Moloch: la banalità del Male PDF 
di Marco Toscano   

Intervenuto nel corso di una jam-session del festival ghezziano "Il vento del cinema" (Procida, giugno 2005), dopo aver preteso che durante il suo discorso venissero spente le immagini che scorrevano - mescolandosi suggestivamente alle loro parole - dietro le spalle dei vari relatori, Sokurov dichiarò che il cinema è afflitto (storicamente) da tre gravi difetti: manca di una cultura accademica; manca di una cultura dello sviluppo del proprio linguaggio grammaticale; è stato inventato in Europa, in precise condizioni storico-culturali. Se fosse nato invece all'interno della cultura orientale, che al contrario di quella occidentale presenta una forte spinta conservativa, avrebbe probabilmente maturato da subito una completa indipendenza dalle altre arti e non avrebbe goduto di quella formazione aggressiva che lo ha reso prepotente e arrogante nei confronti di quest'ultime. Sokurov definisce così il regista un "ladro", il quale attinge senza scrupoli da fotografia, musica, pittura, si rifiuta di parlare di "nuove arti" (ma solo di nuovi artisti) e considera la letteratura come la massima espressione artistica.

Se su quest'ultimo punto potrebbero essere sollevate alcune riserve (ad esempio, direbbe Giovanni Chiaramonte, il cinema non poteva non nascere in Occidente, perfettamente inscritto in una tradizione e inserito consequenzialmente all'apice dell'evoluzione di una storia dello sguardo che aveva già inventato la camera oscura, la prospettiva, il cannocchiale e la fotografia), non si può non concordare con gli altri, così come sulla seguente, successiva affermazione: l'immagine è arma molto pericolosa perché ha il potere di disinformare, disorganizzare e soprattutto depersonificare, creando uno spettatore passivo, privato di una capacità critica e analitica. Il cinema stesso può rivelarsi inoltre una macchina infernale, in cui il poco che rimane di "umano" è costituito dall'intervento dell'artista: senza l'opera capace di quest'ultimo non vi è armonia nell'universo, solo disordine e violenza. La risolutezza e compiutezza di tali idee (compresa l'ostilità insanabile nei confronti della televisione) non può che riflettersi nella attività registica del grande autore russo.

Che Aleksandr Sokurov non sia un semplice epigono di quel compianto maestro che è Andrej Tarkovskij (pur nella discutibilità della sua tarda produzione - con particolare riferimento a Nostalghia e Sacrificio - intrisa da un misticismo di maniera e appesantita da un simbolismo eccessivo e impenetrabile che diviene barriera e ripiegamento autoreferenziale, labirinto di segni fine a sé stesso), è un dato di fatto innegabile. La sua poetica attinge sicuramente più di un elemento dall'opera di quest'ultimo e vi si ricollega idealmente. Tuttavia, lungi dall'essere una prosecuzione impossibile di quella dell'amico prematuramente scomparso, essa rivela immediatamente la propria originalità e irriducibilità a modelli precostituiti, connotandosi soprattutto per uno sperimentalismo instancabile rivolto alla "forma" e alla struttura cinematografica (l'alternanza tra documentario e fiction), alle possibilità tecniche del mezzo cinema (portate al loro estremo nell'ininterrotto piano-sequenza di Arca russa, che rappresenta uno studio anche sulle dinamiche di coordinamento simultaneo dei molteplici contributi su un set), nonché alla natura ontologica dell'immagine stessa e alla sua capacità di suggerire l'irrappresentabile, di materializzare l'invisibile (come nelle varie Elegie, veri e propri esperimenti di "poesia visiva"). È quest'ultima ricerca a condurre alla formalizzazione di uno stile ben riconoscibile, debitore di Tarkovskij come di Ozu e non a caso definibile, secondo le categorie individuate da Paul Schrader, "trascendentale", uno stile che prende le mosse (come nel capolavoro Madre e figlio) da un'esperienza del tempo dilatata e meditativa, da una concezione dell'immagine basata sulla sottrazione e depurazione (sebbene anche sulla deformazione), da una tensione spirituale nel porre l'uomo al cospetto della natura e del proprio disfacimento.

