Hors-la-loi PDF 
Giulia Palmieri   

Non esistono fatti. Solo interpretazioni. Se estrapolassimo questo diktat dal suo contesto originario e lo applicassimo al mondo della celluloide, sarebbe difficile sollevare obiezioni. Poiché un film non potrà mai essere oggettivamente bello o brutto. Avrà sempre una serie di sfumature più o meno cangianti che verranno ignorate o assimilate in maniera molto diversa. L’inquietudine e l’imbarazzo di chi scrive di cinema ristagna proprio in questo dualismo: spesso si trova a confrontarsi con opere dall’impatto visivo impeccabile, manchevoli però di quell’equilibrio formale capace di renderle eterne. Hors-la-loi è una di queste. Paragonabile ad un pasto avvelenato, i cui effetti collaterali si manifestano solo qualche giorno dopo la sua prima degustazione, è una pellicola esteticamente impeccabile, con una fotografia rigorosa e una pulizia stilistica esemplare. Eppure, le contraddizioni sono in agguato, specie se ci si impegna a passare qualche ora sui libri. Ma se non vogliamo discutere delle polemiche legate ai contenuti storiografici, considerati tutt’altro che imparziali, se non addirittura “revisionistici”, dalla destra di Sarkó (che rimane comunque la destra di Sarkó), parliamo del film.

Tre fratelli sopravvivono al massacro di Sétif ed elaborano il proprio lutto in maniera molto diversa: Messaoud (Roschdy Zem) si allea col nemico, arruolandosi nell’esercito francese in Indocina; Saïd (Jamel Debbouze) si converte alla filosofia del denaro, costruendo il suo impero del vizio a botte di illegalità; mentre Abdelkader (Sami Bouajila) resta fedele al sogno indipendentista, diventando uomo di punta del Fronte di Liberazione Nazionale algerino. I tre, pur covando un’idea diversa di libertà, finiranno con lo smussare rivalità e divergenze per ritrovarsi sul terreno comune della lotta patriottica, lecita o fuorilegge che sia. L’ottima prova degli interpreti, tuttavia, non impedisce ai personaggi di incarnare una serie di stereotipi già visti: l’uomo tormentato dal passato in trincea, la testa calda che rifiuta il sacrificio privato per l’interesse comune e l’idealista incastonato nelle sue convinzioni, messe in scacco (come sempre) da un’infatuazione clandestina. Sono ancora una volta i legami di sangue a trascinare un intreccio che alterna ritmi gangster in pieno stile Nemico Pubblico a clip da docu-fiction, come tante ne abbiamo viste negli ultimi anni. La storia di una nazione ripercorsa attraverso le vicissitudini del microcosmo famigliare è qualcosa che rimanda inevitabilmente ad una maniera tutta italiana di concepire una trama. Basti pensare al recente Baarìa di Tornatore, presente in Hors-la-loi soprattutto nell’ouverture, con quelle inquadrature a campo lungo che congelano sulla pellicola una sorta di Terzo Stato alla Pellizza da Volpedo. Tuttavia, il rapporto genitoriale, la conflittualità fraterna e addirittura alcuni elementi di natura meno profonda come la boxe e la prostituzione sono tasselli di quel mosaico che fu nel 1960 Rocco e i suoi fratelli, del quale ritroviamo lo sfruttamento classista degli emigrati e la disgregazione sociale all’interno dei confini cittadini. A questi si aggiunge anche la strizzata d’occhio alla Battaglia di Algeri di Pontecorvo, il cui richiamo più immediato è la decapitazione di un militante algerino sotto agli occhi dei compagni di cella, unita alla pressappoco identica contestualizzazione storica.

Gli intimi conflitti di machiavellica memoria secondo i quali “si habbi nelle cose a vedere il fine e non il mezzo”, sono un terreno fertile sul quale recentemente si sono prodigati diversi registi (basti pensare a Miral di Julian Schnabel). Rachid Bouchareb non rinuncia a sondare questo campo minato, proseguendo in maniera naturale quell’Indigène accolto quattro anni fa da una standing ovation al Festival di Cannes. Del suo precedente lavoro conserva molte componenti, prima tra tutte i protagonisti: stessi attori, stessi nomi fittizi, su cui varrebbe la pena aprire una parentesi. Abdelkader è l’emiro che il popolo algerino considera il padre della propria nazione, a testimonianza che dietro alla stesura della sceneggiatura resta un lavoro minuzioso, fatto di dettagli e ricerche assolutamente lodevoli. Oltre a ciò, la pedina del soldato straniero ingiustamente dimenticato dalle fila francesi ritorna come un’eco assieme alle parole del generale De Gaulle, più volte citate nel corso del film. Ancora una volta, dunque, Bouchareb si impegna nel confezionare un’opera che racconti la storia mai apparsa sui libri, dimenticandosi però di riportarne globalmente i punti di rottura. Il desiderio alla base, quello di riaprire il dibattito circa il passato coloniale della Francia, è buono, ma insufficiente a giustificare una rappresentazione spesso troppo cruda per non risultare ostentata. Se in Valzer con Bashir, per esempio, la violenza era effettiva (i corpi accatastati lungo le strade di Sabra e Shatila hanno le stesse raccapriccianti ombre della mattanza di Sétif), in Hors-la-loi essa viene riprodotta, finendo con il trasformarsi in una sorta di libero ed inconcludente sfregio nei confronti del popolo francese.

Terrorismo, autobomba, spionaggio e gendarmi ossessionati dalla caccia all’uomo, con tanto di finale un po’ retorico, dove chi ha perso in realtà vince e i cattivi sono quelli per cui il pubblico si accorge di aver fatto il tifo. C’è spazio anche per diverse digressioni sul senso di colpa, come la confessione a dir poco shakespeariana di Messaoud, novello Macbeth oppresso dal sangue e dalla vita che le proprie mani hanno strappato via. E poi ancora: una serie di amori che danno sollievo, ma non guariscono, un ispettore testardo che somiglia tanto al Carl Hanratty di Prova a prendermi e un’amarezza di fondo, propria di coloro che sanno di combattere per qualcosa che non vedranno mai prendere forma con i propri occhi.

TITOLO ORIGINALE: Hors-la-loi; REGIA: Rachid Bouchareb; SCENEGGIATURA: Rachid Bouchareb; FOTOGRAFIA: Christophe Beaucarne; MONTAGGIO: Yannick Kergoat; MUSICA: Armand Amar; PRODUZIONE: Francia/Belgio/Algeria; ANNO: 2010; DURATA: 131 min.

 


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