche tipizzate di esseri umani che cercano di sopravvivere piuttosto che di vivere. Già, solo di sopravvivenza parliamo, perché in quest’opera ciò che emerge dall’analisi dei personaggi è la quasi completa mancanza di aspirazioni a migliorare le proprie condizioni, indipendentemente dalle proprie effettive possibilità. Le uniche propensioni sono quelle a soddisfare i propri vizi (bere, fumare, fare sesso) e nonostante qualcuno, come Charlie, cerchi di portare avanti una relazione sentimentale con una donna, i pochi propositi si trovano a dover lasciare spazio alla mediocrità (per usare un eufemismo) che invade tutto e tutti e che, innestando un circolo vizioso, trascina tutti verso il fondo. Le aspirazioni lavorative si riducono ad elemosinare impieghi presso il locale boss di turno, e se nel futuro Quei bravi ragazzi (Goodfellas, 1990) ci troveremo alle prese con un’organizzazione mafiosa altamente strutturata e nella quale poter seguire un certo iter “lavorativo”, in questo caso nemmeno di ciò possiamo parlare. Sono uomini privi di rispetto per sé e per gli altri, non dominati da un’indole intrinsecamente malvagia, ma guidati da istinti dettati dalla situazione in cui nascono e crescono. Uomini che, pur essendo nella posizione di farlo, non sanno farsi rispettare, come nel caso dello strozzino zio del protagonista che non riesce a riavere la somma prestata e sceglie come opzione ultima quella di assoldare un killer che spari e uccida il debitore (interpretato in un cameo dal regista stesso). E’ questa la fine, quasi sempre prematura, di personaggi noncuranti delle leggi che dovrebbero essere proprie di ogni paese civilizzato e che invece vengono subissate dalle regole e dai regolamenti (di conti), suggellati da un proiettile o da un coltello. La visione pessimistica di un destino chiuso e senza prospettive. Il resto è cronaca che si legge nei trafiletti dei quotidiani da vari decenni.

Scorsese, che aveva già in passato lavorato come supervisore alla produzione e direttore della post-produzione per Street Scenes 1970 (Id., 1970), documentario realizzato nell’ambito dell’Università di New York in occasione di alcune manifestazioni studentesche, e nello stesso anno aveva collaborato a Woodstock – Tre giorni di pace, amore e musica (Woodstock – 3 Days of Peace and Music, di Michael Wadleigh, 1970) nelle vesti non accreditate di aiuto regista e supervisore al montaggio, lascia apertamente emergere l’esperienza maturata sul campo delle riprese dal vero, sfruttando per la pellicola attualmente in analisi un massiccio uso della camera a mano. Forte è l’eredità di Samuel Fuller , quella di una macchina da presa mobile e coinvolta che «aumenta la sensazione di violenza, amplificandola»(2). Per Scorsese non è possibile non avvertire la violenza e l’uso della macchina a mano non fa altro che convogliare un senso di ansietà e irrequietezza, dando l’impressione allo spettatore di essere partecipe di una vicenda reale e filmata nel suo svolgersi. Come esemplifica la già citata festa di S. Gennaro di inizio film, ripresa dal vero a New York durante i pochi giorni di lavorazione concessi in loco, mentre nei restanti la troupe dovette spostarsi e ricreare l’underworld urbano di Little Italy per le vie di Los Angeles, letteralmente “sporcando” di immondizia le strade della metropoli californiana per renderle più simili ai sobborghi newyorkesi. Furono le ristrettezze economiche a caratterizzare i mezzi ed i set per questa pellicola, ma ne risultarono anche il punto di forza: dove l’uso del carrello non era possibile perché economicamente troppo dispendioso, si dovette “ripiegare” sull’uso della camera a spalla, espediente meno costoso, ma genuino, meno artificiale e molto più efficace nel rendere la verosimiglianza.

Dopo il finto filmino amatoriale d’inizio sul quale scorrono i titoli di testa, vediamo una ripresa dall’alto che ci consente di scorgere una fiumana di gente radunata per un evento, quello della festa religiosa appunto, e tale inquadratura aumenta di dimensione fino ad occupare l’intero schermo. Un suggerimento per far intendere allo spettatore che ciò che sta per vedere potrebbe essere integrato al filmato artigianale appena proiettato, sottolineando il carattere documentaristico delle immagini. Scorsese utilizza la macchina da presa come se il set fosse il «contesto live di un concerto rock, una jam session attoriale dove tutto accade contemporaneamente»(3), per citare le parole di Serafino Murri, dove l’occhio dello spettatore (o meglio “l’occhio dell’osservatore”, perché quanto è mostrato travalica il concetto di spettacolo e spettatore), è sollecitato da continui ed apparentemente grezzi e sporchi movimenti di macchina, coadiuvati da una tecnica di montaggio vertiginosa.

La filmografia aggiornata al presente di questo cineasta dimostra una sua sempre costante attrazione per il mondo dei documentari e delle riprese effettuate dal vero. Oltre ai lavori sopra citati Scorsese dirigerà L’ultimo valzer (The Last Waltz, 1978), un concerto filmato integrato da interviste e backstage realizzati ad hoc per testimoniare l’ultima esibizione live dei The Band. Dopodiché troviamo due elaborazioni personali della storia del cinema con Viaggio personale con Martin Scorsese nel cinema americano (A Personal Journey with Martin Scorsese through American Movies, 1955) e Il mio viaggio in Italia (My Voyage to Italy, 1999). Il particolare interesse per il mondo musicale lo porterà poi ad occuparsi dell’episodio Dal Mali al Mississipi (Feel Like I’m Going Home, 2003) per il progetto The Blues, per poi trattare del più celebre cantore made in Usa, Bob Dylan, nel lungo documentario No Direction Home: Bob Dylan (Id., 2005).


NOTE

(1) Ian Christie e David Thompson, a cura di, Scorsese secondo Scorsese, (tit. or.: Scorsese on Scorsese, London, Faber & Faber, 1989), Milano, Ubulibri, 1991, p. 74.
(2) Idem, p. 72.
(3) Serafino Murri, Martin Scorsese, Milano, Il Castoro Cinema, 1993 (ed. agg. 2007), p. 39.

 


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