Per un elogio della coerenza: il cinema di Robert Redford PDF 
Aldo Spiniello   

Di fronte alla magnifica e problematica complessità di The Conspirator si ha la conferma definitiva: Robert Redford è un grande autore. Da sempre. Perché da sempre, sin dai suoi primi passi come attore, ha portato avanti con estrema consapevolezza una personalissima idea del cinema e del mondo. Icona dal fascino impagabile, grande star degli anni Settanta, Redford si è legato a filo doppio con la grande lezione politica e morale del cinema americano progressista e impegnato, continuando poi il percorso con una coerenza più unica che rara, come attivista politico, organizzatore culturale (il Sundance Film Festival), come regista. E, proprio nei film che ha diretto, ha definito, con una chiarezza e una capacità di approfondimento sempre maggiori, la sua visione. Al punto che The Conspirator, oggi, ridefinisce e, in qualche modo, porta a compimento tutte le tracce disseminate a partire dal quel fatidico Gente comune, esordio registico del 1980. Con buona pace di chi non riesce a vedere oltre la superficie magnificamente retrò del suo cinema.

È proprio da Gente comune (titolo che è già una dichiarazioni d’intenti) che occorrerebbe ripartire: perché è il punto in cui tutto s’incrocia, il passato e il futuro, la carriera d’attore e la sfida del regista. È Gente comune il cuore pulsante di un cinema che non può rinunciare a muoversi all’interno delle coordinate del classico, un cinema di storie e racconti, ma soprattutto di uomini e donne, personaggi concreti, fisici, inquieti, desideranti, incarnati da attori, veri e propri centri d’attrazione della messinscena. Il regista Robert Redford tende a scomparire, a lavorare sottotraccia (un po’ la caratteristica del suo modo di recitare). E anche se il suo (e il nostro) sguardo aderisce a pieno ai tormenti del giovane Conrad, riesce comunque a scorgere e a far emergere le ragioni, le incertezze e le fragilità di tutti i suoi personaggi. Senza giudizi. Una narrazione che, sebbene mai neutrale, vuole essere equidistante, democratica, traducendosi in un cinema profondamente polifonico, dai molteplici punti di vista, dai plurimi centri emotivi e narrativi. E, proprio al fine di creare questa polifonia, decisivi, naturalmente, sono gli attori, le interpretazioni perfettamente funzionali di Donald Sutherland e Mary Tyler Moore, ma soprattutto lo straordinario Timothy Hutton (al suo esordio cinematografico) e un incredibile Judd Hirsch, grande figura nascosta (e poco sfruttata) del cinema americano a cavallo degli anni Settanta e Ottanta (che ritornerà in Vivere in fuga di Sydney Lumet). Equilibrio e assoluta assenza di retorica sono, dunque, le caratteristiche manifeste di questo cinema polifonico che raggiungerà i suoi estremi nei film successivi: in Quiz Show (1994), lucida e corrosiva indagine sulle distorsioni della società dello spettacolo, ne L’uomo che sussurrava ai cavalli (1998), film d’altri tempi che letteralmente esplode in sottotracce, all’inseguimento dei percorsi inafferrabili dei cuori dei protagonisti, e soprattutto in Leoni per agnelli, probabilmente irrisolto, ma affascinante film dialettico, che cresce e si dibatte nel suo confronto estenuante tra le varie visioni di una nazione complessa e contraddittoria.

Ecco, se quest’equidistanza dello sguardo di Redford è pur segno di una misura classica, è indice anche di una problematicità tutta contemporanea, di una sottile crisi di sistema. E non è un caso che, proprio a partire da Gente comune, tutto il cinema di Redford sia percorso, sotto traccia, da un originalissimo paradosso (dell’attore?): l’impossibilità di manifestare i propri sentimenti e le proprie idee, l’incapacità di esprimersi se non attraverso la rappresentazione, la messa in forma di quest’originaria impotenza. A partire da Conrad (ma in un certo senso anche dalla madre Beth), i film di Redford sono attraversati da personaggi bloccati, chiusi nel guscio della loro afasia sentimentale: la piccola Grace e l’apparentemente glaciale Annie de L’uomo che sussurrava ai cavalli, il Junuh/Matt Damon de La leggenda di Bagger Vance, i due fratelli (ognuno a modo suo) di In mezzo scorre il fiume. È un blocco che altrove si fa simbolo, metafora: i soldati fermi sulla linea di tiro in Leoni per agnelli, il cavallo Pilgrim, la Mary Surratt di The Conspirator, costretta in prigione e, ancor più, nel suo ruolo di madre. E proprio in risposta a quest’impotenza diviene centrale la figura del mentore, incarnata alla perfezione dal misterioso Bagger Vance/Will Smith, angelo caddie venuto dal nulla, archetipo che assorbe in sé tutti le altre guide più o meno consapevoli: il dottor Berger di Gente comune, il sussurratore Tom Booker (a sua volta bloccato nel ricordo della moglie e nell’impossibilità del suo amore per Annie). Sono questi personaggi che assumono su di sé il peso e il rischio della funzione che Redford attribuisce al proprio cinema: costringere allo scoperto, far venire fuori il rimosso, il segreto covato sotto le ceneri dei cuori e delle storie, della Storia.

