Cloverfield: l'esperimento di J.J. Abrams e Matt Reeves PDF 
Paolo Parachini   

Cloverfield (id., 2008) è il secondo lungometraggio per il grande schermo diretto da Matt Reeves, regista per lo più televisivo da sempre in stretta collaborazione con il vero ideatore del film: J.J. Abrams. Quest’ultimo è diventato celebre per la serie televisiva Lost (id., 2004 – in prosecuzione) , di cui è ideatore, co-sceneggiatore e regista in alcuni episodi. J.J. Abrams, con Cloverfield, è riuscito, inoltre, a scatenare la crescente moda del viral marketing, in quanto la strategia pubblicitaria che ha ruotato attorno alla pellicola è diventata celebre per la sua efficacia. Ma Cloverfield non è soltanto un prodotto commerciale, sia nell’ideazione che nella distribuzione, bensì è un film dalla straordinaria importanza cinematografica. Cloverfield è, infatti, un film “epocale”, ma nel senso letterale del termine: «che caratterizza un’epoca». Per formulare questa ipotesi è necessario prendere in esame la forma, il contenuto e la risultante delle prime due: l’immedesimazione.  E’ poi possibile spingersi nel sottotesto del film, popolato di simbolismi espressi più spesso attraverso la forma piuttosto che attraverso il contenuto.

La forma del contenuto

Il film è ripreso in soggettiva da una macchina da presa digitale che, insaziabile e traballante, diventa una sorta di protesi del corpo di colui che sta filmando e, allo stesso tempo, che sta fuggendo. Noi esseri umani ci muoviamo, vediamo, registriamo: il nostro occhio è una macchina da presa e il nostro corpo è la steadicam che ne stabilizza la ripresa.  Tra il nostro occhio e il mondo inscenato in [i]Cloverfield[/i] è situata la steadicam di Hud (o del regista Matt Reeves), che è il suo occhio. La ripresa del film non è una vera ripresa amatoriale, ma bensì la soggettiva di Hud; è il suo occhio, che è come il nostro. Nessuna ripresa amatoriale può restare per ottanta minuti ferma ad altezza d’occhio. Questa sottigliezza non deve infatti essere considerata un demerito, perché è grazie al divenire della macchina da presa un sostituto dell’occhio che si raggiunge una sorta di sintesi tra la realtà e linguaggio cinematografico.

La macchina da presa digitale diviene il simbolo dell’oggi filmico-amatoriale, tutti se la possono permettere e la maggior parte di questi la usa proprio alla maniera in cui viene ripresa la festa iniziale: anche se tutto sembra banale, riprendiamo comunque, in attesa che qualcosa d’interessante avvenga.  La tecnica (chiamiamola) da Real TV viene, intelligentemente, fatta scontrare dalla presenza dell’elemento funzionale - cinematografico per eccellenza: il grande mostro che devasta la metropoli. Lo “scontro” è però, ancora una volta, coerente con i tempi in cui viviamo: la società delle immagini, in cui quello che ci viene presentato e mostrato come reale, si rivela spesso “finto” al 100%. Allo stesso modo risulta assolutamente coerente, in relazione ai tempi odierni, che i giovani protagonisti non stacchino mai la cinepresa per scappare più facilmente o aiutare (e aiutarsi) gli amici in difficoltà (nonostante la “trama” centrale sia proprio il tentativo di salvare una persona cara). Nella nostra epoca, prima si pensa a riprendere la violenza (o la morte) e poi, forse, si pensa a fermarla. Colui che sta filmando registra, addirittura, il momento in cui viene ucciso: probabilmente sarà morto felice perché è riuscito a riprendere la fine della sua vita, che potrà essere vista a breve su YouTube.

L’ossessione è infatti riprendere, registrare, documentare. Questo per avere l’esclusiva su qualcosa, essere i primi, gli unici, i più bravi. L’ossessione di visibilità e di ri-visibilità, negli ultimi anni, si è fatta imperante e raggelante. Cloverfield, nel sottolineare questo, mostra come l’ossessione della ripresa si concentra sull’ossessione dei riprendenti. Hud è il “migliore” e il più tenace tra gli ossessionati, così tanto da riprendere lo schermo dei cellulari di altri “videoamatori”. La critica mossa da Cloverfield sulla nostra società affamata di video è proposta per mezzo di un oggetto (la videocamera) che rappresenta ciò che viene criticato. E’ criticare usando l’oggetto della tua critica. E’ la mirabile capacità di riflettere attraverso il linguaggio con cui ti esprimi e non con le immagini, o le parole, che esprimi.

Il contenuto della forma

Nel vedere Cloverfield  si sente, necessariamente, il peso della presenza di un altro “tema” dell’epoca contemporanea: l’immaginario post 11 settembre, al quale Cloverfield si rifà esplicitamente. La “banale” e, quasi, stucchevole festa iniziale è in realtà un momento fondamentale (in tutta la sua durata, circa 20 minuti) per il discorso che Matt Reeves e J.J. Abrams vogliono compiere con questo film. La festa diventa il simbolo della quotidianità: una serata (quasi) qualunque che viene interrotta dal terrore puro: una minaccia che viene a turbare l’ordine, ancora una volta, quotidiano. Cloverfield  mostra come, anche dopo l’11 settembre, non si è mai pronti all’arrivo inaspettato della paura, del male e, di conseguenza (e soprattutto), della morte. Dopo quello che è avvenuto l’11 settembre del 2001 mostrare catastrofi o minacce, al cinema, sembra sostanzialmente inutile. Nulla che potremmo vedere sul grande schermo potrà (forse) sconvolgerci più di quello che abbiamo visto sul piccolo schermo. Gli autori del film hanno capito questo concetto in modo da spostare la loro riflessione (come avveniva in The Host di Bong Joon-ho) dalla tragedia collettiva (il rimando al giorno fatidico) a quella privata.

