Cannes 2010 PDF 
Aldo Spiniello   

Cannes 2010 è stata l’esatto opposto dell’edizione 2009. Se il livello medio dello scorso anno è stato eccezionalmente alto, ma il palmarès ha dato l’idea di un cinema immobile, premiando il glaciale rigore in bianco e nero di Michael Haneke, quest’anno si è avuta la sensazione che la giuria presieduta da Tim Burton abbia compensato, con le sue decisioni, un concorso francamente non esaltante. Certo la palma d’oro a Uncle Boonmee Who Can Recall His Past Lives di Apichatpong Weerasethakul è un riconoscimento ad un film che molto difficilmente potrà circolare oltre i circuiti festivalieri. Ma in ogni caso dà il senso di una scelta ben più coraggiosa delle scontate previsioni della vigilia, che puntavano sui nomi di Iñárritu o Leigh, registi che, in un modo o nell’altro, confermano le loro qualità e i loro limiti.

Iñárritu con Biutiful ha costruito un altro altare a se stesso, l’ennesimo capitolo di un’estetica del dolore che cerca di dire tutto, di rinchiudere in una formula il senso della vita, della morte e del cinema, ma inevitabilmente cade sotto il peso delle proprie ambizioni. Il messicano ricostruisce Babele nello spazio di una sola città, Barcellona (mai così brutta e sporca), e lavora sul simbolico per intrecciare lo sguardo laico alla sensibilità religiosa. Eppure il suo cinema sembra sempre “non necessario”, lontano dall’urgenza della passione e dell’emozione. L’accumulo sensoriale, visivo e sonoro, la ricerca di una parabola, al tempo stesso eretica e salvifica, l’insistenza fin troppo furba sulle sofferenza della carne e dell’anima… Tutto alla fine appare maniera, esempio di un cinema che seppellisce nella forma la sostanza, la concretezza del cuore e del sangue. Mike Leigh (già vincitore a Cannes nel 1996 con Segreti e bugie), da parte sua, tratteggia in Another Year una sorta di bilancio, un film sul passaggio alla vecchiaia, un racconto che si snoda lungo l’arco di un anno, ma che si concentra solo su momenti. Il tempo che passa, la solitudine, la morte. I temi fondamentali, non solo del “terzo tempo”. Leigh dà ancora una volta prova di uno sguardo umanista, capace di scavare nell’intimo dei personaggi per farne venire a galla le verità dell’animo. Si lascia sempre più andare ad un umorismo sottile e tenero, quasi una ricompensa per le piccole tragedie del quotidiano. Non sbaglia un colpo e i suoi interpreti sono magnifici. Ma, nell’ostentata assenza di una struttura, nel poggiare la storia sul vuoto dei momenti fuori campo, non raccontati, mostra in realtà un eccesso di costruzione, di scrittura che rischia talvolta di soffocare la sincerità dell’ispirazione. Pur affrontando, nella sostanza, argomenti simili (la malattia, la morte, la perdita), Apichatpong Weerasethakul costruisce, invece, un universo fantastico di spettri e demoni. Un mondo sospeso, fuori dal tempo, che però nasconde la misteriosa concretezza dei ricordi e dell’immaginario del regista. E il film che ne viene fuori è una sorta di incantesimo dai tempi dilatati, dai fermo immagine che sembrano videoinstallazioni, dalla meraviglia estetica delle immagini che, senza dubbio, hanno saputo affascinare Tim Burton e la sua giuria.

