Eva contro Eva: una rilettura - Joseph Leo Mankiewicz PDF 
di Francesco Improta   

Queste mie riflessioni nascono dalla recente lettura di Eva contro Eva, un libro di Carola Prosperi pubblicato nel 1951 e riproposto, a cura di Chiara Simonetti, l'anno scorso dalla casa editrice Sellerio nella collana "La memoria". A pubblicarlo la prima volta fu, come ci dice la curatrice nella sua postfazione, ricca di osservazioni e di acute notazioni critiche, la casa Editrice S.A.S San Paolo di Torino.

Era un periodo di grandi trasformazioni sociali, economiche e culturali e Torino, sotto la spinta dell'industria automobilistica, quella stessa industria che oggi fa penare non solo i torinesi ma tutti gli italiani, si accingeva a diventare, da elegante città aristocratica qual era, una metropoli industriale in piena espansione economica e sociale; non a caso ospitava in quegli alveari, grigi ed anonimi, sorti alla periferia della città "le maggiori concentrazioni operaie d'Italia". Questi cambiamenti si notavano anche a livello comportamentale e, agli occhi dei conservatori e dei tradizionalisti, avrebbero potuto costituire "un pericolo" per i costumi ed il futuro della cittadinanza. Non meraviglia, quindi, l'assunzione da parte della Chiesa e del mondo cattolico in generale di un ruolo di baluardo e di vigile controllo contro i pericoli e le tentazioni della modernità. Vengono pubblicate da case editrici, di matrice cattolica, come la S.A.S San Paolo, storie esemplari o edificanti e si moltiplicano, non solo a Torino ma in tutta Italia, i cinema parrocchiali che diventano luoghi di aggregazione sociale e di formazione morale per i giovanissimi (non va dimenticato che negli anni cinquanta le Edizioni Paoline diventano le maggiori distributrici di quelle pellicole a 16 mm che avrebbero invaso il mercato, le scuole e i cineforum).

Il libro in questione fa parte di una serie di adattamenti in prosa di film famosi, commissionati dalla succitata casa editrice, per quelle madri che non avevano la possibilità di recarsi al cinema o che, pur frequentando le sale cinematografiche, avevano bisogno di finali più edificanti o più consolatori. Operazione, comunque, a dir poco singolare e perché segue un percorso inverso a quello normalmente seguito, non dal romanzo alla trasposizione cinematografica ma dal grande schermo alla pagina scritta e perché il film in questione non ci presenta certo una storia tramata di buoni sentimenti, come Le due suore, Giovanna d'Arco ed Il Mago di Oz, che fecero parte della stessa collana editoriale, ma una storia crudele, spietata, materiata di perfidia e d'ipocrisia. Operazione, aggiungerei, rischiosa perché il film da cui è tratto il libro All about Eve è un capolavoro della storia del Cinema, destinato a diventare un cult movie che rimarrà impresso nel cuore e nella memoria di tante generazioni e che, non a caso, vinse ben 6 premi Oscar, dopo aver ottenuto 11 nomination.

Il regista, inoltre, Joseph Leo Mankiewicz, pur non appartenendo alla ristretta cerchia dei geni o dei talenti naturali, è pur sempre un regista di grande e raffinata cultura, che facendo affidamento sulla sua conoscenza del mezzo e dello "specifico" cinematografico, nonché su solide e calibrate sceneggiature, alle quali collaborava sempre personalmente (va precisato a tal proposito che apparteneva ad una famiglia di sceneggiatori, il fratello Herman aveva scritto la sceneggiatura di Quarto potere di O. Welles ed egli stesso aveva iniziato la sua carriera proprio come sceneggiatore, lavorando con F. Lang in Furia e con G. Cukor in Scandalo a Filadelfia), ci ha lasciato tutte opere ben confezionate ed alcune di ottima fattura, mi riferisco a La Contessa Scalza, Improvvisamente l'estate corsa, Bulli e pupe, e soprattutto Eva contro Eva, vero e proprio apologo, cinico e graffiante, sul teatro cui molti altri autori hanno reso omaggio, ultimo in ordine di tempo Pedro Almodovar che nel suo penultimo film Tutto su mia madre ne ha richiamato persino il titolo originale All about Eve.

