Due fratelli rimasti orfani, lei giornalista rampante e lui ragazzino sfortunato e deriso dai compagni, subiscono un incidente stradale, dopo il quale vengono aggrediti da uno strano animale. Nelle settimane successive iniziano a captare sintomi di una trasformazione in atto, e progressivamente inizia ad apparire loro la verità: fu un lupo mannaro ad aggredirli, ed essi si stanno a loro volta trasformando in licantropi. Una maledizione che deve essere fermata.
Anche i grandi maestri invecchiano. Vorremmo che continuassero all'infinito a deliziarci con pellicole indimenticabili, ma il tempo passa, e qualche volta, inevitabilmente, il genio si sbiadisce, e in alcuni casi scompare. L'horror sta vivendo una fase di profondo rinnovamento, cercando nuove strade per uscire dalla stasi creativa che l'ha imbrigliato negli ultimi anni. E i maestri, coloro che negli anni '70 e '80 hanno rivoluzionato il genere estraendone dalle fondamenta i prodromi di una rivoluzione culturale e più specificatamente filmica, disegnando i contorni di un nuovo modo di concepire il cinema del terrore, hanno ampiamente superato la soglia della mezza età. Alcuni di loro stanno invecchiando più che bene (ad esempio Cronenberg e Lynch, sublimi cantori del Male ancora in magnifica forma); altri, se e quando viene loro permesso di lavorare, si tengono orgogliosamente a galla con il mestiere e la passione (Hooper, Carpenter, Romero); altri, come Wes Craven, invecchiano, ahimè, male.
Cursed è forse il nadir della parabola creativa di un autore entrato nel gotha dell'horror, capace come forse nessun altro di cogliere i sintomi della malattia americana post-sessantottina per sconvolgere occhi e stomaci di spettatori intimoriti (e inviperiti) dagli effluvi del Vietnam e della Guerra Fredda, con film di rara crudeltà e di incommensurabile valore politico e sociologico (L'Ultima Casa a Sinistra, Le Colline Hanno gli Occhi), di creare personaggi in grado di fuoriuscire dallo schermo per mutarsi in fenomeni di costume (Nightmare), di mettere in gioco la propria abilità per ottenere soluzioni talvolta discrete (La Casa Nera) talvolta ottime (Il serpente e l'arcobaleno) anche da pellicole apparentemente minori, e di rivoltare nuovamente dall'interno il genere per farlo rinascere secondo canoni maggiormente consoni all'immaginario contemporaneo (Scream).
Ma gli anni passano, e alle volte non basta un nome sonante, non bastano rimasugli di classe rappresentativa, non bastano nemmeno tre anni di difficoltosa lavorazione e di infiniti ritocchi di sceneggiatura, montaggio e post-produzione, per dar vita a un buon prodotto. Infatti Cursed è un film che non regge, o meglio che non esiste. Il trio formato da Craven, Kevin Williamson e Rick Baker (maestro assoluto del make-up horror, vincitore di un Oscar per le straordinarie trasformazioni da uomo a lupo ottenute in presa diretta con latex e manichini nel seminale Un Lupo Mannaro Americano a Londra di John Landis) avrebbe sulla carta dovuto garantire risultati di ottimo livello. Peccato che Craven abbia perso tutta la cattiveria, il sadismo e la crudeltà di un tempo, che Williamson si sopravvaluti oltre ogni limite, e che Baker ci metta solo il mestiere senza la benché minima scintilla d'inventiva.
Il risultato è sconfortante: una trama risibile che si tiene in piedi senza sussulti e con risvolti più che prevedibili, una regia che pur sfruttando ambientazioni scenografiche di un certo spessore finisce per profondere tutto il catalogo del già visto, un cinema sempre più abbondantemente (ed esageratamente) citazionista e autoreferenziale, con omaggi francamente inutili a Lon Chaney Jr. e ad altri grandi del passato, musiche simil-metal roboanti e fastidiose, colpi di scena ad impatto visivo e sonoro che sembrano ricavati da una tesina di laurea di un ingenuo studente, una struttura portante copia carbone di tanti altri infruttuosi horror per teenagers, un finale senza capo né coda perdutosi nei meandri della banalità, e poi, come non bastasse, effetti speciali di una bruttezza impressionante. I lupi mannari di Baker versione III millennio si muovono, corrono, saltano e si trasformano con immagini interamente digitalizzate al computer, ottenendo una pochezza realizzativa sorprendente e disarmante.
Si salvano gli attori, in particolare una Christina Ricci discretamente efficace in una versione molto più adulta di come eravamo abituati a conoscerla, e uno Joshua Jackson ben calato in una parte ambigua e oscura. Si salvano un paio di sequenze lievemente angoscianti (il gioco degli specchi, l'inseguimento nel parcheggio del locale), costruite e girate con una certa cura, in cui si intravedono in lontananza echi di un genio che fu.
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