Asa guarda la terra natia con occhi di un innamorato. Ha conosciuto il mondo, è stato per mare e per città, e ha deciso di tornare alla terra natia. Anche se è selvaggia. Anche se è inospitale. Anche se è la steppa del Kazakhstan. Anche se la sua unica prospettiva per il futuro è una vita da pastore nomade in una terra inospitale. Ma Asa desidera fortemente diventare un pastore, possedere un gregge: muoversi tra le impervie terre kazache è il suo sogno, e perché ciò si avveri Asa ha bisogno di sposarsi. Tulpan è l’unica giovane in età da marito presente nella provincia. È figlia di pastori nomadi, conosce la vita della steppa e desidera la città. Desidera l’istruzione, desidera il progresso, l’emancipazione. Tulpan è la chiave per la realizzazione dei sogni di Asa, ma gli sfugge. Drammaticamente si nega e fugge. Ad Asa nemmeno la consolazione di conoscere il volto della donna che inseguendo i propri sogni gli nega il futuro desiderato.
Prima opera di fiction del documentarista kazako Sergey Dvortsevoy, Tulpan ci offre un’attenta riflessione sulla natura dei desideri umani cogliendoli laddove il desiderio è più “genuino”, ossia in una realtà fuori dal tempo e avulsa dalla modernità come quella dei pastori nomadi che popolano le steppe kazake. Sebbene la vicenda abbia inizio con i toni della commedia (ufficialmente Tulpan rifiuta la proposta di Asa perché questi ha le orecchie a sventola), ben presto la formazione documentaristica dell’autore prende il sopravvento. Dvortesevoy si lascia coinvolgere in lunghi piani-sequenza che immortalano la steppa del Kazakhstan, la sua natura impervia fatta di sabbia e sterpaglie e trombe d’aria e solitudine e vecchi riti e credenze popolari. Eppure, sebbene la pellicola iconograficamente si presenti con taglio documentaristico, la distanza con quelli che nel tempo si sono imposti quali elementi caratteristici del documentario moderno rimane ampia, laddove alla "verità" delle immagini si contrappone una traccia sonora improntata invece ad un marcato iperrealismo. Infatti, nonostante l’impressione sia quella di un suono catturato in presa diretta, in realtà risulta presto evidente come tutto sia amplificato: suoni, versi, dialoghi e musica, nella loro artificiosità, contrastano con la lentezza delle immagini che scorrono e parlano di solitudini e silenzi.
Potremmo affermare, allora, che questa dissonanza, questa giustapposizione di stili e situazioni sia il pregio e insieme il difetto maggiore della pellicola, perché laddove ne individua la particolarità ne costituisce, d’altra parte, un limite, rendendone difficile la fruizione da parte del grande pubblico. Tulpan è dunque un gioiello per gli occhi, un insegnamento prezioso sul valore del ritorno e sul desiderio del ritorno alle origini ma, suo malgrado, troppo lontano dall’iconografia cui è avvezzo il pubblico per poterlo condividere e apprezzare in tutta la sua complessità. Tulpan è un tulipano che sboccia nella steppa. È bellissimo, ma solo pochi lo sapranno.
TITOLO ORIGINALE: Tulpan; REGIA: Sergei Dvortsevoy; SCENEGGIATURA: Sergei Dvortsevoy, Gennadi Ostrovsky; FOTOGRAFIA: Jolanta Dylewska; MONTAGGIO: Petar Markovic, Isabel Meier; PRODUZIONE: Germania/Kazakhstan/Polonia/Russia/Svizzera; ANNO: 2008; DURATA: 100 min.
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