Cerchiamo di riassumerne il plot: a Broadway la giovane Eva, ambiziosa aspirante attrice, fingendosi dolce, arrendevole e bersagliata dalla sventura, riesce ad entrare nelle simpatie prima e nelle grazie poi della celebre diva teatrale Margo Channing. Attraverso macchinazioni, "pietose" bugie e ricatti, riesce a prenderne il posto, ad ottenere fama e successo, e, a suggello di questa sua rapida, vertiginosa scalata, un prestigioso premio teatrale. Tornata a casa, dopo la cerimonia di premiazione, trova ad attenderla la giovanissima Phoebe, che si dichiara sua devota ammiratrice e si prende cura di lei. A questo punto il film finisce ma non c'è spettatore che, abbandonando la sala cinematografica, non abbia capito che la storia si ripeterà pedissequamente, a ruoli invertiti, nel senso che sarà Eva ad essere spodestata dal suo piedistallo di diva dalla giovanissima e spregiudicata aspirante attrice.

Il film è girato quasi esclusivamente in interni, con ambienti, arredamenti, costumi ed illuminazioni meticolosamente predisposti, quasi a voler mantenere la sua struttura decisamente teatrale; due volte solo la m.d.p. esce all'esterno e sempre per riprendere l'ingresso di un teatro, ne consegue che le inquadrature e i movimenti di macchina sono, nel complesso, limitati: prevalgono, comunque, sequenze lunghe, piani medi e controcampi, che consentono di apprezzare sia la recitazione sia i dialoghi, punti di forza del film. Possiamo affermare senza tema di smentite che qui, come nella maggior parte dei film di Mankiewicz, s'impone più il suo talento di sceneggiatore che quello di ideatore di una messa in scena personale, o, meglio ancora, la forma dialogica è quella da lui scelta per mettere in scena un testo in cui si parla di teatro, da qui il largo uso della voce fuori campo, dei monologhi o dei dialoghi serrati.

Il film è, forse, il primo crudele apologo sul teatro che il cinema abbia mai raccontato: vi si descrivono, in maniera fredda ed impietosa, l'arrivismo, la mancanza di scrupoli e l'ipocrisia dell'ambiente umano e professionale di Broadway. Mankiewicz era convinto che il teatro fosse "un covo di vipere, pieno di insidie e di veleno" - così almeno disse in un'intervista una delle sue attrici Celeste Holm - e con la freddezza di un chirurgo, con il suo bisturi affilato, ne incide la superficie rutilante e sfarzosa per metterne a nudo la parte cancerosa, un nucleo magmatico "ribollente di opportunismo, crudeltà, narcisismo ed ambizione sfrenata". Sembra che Mankiewicz, uomo di Cinema, abbia voluto vendicarsi dello snobismo degli attori teatrali e del teatro tradizionale che, a suo tempo avevano guardato con sufficienza e spesso deriso sarcasticamente le produzioni di Hollywood.

Nel film s'individua anche con precisione e puntualità quel meccanismo d'intercambiabilità che porta al successo gli artisti e poi li sostituisce, dimostrando quanto sia fugace ed inutile la notorietà. Ci tornano alla mente i versi del sommo poeta: "Oh vana gloria delle umane posse! / Com poco verde in su la cima dura, / se non è giunta da l'etati grosse!." E più avanti "Non è il mondan romore altro che un fiato / di vento, ch'or vien quinci e or vien quindi, / e muta nome perché muta lato." Accanto a questi due temi principali si rilevano tantissimi motivi non meno importanti: la polemica tra commediografo ed attore sull'incidenza che hanno rispettivamente sul successo di un lavoro teatrale il testo o la recitazione e Mankiewicz sembra propendere per la tesi sostenuta da Pirandello in Questa sera si recita a soggetto; è l'attore che fa vivere il personaggio creato dal commediografo, ritagliandolo addosso, e formalizzando questa vita in un linguaggio che deve giungere al pubblico e comunicare con lui; è l'attore, quindi, nel mondo del teatro la figura senza dubbio più importante.

