John Waters: l’estetica del cinema underground PDF 
Eros Torre   

Premessa. L’opera di John Waters è visionaria. In quanto tale deve essere essenzialmente vista piuttosto che discussa, analizzata e intellettualizzata. L’opera del regista di Baltimora nasce dall’interno, dalla sonnecchiante suburbia americana (“il buco del culo degli USA” secondo lo stesso Waters) e, almeno nella primissima fase della carriera, è vomitata fuori senza alcun filtro cerebrale. È il cinema più concreto e istintivo che ci si possa attendere: è pura materia, polpa (pulp, sorprendente anticipazione di Tarantino) che trascende la forma e che attinge direttamente dalle pellicole dei suoi maestri Herschell Gordon Lewis e Russ Meyer. Eppure è al contempo cinema concettuale quello di Waters, pur rimanendo con ostinazione anti-intellettuale; fa riflettere sul senso e sulla funzione di film, sull’integrazione e sulla disintegrazione della società, sull’arte e sull’estetica. Come ha brillantemente sottolineato Zagarrio, autore di un fondamentale testo monografico: “Rileggendo il cinema di Waters si ha la netta sensazione che di là passino linee e nodi molto delicati della cultura occidentale, dall’avanguardia all’underground, dal cinema indipendente a quello autoriflessivo, dal trash al midnight movie, dalla pornografia alla transessualità, dal postmoderno al meticciato, dalla morte dell’arte alla fine della storia, dall’escatologia alla scatologia” . Siamo comunque più vicini alle provocazioni artistiche di Duchamp, Warhol e, se si vuole, Buñuel che non a quelle cinefilosofiche di Godard o anticinematografiche di Debord. Waters ci getta in faccia i suoi (nostri) fenicotteri rosa (feticcio e icona della sua filosofia estetica) così come Duchamp ci ha posto davanti al suo feticcio (Altro), la celebre “fontana”.

Fino a Pink Flamingos (1972) il cinema di Waters è quasi astratto, procede per fasi narrative non necessariamente coerenti, dovute ad un montaggio istintivo, sporco e antiscolastico. Ma è proprio in questa fase che vedono la luce le opere più trasgressive, originali e significative. Dopo gli “esercizi di stile” giovanili, grazie ai quali il regista raccoglie attorno a sé la sua factory (la cosiddetta Dreamland, composta da individui a dir poco bizzarri) e prende confidenza con le tecniche di ripresa, montaggio e “produzione”, nel 1969 Waters si cimenta con il primo lungometraggio in 16mm dal titolo emblematico Mondo Trasho. Un soggetto incoerente funge da pretesto per la prima vera galleria degli orrori watersiani, una parata di personaggi eccessivi e, per certi versi, favolosi che attraversano lo schermo in un crescente delirio di violenza e perversione, palesato fin dalla prima sequenza, nella quale un boia decapita numerosi polli; c’è già in nuce l’intero campionario di amoralità e provocazioni che renderanno celebri tutti i lavori della Dreamland. Ciò che stupisce è la consapevolezza ideologica e la maestria con la quale l’artista, allora appena ventitreenne, modella la materia culturale in suo possesso. Elementi colti (d’avanguardia) e popolari si intrecciano incessantemente: le tecniche di ripresa del New American Cinema (la macchina da presa liberata da Jonas Mekas) convivono con le citazioni di Cenerentola e del Mago di Oz, l’uso della musica ispirato da un grande innovatore come Kenneth Anger (il cui libro Hollywood Babylon viene tra l’altro citato nelle sequenze iniziali del film) convive con i continui rimandi al più infimo cinema exploitation, dai film mondo citati nel titolo ai gore movies di Gordon Lewis. Waters fa praticamente tutto da solo: soggetto, sceneggiatura, regia, fotografia, ripresa, arrangiamento musicale, montaggio e produzione per un costo complessivo di soli 2.000 dollari. Il risultato è un lavoro acerbo e sfocato, che tuttavia diventa celebre quando il critico del “New Yorker” Pauline Kael definisce Satyricon (1969) “il Mondo Trasho di Fellini”, creando una relazione stilistica tra i due autori che sarà sottolineata più volte negli anni seguenti.