Per il resto, scorrendo gli altri titoli del concorso, tema dominante, quasi un’ossessione, è senza dubbio la guerra. O meglio il conflitto, lo scontro di razza, civiltà e religioni, a tutte le latitudini e in tutti i tempi. Segno della ricerca di un cinema che, in un modo o nell’altro, fotografi le contraddizioni del presente. Anche guardando al passato. Certo, le prospettive sono molto diverse. Ne La princesse de Montpensier di Bertrand Tavernier, la cornice storica delle guerre di religione tra cattolici e ugonotti nella Francia del XVI secolo è solo un pretesto. Quello che interessa davvero al regista è partire dal racconto di Madame de La Fayette per costruire un film d’altri tempi, un sontuoso melodramma in costume incentrato su una figura femminile (interpretata dalla splendida Mélanie Thierry) presa tra l’incontenibilità delle passioni e la morsa asfissiante delle regole sociali e del ruolo. Diverso è l’intento di Rachid Bouchareb. Il suo Hors la loi, laccata ricostruzione delle battaglie per l’indipendenza algerina, è un film dichiaratamente politico e di polemica: denunciare i soprusi del colonialismo. La retorica è inevitabile, nonostante il tentativo di costruire un racconto avvincente. Un homme qui crie di Mahamat-Saleh Haroun (Premio della Giuria) guarda invece alle lotte civili in Ciad. Un film solo in apparenza semplice, perché Haroun dà prova di uno sguardo attento e partecipe e trova una dolente intensità nell’intrecciare il dramma pubblico con la tragedia tutta privata di un rapporto fra padre e figlio. Nikita Mikhalkov torna sui suoi passi, alla sua storia di cineasta e a quella della Russia staliniana del secondo conflitto mondiale. Sole ingannatore 2 è un film inutilmente esagerato e bulimico, percorso da un’ossessiva attenzione per le cose e gli oggetti, che si trasformano in simboli spudoratamente religiosi e salvifici. Ben più interessante Des hommes et des dieux di Xavier Beauvois (vincitore del Grand Prix), che, da una prospettiva laterale, tocca senza far rumore il tema dei conflitti religiosi. Il regista de Le petit lieutenant racconta la storia vera di alcuni benedettini che vivono in un monastero tra le montagne algerine. E nel tratteggiare il rapporto di fiducia e complicità che lega i monaci alla piccola comunità islamica ai piedi del monastero, sembra scoprire il segreto di un’impossibile utopia ecumenica. Ma non può che constatare come la Storia forzi la mano e non lasci scampo. L’utopia si trasforma in tragedia. Tutto accade senza scosse, quasi per una volontà superiore, sotto lo sguardo “monastico” di una macchina da presa che sembra aver sposato una regola di rinuncia, arrivando quasi ad azzerare toni e ritmi. In questa ossessione per il conflitto non poteva mancare, naturalmente, la sporca guerra in Iraq.

In Route Irish Loach piega il suo sguardo “interventista” ad una storia dalle connotazioni thriller. È la conferma, dopo Il mio amic Eric, che il regista inglese tenta di ampliare lo spettro delle sue narrazioni. Ma a un diverso tono non corrisponde una nuova forma. Loach è bloccato nel suo orizzonte ideologico e nel suo modo di far cinema, e questo finisce per pesare sul risultato. Diverso il discorso per l’americano Doug Liman, che in Fair Game ricostruisce la storia vera dell’agente CIA Vanessa Plame, impegnata nella ricerca del fantomatico arsenale segreto di Saddam Hussein. Un tema che richiama Green Zone di Greengrass, e non a caso, visto che i due registi si inseguono a distanza sin dai tempi delle avventure dell’agente Bourne. Nella prima parte del film, Liman lavora ancora una volta sulla dislocazione geografica, ma non riesce mai a ridisegnare le coordinate dell’immaginario né, a differenza di Greengrass, a raccontare di una sostanziale impossibilità di conoscere il mondo e la verità. È nella seconda parte che Fair Game prende quota, quando si concentra sul gioco “poco leale” del potere, sul meccanismo delle istituzioni che manipolano la realtà e  stritolano i protagonisti. È qui che Liman sembra porsi nel solco del grande cinema civile americano, quello di Pollack e Lumet. Anche grazie a due interpreti, Naomi Watts e Sean Penn, come sempre magnifici.

