La stagione cinematografica della quale Django fa parte, quella del “cinema italiano di genere” (definizione per forza di cose riduzionista, ma funzionale a livello di senso comune), dà spesso luogo ad atteggiamenti opposti, eppure ugualmente sminuenti perché entrambi aprioristici. Da una parte l’esaltazione di qualsiasi prodotto cinematografico italiano degli anni ‘60 e ‘70 dal sapore “sotto-culturale”’, dall’altra un categorico e snobistico rifiuto di ogni forma di cinema popolare. Posizioni agli antipodi figlie però di approcci al cinema altrettanto onanistici e mistificanti: una “mistica” del cult nel primo caso una dell’“autore” nel secondo.
Si dovrebbe invece cercare di guardare quel cinema da una certa distanza, che permetta di problematizzarlo in modo da coglierne limiti e pregi ragionevolmente, al dì là della passione. E riguardando oggi Django - avendo ben chiara negli occhi l’assenza di potenza simbolica, oltre che industriale, del cinema italiano contemporaneo - c’è una cosa che difficilmente si può negare. Che si trovino irritanti o sovversivi i suoi numerosi eccessi kitsch, indipendentemente da quanto si possa essere trasportati o tediati dalla saturazione di stereotipi visuali e narrativi intorno ai quali si costruisce, è impossibile non riconoscere a quel cinema la forza di creare una mitologia e un immaginario nazional-popolare non tecnicizzato, anestetizzante o reazionario. Perché Django, come i migliori film di genere italiani di quegli anni, utilizza cliché, ironia e una violenza esasperata e posticcia in maniera mai fine a se stessa. Non si nasconde, non approfitta, non si “accontenta” di coinvolgere ruffianamente, e pur abusando di una serie di situazioni e scambi di battute pensati e strutturati appositamente per diventare di culto, dà vita a personaggi e scenari morali estremamente stratificati e complessi.
Un cinema denso e leggibile su più piani, che riprende i grandi modelli della Hollywood classica, facendone esplodere alcune tensioni, spesso latenti, proprio grazie a eccessi che sono mezzi (pur talvolta autosufficienti in quanto a piacere visivo) e non fini. Django è un film di incredibile cupezza, dove il cinico protagonista, mosso da motivi tutt’altro che nobili, diventa “eroe” per caso e per goffa distrazione. Un film dove il dominio dei forti ha fatto in modo che anche i deboli, pur nel giusto, diventino spietati carnefici; dove il reale è sbagliato e marcio, e così è destinato a restare. Nella vittoria del suo “leggendario” protagonista, la croce funebre in primo piano, dietro la quale lo si vede allontanarsi esausto, e la melodia di Bacalov, lasciano in bocca il sapore acre di una sconfitta umana ineluttabile. Oggi invece l’unico immaginario popolare che resta, prodotto da un’industria incapace di rischiare, è quello di peti e famiglie felici dall’accento romano …
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