Individuo, famiglia, società: il cinema “critico” di Sidney Lumet PDF 
Piervittorio Vitori   

ImageCome verrà ricordato dalla posterità cinefila Sidney Lumet? Protagonista di una carriera fatta di continui alti e bassi, quella dell’84enne regista newyorkese – giunto con Onora il padre e la madre a quota 44 titoli per il grande schermo –, non è una figura semplicissima da etichettare. È stato lo stesso Lumet, in più circostanze, a complicare il lavoro dei suoi esegeti, con dichiarazioni dalle quali sembra trasparire un understatement quanto meno curioso per un cineasta della sua importanza. Lo si ricorda spesso, ad esempio, per la sua economia visiva e quindi per l’assenza di uno stile marcato. Non che questo sia per forza un appunto negativo, tanto che il diretto interessato non ha difficoltà a concordare: “Un buon stile, per me, è lo stile che non si vede. È lo stile che si percepisce”, ebbe a scrivere in Making Movies, il libro che nel 1995 diede alle stampe come breviario del mestiere di regista, pescando dalla sua lunga esperienza. Un’esperienza, quella artistica, iniziata in realtà come attore e sui palchi: quelli dei teatri yiddish di New York – “la Second Avenue […] era il cuore del distretto ebraico di Manhattan, aveva 12 teatri in cui le compagnie ebree tenevano stagioni da 40 settimane” (1) – di cui già i suoi genitori erano veterani (il padre Baruch, emigrato dalla Polonia nel 1920, avrebbe poi interpretato un ruolo in L’uomo del banco dei pegni). Da lì, e dopo l’arruolamento volontario come radarista nella Seconda Guerra Mondiale, il salto allo schermo, partendo da quello piccolo. Assunto alla CBS come assistente dell’amico, ed allora regista, Yul Brinner, Lumet fa progressivamente carriera fino a divenire responsabile di prestigiose serie quali Danger (1950-1955), I Remember Mama (1948-1957) e You are There (1953-1957). La sua traiettoria arriva quindi ad una svolta grazie al successo di Marty di Delbert Mann, che – trasposizione sul grande schermo di un tv-movie diretto nel ’53 dallo stesso Mann – fa intuire agli studios la potenzialità di adattare per il cinema opere nate come produzioni televisive. La genesi è infatti la stessa di La parola ai giurati, l’esordio nelle sale di Lumet, il quale, richiesto come regista dall’attore/produttore Henry Fonda, riutilizza la sceneggiatura scritta da Reginald Rose per un episodio della serie Studio One (serie che, ironia della sorte, qualche anno prima aveva segnato il battesimo televisivo di Lumet).

ImageProprio La parola ai giurati, ritornando alla cifra personale del regista, smentisce almeno in parte l’assunto secondo il quale Lumet sarebbe titolare di uno stile “neutro”. Infatti il film, girato in soli 21 giorni, si caratterizza per un’evidente metamorfosi visiva che procede in parallelo con la narrazione: da inquadrature distanti e dall’alto, tese ad allontanare tra loro i personaggi e ad aumentare l’idea dello spazio, si passa a shot più ravvicinati e per i quali la mdp scende, accentuando l’idea di tensione e claustrofobia. Convinto che la macchina da presa sia essa stessa un’interprete del film e vada gestita con la stessa cura del cast, il regista ricorda la scelta legando la lavorazione de La parola ai giurati ad un elemento che poi diverrà ricorrente nella sua produzione: lo spazio chiuso. “Non penso ci sia una gran differenza tra il riprendere un uomo con alle spalle un muro o una montagna; l’importante è il volto. Una delle cose che decisi fu di non combattere contro il fatto che tutto accadesse in una stanza, ma di usarlo. Così, con il procedere del film, cominciai ad usare focali sempre più lunghe, in modo che le pareti ed il soffitto si chiudessero; resi la stanza più piccola man mano che il film andava avanti” (2). La pellicola d’esordio mette in evidenza altri fattori che poi caratterizzeranno la futura produzione di Lumet. Uno di questi è senz’altro l’attenzione al lavoro con gli attori, che si traduce in prove lunghe, intense ma fruttifere: Henry Fonda riceve una nomination al Golden Globe e si aggiudica un BAFTA, e in futuro saranno ben 17, a partire dalla Katherine Hepburn de Il lungo viaggio verso la notte, gli interpreti a cui un ruolo lumetiano (o più d’uno, si veda Pacino) varrà la nomination all’Oscar. Altro tratto distintivo della futura filmografia è l’impianto morale giocato sulla figura di un personaggio in crisi, che acquisisce uno statuto eroico solo nel momento in cui accetta di fare i conti con questa crisi. Il realismo sociale che il regista svilupperà in seguito, soprattutto nelle pellicole in cui protagonista sarà la città di New York, è quindi preceduto da una sorta di realismo morale, dove la distinzione tra bene e male, buoni e cattivi spesso è labile. Si parte dal giurato Henry Fonda, tanto più umano ed “eroico” in quanto non è convinto a priori dell’innocenza dell’imputato ma è comunque deciso a concedergli il beneficio di un “ragionevole dubbio”, e si arriva, dopo sette anni, al Rod Steiger de L’uomo del banco dei pegni, vittima dell’orrore nazista che, incapace di elaborare il senso di colpa per essere sopravvissuto alla sua famiglia, diventa un carnefice emozionale, rinchiudendosi tra le sbarre del suo esercizio (altro spazio chiuso) ed escludendone il mondo esterno. Sarà solo il sacrificio del suo garzone Jesus (occhio al nome!), alla fine del film, a rompere la sua corazza, facendogli scoprire il dolore, il suo sangue, e in definitiva costringendolo a fare i conti con se stesso.