Cloverfield ci mostra degli esseri umani che fanno i conti con i loro problemi personali: amori infranti, partenze, scelte di vita e quant’altro. La scelta della cinepresa digitale a mano, e delle conseguenze stilistiche che ne derivano, porta a focalizzare l’attenzione su queste persone, sulla loro vita e anche sulla loro morte. La possibile apocalisse, così come il mostro, non sono il centro narrativo della vicenda, tanto che non ha senso chiedersi quale sia l’origine dell’orrenda creatura, il centro sono le umane individualità in fuga da questi eventi. Spesso si ripete che, al giorno d’oggi, ci rendiamo conto di una tragedia soltanto se ci colpisce direttamente: questo concetto, così tristemente contemporaneo, potrebbe essere proprio l’idea stessa del film. Vedere le immagini di palazzi in fiamme, al cinema, ormai non ci colpisce più; ora è necessario, per spaventare, far vivere agli spettatori quei momenti. Magari attraverso una cinepresa traballante, alterego degli occhi di uno spettatore, ormai partecipe della fuga del mezzo cinematografico.

Lo spettatore nel contenitore: immedesimazione

Mai come oggi, causa la “banalità” in cui viviamo, c’è la voglia di sfuggire dalla realtà tramite strade diverse: viaggi, sogni, videogiochi. Anche il cinema può farlo, e Cloverfield lo dimostra magnificamente facendo “entrare” lo spettatore all’interno del film che sta guardando. Grazie ai procedimenti stilistici adottati il film ci prende e ci catapulta direttamente nel “viaggio” dei quattro protagonisti: una fuga alimentata dalla nostra voglia insana di vedere, e insieme vivere, l’evento mostrato. Cloverfield sembra quasi ricreare l’emozione ancestrale del cinema delle origini, quando gli spettatori scappavano per l’arrivo di un treno in corsa dei Lumière. In questo senso decisamente molto interessante è il parallelismo anche con The Big Swallow (di James WIlliamson), opera incommensurabile del 1901, in cui un uomo stufo di essere ripreso si mangiava il cameraman insieme alla macchina da presa; lo stesso gesto che sembra fare il mostro negli ultimi minuti del film. Cloverfield, dunque, richiama alla mente il cinema delle origini. Ma se cento anni fa la paura era che la realtà del cinema invadesse materialmente la realtà degli spettatori, oggi questa paura può essere ricreata soltanto per via inversa. La paura è che sia la realtà dello spettatore ad invadere la (brutale) realtà del cinema. Cloverfield è l’incarnazione diametralmente opposta del cinema delle attrazioni perché si nutre di un processo infallibile investendolo di post modernità. Per questo, forse senza precedenti nel cinema degli ultimi decenni, Cloverfield sconvolge, scombussola e angoscia giungendo fino ad un’eccitazione perversa, data dal fatto che fa “vivere” il film come se ci si fosse dentro.

Quello che ci viene mostrato in Cloverfield, dunque, è falso, finto, impossibile ed irreale. E’ tra le più false e fantasiose storie mai narrate. Cloverfield ci viene mostrato attraverso il mezzo cinematografico, per mezzo della ricostruzione cinematografica. Il cinema, di per sé, è finzione. Anche se ciò che viene filmato è reale, il cinema rimane finzione. Per Oscar Welles il cinema è suprema menzogna messa in scena rispettando il realismo ontologico del cinema. Matt Reeves, e J.J. Abrams, mettono in scena il fantastico rispettando il realismo ontologico della ripresa amatoriale, e rispettando, nello stesso tempo, il realismo ontologico del cinema. Questo trasmette una immedesimazione inimmaginabile in altri modi, perché ci riporta alla mente la realtà filmata da gente comune. Cloverfield è realistico non perché propone la realtà ma perché propone la trasposizione filmica più vicina alla realtà.

Cloverfield è, quindi e certamente, un film epocale. Diverso da ogni altro esperimento superficialmente simile (ad esempio The Blair Witch Project) si figura come una delle più potenti sperimentazioni cinematografiche degli ultimi anni. Ma tutto questo, probabilmente, gli verrà attribuito solo in futuro. Come il genere noir negli anni ‘40 è stato contenitore di modernità, rispetto al cinema classico hollywoodiano, così oggi Cloverfield (che insieme a The Host è il secondo [i]monster movie[/i] a presentare incredibili qualità) può essere considerato contenitore di post modernità. Dal punto di vista oggettivo (cinema classico) si è passati al punto di vista soggettivo (cinema moderno), fino ad arrivare alla soggettiva totale (Cloverfield). Cloverfield, inoltre, sembra spingersi ancora più in là: durante la visione del film, infatti, si ha come l’impressione di non essere spettatori, ma spettacolo. Il mostro sembra rincorrere noi spettatori, siamo noi l’oggetto del suo sguardo. E l’attacco finale alla cinepresa diventa un attacco allo spettatore stesso, che si è spinto fino al punto di non ritorno, per la foga di voler vedere (e di voler mostrare).  Le immagini rimarranno per sempre, ma il prezzo della contropartita è davvero molto alto: perché il mostro ci ha ucciso. I titoli di coda non servono più.  Siamo tutti morti.

 


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