Un concorso, dunque, tra alti e bassi. Accanto film, seppur interessanti, non del tutto risolti (The Housemaid di Im Sang-soo, Tender Son – The Frankenstein Project di Kornél Mundruczó, Chongqing Blues di Wang Xiaoshuai), altre visioni eccentriche. Il raffinato gioco delle parti di Kiarostami (Copia conforme), sorretto da una Binoche che ormai davanti alla macchina da presa può fare qualsiasi cosa (non a caso premio per la miglior attrice). Il sempre più beffardo (verso lo spettatore) e violento sguardo di Kitano, che in Outrage non risparmia nessuno, lontano dalla poesia dei suoi capolavori, ma ormai completamento risucchiato nel buco nero di una disperazione senza scampo. Il commovente La nostra vita di Daniele Luchetti, unico italiano in concorso, che compensa gli evidenti difetti del film (lo sguardo polemico sulla società), i limiti di sceneggiatura (la storia parallela dei romeni), con una sincerità d’ispirazione che, sfiorando l’ingenuità, trova la commozione. Ci fa sentire la mancanza di una madre amata sin dalle prime immagini, circonda di calore il suo protagonista “anima fragile” e infonde vita ai personaggi secondari, mai sfiorati dalla cattiveria. Meritatissimo il premio come miglior attore a Elio Germano, ex aequo con il prevedibile Javier Bardem di Biutiful.

Altro film convincente è Poetry di Lee Chang-dong (premio per la miglior sceneggiatura), che osserva quasi di nascosto il mondo “fuori dal mondo” della sua protagonista, un’anziana donna che coltiva il sogno di scrivere poesie. Rispetto a Oasis e a Secret Sunshine, Lee si far ancora più discreto. Sussurra, si mette a lato, non spiega e non sviluppa. Sfiora il melodramma, ma non alza mai i toni. Tutto sembra accadere senza scosse, quasi per caso, come nella fantastica sequenza dell’arresto.  E, in questo suo stare nascosto, il regista coreano intuisce il segreto della poesia, della creazione che può nascere a partire solo da un vuoto, una mancanza (la protagonista, Miya, ha gravi problemi di memoria), per ricollegare le cose e le anime in un senso. Ma la vera folgorazione del concorso di quest’anno viene dalla Francia, dalla personalità eccentrica e sregolata di Mathieu Amalric, attore regista che  in Tournée trova il magico punto di equilibrio tra la personalità dell’ispirazione e l’universalità dell’emozione. Guardando allo “strano” mondo del new burlesque, a quelle magnifiche donne non più giovani, ma femminili come nessun’altra, Amalric gioca sui misteri dell’ironia e della seduzione, ma solo per raccontare, di rimando, la malinconie di vite che sembrano irrimediabilmente andate. Affronta un viaggio “al termine della notte” attraverso una Francia di periferia, in quel mondo dello spettacolo amato alla follia, eppur spiato da dietro l’angolo, dall’uscita di sicurezza. Lo spettro del fallimento e i miraggi di felicità, la constatazione di un vuoto e di una perdita di senso e il desiderio di un’altra possibilità. È questa la sostanza di un film vissuto con una partecipazione assoluta e felicemente traghettato verso le libere derive del caos.