L'uscita nelle sale dell'ultima fatica dell'autore, Il sole, getta nuova luce sui due film precedenti che con questo vanno a comporre la trilogia da lui dedicata al tema del potere e della sopraffazione che esso inevitabilmente produce, e che per lo stesso Sokurov sembra trovare la sua espressione più compiuta (ma anche più ambigua) negli anni che abbracciano il secondo conflitto mondiale. Se Il sole si focalizza infatti sulla figura dell'imperatore giapponese Hirohito, Toro era invece incentrato su quella di Stalin, mentre Moloch prendeva in esame il personaggio di Hitler.

Moloch rappresenta dunque il primo capitolo di questa ideale trilogia. Nel 1942 il Führer, accompagnato da Goebbels e Bormann, raggiunge Eva Braun in un castello sulle Alpi bavaresi. Sokurov ne mette in scena il quotidiano non per curiosità morbosa, ma per riflettere su temi universali, per evidenziare l'inscindibilità di orrore e follia, di mostruoso e ridicolo. In qualche modo egli "demistifica" il Male e, nel farlo, ne indaga le radici oscure, le origini più profonde: quella "banalità del Male" coniata da Hanna Arendt a proposito dello sterminio degli ebrei, la stessa richiamata da Slavoj Žižek nel riferire il celebre esempio del grigio e anonimo burocrate nazista che, dopo una giornata passata a svolgere il proprio aberrante compito all'interno del lager, torna a casa dalla moglie e i figli, premuroso e sensibile, e quindi si mette a suonare il violino. In quella che può apparire una evidente dissociazione della personalità e del comportamento, il confine tra uomo e bestia è invece saltato del tutto proprio nella marcazione di quello tra dimensione affettiva/compartecipazione e dimensione lavorativa/estraneità. Non si affama, si umilia, si tortura e si uccide dunque per odio, ma per cieco e perverso senso del dovere: e se l'odio, anche il più acceso, come tutti i sentimenti tende ad affievolirsi col tempo e a svanire in conseguenza della propria soddisfazione, gli ordini continuano invece ad arrivare e pretendono di essere assolti. Perciò nei lager nazisti (e in ogni situazione assimilabile, ammesso che ce ne siano) l'orrore è potenzialmente inestinguibile, poiché non è prodotto dall'essere umano, bensì dall'automa: non è lo straordinario, ma l'ordinario, non l'eccezione, ma la storpiatura burocratizzata ed elevata a sistema (e questo è anche il motivo più volte sottolineato della tragica efficienza di funzionamento dei campi di sterminio nazisti).

È in conseguenza a ciò che Moloch sembra intessere affinità più con lo sconvolgente Salò pasoliniano, peraltro ancora più radicale, che con il film-saggio di Syberberg (Hitler, un film dalla Germania), complesso calderone nel quale il Führer è visto come incarnazione stessa dal Male, ma anche come specchio di un inconscio (nazionale e individuale) e "cuore di tenebra", nonché artista alla ricerca nientemeno che dell'opera d'arte totale. La differenza di approccio ideologico-concettuale con l'opera di Syberberg trova conferma in una disparità antitetica di messa in scena, dove la spiccata teatralità di quest'ultima è sostituita dall'anti-teatralità di Sokurov. Dal punto di vista più prettamente cinematografico, inoltre, Moloch mette in risalto una delle cifre caratteristiche dello stile del regista russo, vale a dire la peculiare attenzione per il sonoro. Esso, infatti, in sintonia con una scelta fotografica "equivalente" (l'utilizzo di filtri per ricreare una dimensione arcana) viene rielaborato e riverberato in modo tale da assumere echi e rimbombi cavernosi, così da suggerire una sorta di sospensione, una "distanza" indefinibile. La mdp è penetrata nell'antro del mostro, ma d'altronde è la stessa sala cinematografica a configurarsi platonicamente come una "caverna" (oppure un osservatorio stellare), all'interno della quale però le ombre sulle pareti non sono la falsa imitazione della realtà, ma l'unica realtà possibile.

 


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