Un anno dopo Waters conclude Multiple Maniacs (1970), episodio fondamentale nella formazione di quell’estetica di cui si accennava all’inizio. Proseguono gli omaggi, esplicitati sin dal titolo, a Herschell Gordon Lewis (e al suo Two Thousand Maniacs! del 1964) e alle parodie hollywoodiane dei fratelli Kuchar, ma in questo case prevale chiaramente l’umorismo feroce e il gusto per lo spettacolo di Waters. Il film narra le vicende di Lady Divine, ladra, assassina, proprietaria e principale attrazione di un disgustoso spettacolo itinerante (“La cavalcata della perversione”), che annovera, tra gli altri, esibizionisti, feticisti, eroinomani, omosessuali e un uomo che mangia il proprio vomito. Grazie all’intervento di una logorroica barista (la “splendida” Edith Massey, per la prima volta sullo schermo) Lady Divine scopre di essere al centro di un complotto ordito dal marito (David Lochary) e dalla sua amante (Mary Vivian Pearce), che intendono liberarsi definitivamente di lei. Sulla strada di casa, in cerca di vendetta, Divine viene violentata da due teppisti. Dopo lo stupro appare l’Infante di Praga, che prende per mano la donna e la accompagna in chiesa. Qui una lesbica (Mink Stole) pratica a Divine una penetrazione anale utilizzando un rosario e provoca alla Divina una serie di irriverenti visioni bibliche (la via crucis, la moltiplicazione dei pani e dei pesci, etc.). Le due donne si avviano poi verso casa e uccidono brutalmente i due amanti, responsabili tra l’altro dell’omicidio involontario della figlia di Divine. Dopo aver banchettato con i cadaveri Lady Divine uccide anche l’amica lesbica e viene poi violentata (per la terza e ultima volta) da un’aragosta gigante, entrata in scena senza alcuna ragione plausibile. La “donna” vaga poi in preda al delirio per le strade della città (in perfetto stile zombie ispirato evidentemente da Romero), ed è infine raggiunta e abbattuta dalla guardia nazionale. Il film, come tutti quelli del primo periodo, si basa su sequenze dal forte impatto visivo ed emotivo più che su una solida struttura narrativa.

Emblematiche in questo senso le tre sequenze religiose, con le quali Waters porta a termine il suo affondo contro la morale cattolica. “Multiple Maniacs – ha affermato in seguito – mi ha davvero aiutato a spurgare il cattolicesimo fuori dal mio organismo, ma non penso che si riesca mai veramente a perderlo del tutto” . L’incontro con il Bambino di Praga, il rosary job in chiesa, la parodia della via crucis contengono tutta la teatralità della religione cattolica combinata con un irresistibile mix di volgarità e provocazione totalmente gratuite. Ideato allo scopo di offendere e sconvolgere i benpensanti Multiple Maniacs attacca la famiglia, la religione, la politica, l’etica e il buongusto americani e si pone chiaramente in difesa dei “mostri” sbattuti in prima pagina e accusati dei mali del mondo; le ricorrenti allusioni alla famiglia Manson (vera ossessione di Waters) evidenziano la posizione ideologica del regista, che non esita a mettersi dalla parte dei cattivi contro il conformismo e la mediocrità. Ancora Zagarrio: “Si tratta di un film, insomma, che va ben oltre l’undergournd e l’expolitation, per costituire un vero e proprio libello di ideologia antiamericana e di linguaggio antihollywoodiano” . Waters è pronto ora per entrare nella storia del cinema e per sconvolgere il mondo. Si avvicina l’ora di Pink Flamingos.

La storia di Waters è, in qualche modo, la storia di Pink Flamingos e la sua fama imperitura è legata in gran parte all’ultima sequenza di questo film. Una “maledizione” con la quale fare i conti costantemente. Come sarebbe stata la carriera del regista senza quell’unica scena nessuno può dirlo, ma è certo che l’autore di Hairspray (1988) o Serial Mom (1994) difficilmente sarebbe passato alla storia come un genio o un rivoluzionario. Pink Flamingos è la storia di due famiglie in lotta per il titolo di “Persone più disgustose della terra”: da una parte Babs Johnson/Divine e la sua assurda famiglia, dall’altra i coniugi Marble (David Lochary e Mink Stole), perversa coppia di borghesi che, dopo una spietata lotta, sarà processata e condannata a morte dalla stessa Divine. Nel già citato finale Divine provvede a legittimare il titolo di “Filthiest person alive” con una performance inattesa e indimenticabile. Ci sembra appropriato utilizzare le parole dello stesso Waters per descrivere la sequenza: “Il grande giorno era arrivato. Divine raccolse la merda e se la mise in bocca. La masticò, la spremette fuori dai denti con la lingua, ebbe deboli conati di vomito e fece un ghigno da mangiatrice di merda alla macchina da presa. Ed entrò nella storia del cinema!” . Niente stacchi né tagli, un incredibile pianosequenza per dare in pasto al pubblico “qualcosa che nessun altro studio potesse osare dargli anche con dei budget multimilionari. [...] Qualcosa che non avrebbero potuto dimenticare” . Una dichiarazione di adesione totale all’arte e di ripensamento della stessa sulle orme di Duchamp e Manzoni e uno dei momenti fondamentali del cinema underground. Nel recente volume “Underground U.S.A.”, Xavier Mendik e Steven Jay Schneider evidenziano, citando Justin Frank, come questa sequenza sia “la più famosa ... in tutto il cinema underground – l’equivalente underground della scena della doccia in Psycho” .