Se la selezione principale ha in parte deluso rispetto allo scorso anno, diverso è il discorso per Un certain regard, che ha schierato, guarda caso, due pezzi da novanta: Manoel de Oliveira e Jean-Luc Godard. Il grande centenario ha presentato O Estranho Caso de Angélica, libera e aerea variazione sui fantasmi dell’ossessione e della morte. Cinema che, ad ogni passo, si mostra sempre più immediato e semplice, ma solo per nascondere, dissolte nella facilità delle apparenze, le complessità della vita, del mondo, dei rapporti, del cinema stesso. Come il ragionamento di un saggio, che più si approfondisce più si libera dell’inutile e arriva all’essenziale, il cinema di Oliveira è un atto di depurazione naturale, l’esercizio di uno sguardo giovanissimo a dispetto degli anni. Decisamente più giovane di quello di un Woody Allen, che, sfiorando in You Will Meet a Tall Dark Stranger gli stessi argomenti, mostra disamore per ciò che racconta, disprezzo per i personaggi, tutti i vizi di uno sguardo ormai prossimo alla saturazione. Godard, assente con nota polemica dalla Croisette, in Film Socialisme, compie la sua crociera sul Mediterraneo (come tra l’altro aveva già fatto de Oliveira in Parole e utopia). Tocca Atene, Napoli, Barcellona, Il Cairo, i luoghi simbolo della nostra civiltà, ma per dirne, nel suo modo obliquo eppur inequivocabile, la crisi e la caduta. Crisi d’identità come crisi economica, problemi “di tipo greco” che, passando attraverso una partita di calcio e le illusioni perdute di Balzac, piombano in casa, mandano all’aria le famiglie e il linguaggio. Che fine ha fatto il socialismo? La stessa fine dell’Europa… E se ci trasferiamo dall’altra parte del mondo, allora tocca far i conti con Hong Sang-soo, con il suo cinema liberissimo che incrocia storia, amori, amicizia stupende e fragili, evanescenti come la vita. Ha Ha Ha (film che ha vinto la sezione Un certain regard) ride sin dal titolo. Ma nasconde, tra le pieghe, le smorfie di risata, le scazzottate e le bevute, una malinconia invincibile per il tempo che passa, le occasioni perdute, i fallimenti passati e quelli ancora a venire. Nouvelle vague negli occhi e nel cuore. Sempre e comunque cinema. Come quello amato e citato da Jia Zhang-ke, che nello splendido I Wish I Knew ripercorre la storia di un popolo e di una città, Shanghai, (anche) attraverso la storia del cinema. È un documentario? È un film di finzione? Che importa. C’è un fantasma (l’onnipresente musa Zhao Tao) che attraversa le strade della città, tra macerie e splendori, gocce di pioggia e lacrime. E ci sono i testimoni, i volti noti dello spettacolo e dell’arte (Hou Hsiao-hsien, le glorie del passato, Wei Wei, Rebecca Pan) che raccontano la loro storia e, tramite quella, la Storia. Ci sono i volti sconosciuti, incrociati per caso eppure colti nella perfezione di un primo piano. C’è la realtà e ci sono i film (Primavera in una piccola città, Shanghai Flowers, Sorelle della scena, Days of Being Wild). Ci sono i ricordi e le speranze. C’è tutto. Perché Jia Zhang-ke gira (per la città) non a caso e trova sempre quell’inquadratura che racchiude e racconta storie e vite e sentimenti. Trova la poesia nel dato e riscopre il senso del cinema, quello di ri-svelare il senso del mondo a partire dal caos dei segni.

I Wish I Knew è il vero miracolo di questa Cannes 2010. Accanto al fluviale, incredibile Carlos di Olivier Assayas. Prodotto per la televisione francese e presentato fuori concorso, Carlos racconta la storia dello “sciacallo”, il celebre terrorista che negli anni Settanta e Ottanta sconvolse il mondo. Cinque ore e mezza di film che volano via a velocità sovraumana, incrociando personaggi e intrighi politici, pubblici e segreti, miserie private e un trentennio di storia mondiale. Il meglio del cinema americano d’azione e corale, e la precisione di uno sguardo che apre l’anima. Tutto in un abbraccio unico, che lotta con e contro il tempo. Assayas sorprende sempre, fino all’ultimo respiro. Lascia che i personaggi entrino ed escano senza sosta, che le vite diventino padroni dell’inquadratura e del mondo. E disegna la parabola di una star, che cerca la grandezza immortale, ma solo per incontrare l’inesorabile destino della caduta.

 


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