ImageIl montaggio debitore della nouvelle vague e l’espediente dei flashback che si ampliano in progressione geometrica rendono L’uomo del banco dei pegni un film atipico nella carriera di Lumet. Film che però, oltre a segnare il primo successo commerciale per il regista, diventa anche la prima tappa importante di un’esplorazione sociale che verrà sviluppata in seguito. La trama delle relazioni, all’interno di una New York marginale commentata con efficacia dallo score musicale di Quincy Jones, si basa su una struttura di stampo famigliare: Sol Nazerman si configura al contempo come figura paterna (per Jesus, che è presumibilmente orfano) e filiale (per l’anziano Mendel), fulcro dunque di due rapporti ugualmente problematici. Tradito nel primo caso e traditore nel secondo, anticipa una serie di caratteri che verranno, seppure calati in contesti diversi e dotati di maschere differenti (a questo proposito, è interessante notare come i due protagonisti del recente Onora il padre e la madre, Andy ed Hank, nella prima stesura dello script fossero amici, e sia stata di Lumet la decisione di farne invece due fratelli (3)). Una situazione non troppo dissimile è presente in Serpico (1973), generalmente considerato fra i capolavori del cineasta. In perfetto equilibrio tra analisi sociologica ed azione, la pellicola utilizza la denuncia del potere istituzionale (qui la polizia) per ampliare il discorso relazionale in senso orizzontale: l’integerrimo protagonista è la cartina di tornasole che mette in rilievo il tradimento operato da tutte le componenti famigliari, dall’impotenza del “padre” (il capo della polizia) alla corruzione dei “fratelli” (i colleghi del distretto). L’ambiguità morale, inoltre, passa anche per la caratterizzazione del protagonista Frank Serpico, uno strepitoso Al Pacino che appare pressoché impresentabile per i suoi colleghi: è colto, appassionato di balletto, si veste come un hippy e vive al Greenwich Village. Tutti o quasi gli elementi fin qui citati si trovano successivamente riassunti nel secondo grande film che Lumet gira nel suo decennio più fortunato: Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975). Alienato come e più di Serpico, e al pari di questo coinvolto in un rapporto/scontro con una figura autoritario/paterna (il detective Moretti di Charles Durning), Sonny Wortzik è il personaggio con cui “viene abilmente scavalcata la linea che separa la farsa dalla tragedia” (4). Con quell’”Attica!” urlato come un grido di battaglia e con il sostegno popolare che gliene deriva, il disperato rapinatore protagonista ci fa intendere come l’humus (im)moralmente ambiguo della società presentato in Serpico sia ormai un dato di fatto. A distanza di trent’anni Lumet, con Prova ad incastarmi (2006), si spingerà anche oltre, conferendo tratti quasi da eroe a tutto tondo al personaggio di un mafioso, convinto di incarnare un modello umano e sociale positivo proprio perché pone al di sopra di tutto il valore di quella famiglia che, altrove, i personaggi lumetiani tradiscono (o dalla quale vengono traditi). Quel pomeriggio di un giorno da cani ha anche il merito, farsa e tragedia a parte, di rimanere comunque ancorato ad un preciso contesto realistico, declinato in senso estetico grazie all’utilizzo dell’illuminazione naturale, forzata solo in caso di estrema necessità. È inoltre un ulteriore saggio della bravura del regista nel gestire un dramma in uno spazio chiuso, riproponendo la tensione tra protagonista/interno e società/esterno.