L’affermazione non appare esagerata anche alla luce del successo ottenuto dalla pellicola nel circuito dei Midnight movies americani: Circa 200 settimane di programmazione nel periodo 1973-1979 nei soli teatri di New York, con veri fenomeni di culto in stile Rocky Horror Picture Show (1975), ma in anticipo rispetto ad esso di due anni . Un successo basato quasi esclusivamente sul passaparola e rafforzato in un secondo tempo da recensioni più o meno positive. James Brady sul New York Magazine ha paragonato il film a Un Chien Andalou di Dali e Bunuel; Jonas Mekas e Jack Smith hanno celebrato a più riprese gli oltraggi e le provocazioni dei Dreamlanders; Fran Lebowitz, critico della rivista Inter/View, fondata da Warhol, ha definito Pink Flamingos “uno dei film più perversi mai realizzati. E uno dei più divertenti”. Si dice che lo stesso Warhol fosse un ammiratore del film e ne abbia consigliato la visione a Federico Fellini in visita a New York. Come di consueto Waters gioca con i significati e le relazioni e si colloca a metà tra speculazione e trasgressione. L’atto estremo di Divine rappresenta, come detto, l’adesione incondizionata ad un ideale artistico, il sacrificio necessario per giungere alla bellezza assoluta (ovviamente nell’ambito di una concezione estetica rovesciata), ma esso raffigura altresì una feroce affresco della società mediatica contemporanea, nella quale pur di essere celebri per un giorno (o 15 minuti) si è disposti ad ogni crimine e umiliazione. Si tratta di due posizioni concettualmente antitetiche, che convivono in Pink Flamingos in virtù della natura estetica del cinema di Waters, un cinema di opposti (e di antifrasi) oltreché un cinema (ideologicamente) al contrario.

Pink Flamingos possiede ad ogni modo meriti che vanno ben al di là di questa ultima sequenza. Il passaggio al colore ad esempio consente al regista una completa libertà espressiva che si manifesta anche attraverso una lunga serie di invenzioni visive e oltraggi cromatici. Tutti i dreamlanders contribuiscono attivamente alla messa in scena dello spettacolo del disgusto; sono davvero “the filthiest people alive”. La galleria di freaks è quasi infinita: lo stupratore di polli, l’esibizionista, etc. Su tutti svetta la straordinaria interpretazione di Edith Massey in una delle caratterizzazioni più riuscite (e in uno dei ruoli più geniali) nella storia del cinema: una vecchia e grassa signora, che vive in una culla per lattanti, ossessionata dal consumo di uova. A tratti la vecchia barista di Baltimora finisce per rubare la scena a Divine, combinando volgarità e lirismo, comicità e riflessione, incarnando la sintesi perfetta dell’estetica watersiana. È un corpo gigante e ipermateriale con una voce acuta e stridente e un’anima nobile. Qui offre tra l’altro lo spunto per un omaggio a Lewis Carroll, uno dei maestri del nonsense (e senza dubbio uno degli ispiratori del “linguaggio estetico” del regista), attraverso il dialogo relativo all’eggman e attraverso la recita delle filastrocche di Alice.

Fino a Pink Flamingos Waters procede sulle orme di Carroll, costruendo personaggi grotteschi e situazioni paradossali. Realizza un immenso, continuo nonsense, che nega la stessa logica con la quale si afferma, che sorprende lo spettatore e lo colloca in una posizione di smarrimento, che sfugge ad interpretazioni univoche e ricompare dove mai lo si attende. I due autori spingono agli estremi la logica della percezione e del gusto e, a maggior ragione, della percezione del gusto. Conducono il proprio discorso narrativo attraverso paradossi, simboli e metamorfosi. Ma è nel procedimento di costruzione di interi universi alternativi che emergono le maggiori analogie. Waters costruisce e ci mostra il suo mondo (o piuttosto la sua weltanshauung), inducendoci ad accettarne con naturalezza le regole e la prospettiva, allo stesso modo in cui Alice (e noi con lei o attraverso lei) si trova inconsciamente ad accettare le assurde regole di Wonderland, un mondo abitato da creature mostruose e straordinarie. Anche i film di Waters sono affollati da mostri e freaks della medesima natura. Si tratta di creature ben diverse da quelle cupe e angoscianti rappresentate da Tod Browning in Freaks (1932), rappresentano infatti la joi de vivre e sono, per certi versi, psichedeliche. Sono i monstra latini, creature prodigiose e straordinarie, senza accezioni negative, che esistono per il semplice scopo di stupire e scioccare; l’aragosta gigante di Multiple Maniacs è emblematica di questa concezione slegata dalla razionalità. Anche la violenza che spesso caratterizza i film di Waters, e che diventerà un epilogo ricorrente, è grottesca, paradossale e ironica, è spettacolare e spettacolarizzata a un livello estremo e proprio per questo è svuotata di ogni significato extradiegetico. Per tornare alla teoria degli opposti (in senso hegeliano più che nietzschiano o, tantomeno, aristotelico) si può anche in questo caso individuare una tensione latente e un sottile equilibrio tra la violenza frenetica e irrazionale degli attori (elemento dinamico) e l’esibizione reiterata di corpi, feticci e materie (elemento statico). Non è violenza rivoluzionaria né catartica né metaforica. Non è Arancia MeccanicaMean StreetsEl TopoIl Padrino. Waters non indugia più sul ‘68 ma anticipa piuttosto il ’77, anticipa l’estetica e la ideologia punk.