Sempre legato al mondo dello spettacolo e alla figura dell'attore c'è lo scollamento tra realtà e finzione, tra recitazione e vita vissuta, tra apparenza e realtà; gli attori perdono spesso il senso di orientamento e non riescono più a distinguere le due dimensioni quando non smarriscono addirittura la propria identità; non è un caso che Eva in apparenza sia una colomba, una cara dolce "bambina", mentre in realtà è una donna crudele e calcolatrice, un avvoltoio, Margo, invece, apparentemente capricciosa, isterica e dispotica è una donna generosa, vulnerabile, desiderosa d'affetto e soprattutto di realizzarsi come donna, non a caso alla fine cederà serenamente il posto alla rivale e, obbedendo alle pulsioni del cuore, convolerà a nozze con Bill, scambiando volentieri il successo con la felicità, o quanto meno con la promessa e la speranza di essere felice.

A questo punto si capisce come mai la S.A.S San Paolo abbia commissionato alla Prosperi la trasposizione in prosa della pellicola di Mankiewicz, ad una prima lettura così scandalosa ed immorale, perché in fondo esalta "le sane gioie della vita matrimoniale" che nell'Italia del tempo, decisamente bigotta, era un precetto sacro ed inviolabile, si pensi allo scalpore suscitato in quegli anni dalla storia d'amore tra Fausto Coppi e "La dama bianca", accusati e arrestati per adulterio.

Ci sono, inoltre, due motivi di grande interesse che non sempre sono stati adeguatamente messi in evidenza: l'insoddisfazione che subentra in ognuno di noi dopo il raggiungimento di un obiettivo a lungo inseguito (lo si nota soprattutto in Eva, dopo il conseguimento del premio, tanto da non accorgersi che Phoebe, la ragazza che l'aspetta a casa non è che un'altra rivale, meglio ancora un'altra se stessa, lo specchio, infatti, in cui appare rileva e sottolinea il tema del doppio) ed infine la paura d'invecchiare, riconducibile per qualche verso anche al tema del doppio. Margo più sente venir meno le proprie energie, più si accorge che la sua bellezza sfiorisce e più è consumata dal desiderio di primeggiare e dalla gelosia. I suoi capricci, le sue bizze sono un mezzo per nascondere le ferite del tempo, per combattere l'età che avanza, l'inesorabile legge della vita e il ricambio delle generazioni.

Margo, all'inizio, quando ancora non è al corrente delle macchinazioni di Eva, le si accanisce contro perché ne ha paura, teme la sua freschezza, la sua giovinezza, sa che se all'orizzonte sorgesse un altro astro il suo verrebbe oscurato e dovrebbe necessariamente tramontare. Questa lotta che Margo conduce non tanto contro gli altri ma contro la vita, contro se stessa, trasforma il film in una tragedia classica, ci ricorda per alcuni versi il "Saul" di Alfieri, non a caso citato nel film, e Berta che, vive da tanti anni alle dipendenze di Margo, si trasforma nella nutrice della tragedia classica, premurosa e fedele confidente.

A livello strutturale il film è costruito attraverso lunghi flash back, per la precisione sette, raccontati da tre narratori, secondo una struttura ad incastri che ritroveremo in un altro capolavoro di Mankiewcz, La contessa scalza. Si apre, infatti, con la consegna della statuetta a Eva Harrington e si conclude, dopo aver ricostruito tutte le vicende, con la statuetta che Phoebe, avvolta nell'elegante e costoso soprabito di Eva, stringe tra le mani davanti allo specchio, mentre Eva, stremata dalla stanchezza, è stesa su un divano. Il film, che ha ottenuto ben sei premi Oscar, si giova soprattutto della magistrale interpretazione di Bette Davis e di Anne Baxter, mentre in una particina di contorno si lascia ammirare in tutta la sua bellezza Marilyn Monroe, in una delle sue prime apparizioni cinematografiche di rilievo.

Anche il libro della Prosperi conserva la ricostruzione per analessi e la struttura circolare, con la sola eccezione che nel prologo appare già Phoebe che, timida ed impacciata ma piena di sogni ed ambizioni, assiste alla premiazione, grazie ad un invito procuratole dalla cugina, per cui il tema del doppio è ancora più evidente. Nel testo in prosa, Bill Sampson, il regista che alla fine sposerà Margo, è più docile, innamorato e remissivo di quanto non sia nel film di Mankiewicz, probabilmente perché la mano che lo ha tratteggiato è quella di una donna.

 


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