ImageDecisamente diverso è il successivo Quinto potere, che pure, con la sua ambizione di parabola sulla società televisiva, diverrà il maggior successo commerciale del regista. Ma se il baricentro narrativo del film è la figura isterica e grottesca dell’annunciatore Howard Beale, il baricentro morale (e quindi il personaggio più lumetiano) è il suo collega Max Schumacher, l’unico in grado di sviluppare una prospettiva critica sulla propria problematica situazione e, non a caso, la figura più umana all’interno del cinico carosello messo in scena dalla sceneggiatura. Nel decennio successivo Lumet non riesce più a ritornare ai livelli del trittico di metà anni Settanta, pur sfornando almeno tre titoli di alto livello: Il principe della città (1981), sorta di seguito ideale di Serpico, con al centro dello script un Treat Williams alienato in virtù dell’isolamento cui lo condanna la scelta di denunciare i colleghi corrotti; Il verdetto (1982), film giudiziario non particolarmente originale ma molto solido, in virtù dell’ottima alchimia tra regia, sceneggiatura ed interpretazioni; Vivere in fuga (1988), originale spaccato di un’America “contro” e, stavolta sì, intreccio famigliare in senso stretto (cui seguirà, ma sotto forma di commedia, il trascurabile Sono affari di famiglia). Gli anni Novanta rappresentano la fase meno felice della carriera del cineasta, che comunque riesce a farsi apprezzare per il mestiere in film altrimenti mediocri come Una estranea fra noi, Per legittima accusa e il remake del cassavetesiano Gloria. Tra quest’ultimo titolo e quello successivo, il citato Prova ad incastrarmi, passano sei anni. In questo lasso di tempo Lumet torna episodicamente alla televisione, ma soprattutto si vede assegnare, nel 2005, l’Oscar alla carriera: un atto quasi dovuto per un cineasta capace di far guadagnare complessivamente ai suoi film quasi 50 nominations, di cui 5 a proprio nome (regia per La parola ai giurati, Quel pomeriggio di un giorno da cani, Quinto potere ed Il verdetto; sceneggiatura – al 50% con Jay Presson Allen – per Il principe della città). Eppure stiamo sempre parlando di un regista che non si fa notare per uno stile personale, né può essere definito un autore nel senso canonico del termine. E, nonostante il ricorrere dell’istanza morale, della crisi personale, del tradimento famigliare e dello sguardo sulla società, è lo stesso regista a sottrarsi all’etichetta: “Mi chiedono continuamente: qual è il tema complessivo della tua opera? Ma io non sono un intellettuale, e se c’è un tema non voglio saperlo. Per me, la morte di un sacco di personalità creative è stata la presunzione” (5).

A quanto pare non resterà, allora, che ricordarlo come un grande direttore di attori. O, più semplicemente, come un grande regista.

Note:

(1) Sidney Lumet da Marks of distinction di Stephen Galloway, in Hollywood Reporter, 25 febbraio 2005 (http://www.hollywoodreporter.com/hr/search/article_display.jsp?vnu_content_id=1000817527)

(2) Sidney Lumet da Marks of distinction di Stephen Galloway, cit.

(3) Cfr. Sidney Lumet da Brothers in harm di Geoffrey Macnab, in Sight & Sound, febbraio 08 (http://www.bfi.org.uk/sightandsound/feature/49431)

(4) Biography for Sidney Lumet in Turner Classic Movies
(http://www.tcm.com/tcmdb/participant/participant.jsp?participantId=117539|140633&afiPersonalNameId=null)

(5) Sidney Lumet da Brothers in harm di Geoffrey Macnab, cit.

 


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