Ogni film è giocato su questa sfida. Da un lato la paura/rimozione, dall’altro la ricerca costante di una presa di coscienza profonda e di un’assunzione di responsabilità che aiuti a superare l’impasse, il conflitto. La paura si traduce in una crisi dell’espressione e della parola, incapace di rivelare (o svelare) e collegare. Crisi che, partendo dall’interiorità, si allarga alla famiglia (Gente comune, come sempre, In mezzo scorre il fiume, L’uomo che sussurrava ai cavalli), alla società (Quiz Show) e all’intera nazione (Leoni per agnelli, The Conspirator). Crisi che raggiunge il suo culmine proprio nell’ultimo film, al punto che la barzelletta raccontata dal tenente Aiken al compagno ferito rimane a metà, abortita al vertice della sua parabola espressiva. È già il presagio di come tutta la dialettica e tutto l’impegno del giovane avvocato nulla potranno contro la ragion di stato che ha già condannato la sua vittima designata, Mary Surratt. Epperò, a fronte di questa crisi, il cinema, per Redford, non può esimersi dal suo compito quasi maieutico, non può rinunciare al tentativo di colmare questo vuoto dell’espressione, per restituire alla parola il suo ruolo di costruzione di sensi e legami. Ogni film è il racconto di una ricerca della verità, dunque. Ed è proprio attraverso quest’idea che Redford torna al cuore profondo del grande cinema progressista americano, quello di cui è stato il più compiuto e risoluto interprete, quello dei Pollack e dei Pakula, de I tre giorni del condor e Tutti gli uomini del presidente. Ma, cosa ancor più affascinante, vi torna solo attraverso sentieri assolutamente non conformi. Perché, sebbene Redford abbia sempre ben chiara la sua appartenenza, è pur vero che il suo sguardo sembra spesso agli antipodi, concentrato sull’America profonda, quella rurale, quella ancora legata a valori e miti della tradizione, in un certo senso ancora ai margini, se non in aperta opposizione con le dinamiche della contemporaneità. I cowboys di L’uomo che sussurrava ai cavalli, i pescatori del Montana, il midwest o il profondo sud. Un paesaggio e un’iconografia che, forse, appartengono a un altro cinema, a un altro immaginario, un infinito western figlio dei sentieri selvaggi e delle comunità fordiane. Ma le deviazioni sono solo apparenti. Perché anche se s’immerge, a partire da Milagro (1988), nel passato, Redford racconta sempre in filigrana il presente. Anche se sembra abbracciare e cantare un’altra idea d’America, lontana dai modelli e i riferimenti democratici, non fa che guardare al cuore magnifico e complesso della nazione. Perché sa che, forse, non v’è contraddizione alcuna tra l’una e l’altra immagine del Paese.

E in The Conspirator sembra dirlo una volta per sempre. Questo film sull’assassinio di Lincoln parla di oggi, del post 11 settembre, di Guantanamo. E arriva all’essenza stessa dell’America (e forse del mondo intero), che riposa sì sull’idea di libertà, ma anche sulla certezza che questa libertà non può che fondarsi sull’uguaglianza democratica dei diritti e, in primo luogo, sul diritto di vedere ed essere visti nella verità di ciò che si è. Questa uguaglianza e questa verità potranno essere condizionate, negate, sepolte, ma in qualche modo torneranno a rivivere nei cento, mille tribunali che giudicano il Paese. Forse non in questo mondo. Ma almeno nell’altro mondo, quello del cinema, la Corte Suprema del reale, nata per difenderci e darci l’illusione di un’immagine che dia di nuovo un senso alla vita.

 


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