Può apparire paradossale associare il termine “estetica” ad un uomo che ama definirsi “Papa del trash” o “Re del vomito”, ed è proprio questa apparente inconciliabilità l’aspetto più complesso e affascinante di tutta l’analisi critica su Waters. “Per comprendere il cattivo gusto bisogna avere molto buon gusto” ha scritto il regista all’inizio della sua prima biografia. Questo potrebbe essere sufficiente a chiarire la prospettiva teorica e a chiudere ogni controversia. Ma la critica ha dimostrato di non condividere tale ottica e continua a considerare Waters un regista minore e trascurabile (e riserva la stessa sorta ad altri eccellenti autori). L’estetica del cattivo gusto del resto è centrale anche nel discorso speculativo di Jean Genet, che si è ostinato a difendere l’armonia del dissonante: “Trovare un accordo fra cose di cattivo gusto: ecco l'eleganza”. È un’affermazione che sembra plasmata sull’opera del regista di Baltimora e che è utile a confermare la coerenza e il rilievo della sua ricerca espressiva. La necessità di tale ricerca appare difatti impellente e imprescindibile nell’ambito della legittimazione del cinema come arte, a maggior ragione all’interno di un movimento disomogeneo e frammentato come quello formato dai registi d’avanguardia, i quali, non a caso, operano spesso al limite tra arte pura, cinema e, talvolta, intrattenimento e tendono a muoversi in territori inesplorati e poco rassicuranti. È il “cinema come arte sovversiva” teorizzato da Vogel , del quale Waters è diventato maestro e icona dopo esserne stato a lungo sincero ammiratore. È cinema che diventa poesia, vale a dire, ancora nei termini provocatori di Genet “l’arte di utilizzare i resti. Di utilizzare la merda e farvela mangiare” . E qui si torna alla sequenza finale di Pink Flamingos, che ricalca alla lettera questo principio. Ma i resti non vanno intesi solo in senso scatologico, poiché sono gli stessi Dreamlander a rappresentare gli scarti, gli outsider della società statunitense. Ed è attraverso questo utilizzo terroristico dello shock che Waters ha sostenuto e condotto il proprio progetto cinematografico, soprattutto nella prima fase della carriera; non a caso ha intitolato “Shock” anche il primo romanzo biografico, nel quale si possono intravedere i sintomi che hanno provocato il mutamento di strategia e la svolta degli anni Ottanta. Lo shock come chiave per l’affermazione artistica e la morte del bello sono state vaticinate da Paul Valéry già sul finire del XIX secolo: “La bellezza è una specie di morte. La novità, l’intensità, la stranezza, in una parola tutti i valori dello shock l’hanno soppiantata; le opere hanno attualmente la funzione di strapparci dallo stato contemplativo, dalla felicità stazionaria, la cui immagine era un tempo intimamente legata all’idea generale del Bello” .

L’arte e la bellezza hanno imboccato sentieri separati già da lungo tempo. Lo shock è uno strumento attraverso il quale giungere ad una ridefinizione dell’arte: è così per Duchamp, per Warhol, per Bunuel ed è così, naturalmente, per Waters, da sempre apprezzato e corteggiato dalle grandi gallerie d’arte contemporanea. Novità, intensità, stranezza (diversità) e shock sono i caratteri fondanti dell’opera watersiana che, se è vero che non persegue il bello, presumibilmente aspira al sublime, vale a dire quel sentimento di piacere negativo descritto da Kant che attrae e respinge al contempo . Di capitale importanza è la distinzione tra la staticità del bello (la “felicità stazionaria” di Valery) e la dinamicità del sublime: “La bellezza viene ammirata, mentre il sublime ci travolge” . L’arte, quindi, spogliata del suo aspetto contemplativo, non può più perseguire la bellezza, ma deve confrontarsi con il sublime, accentuando gli elementi di violenza e detournement. E portando agli estremi il duplice confronto tra arte/cinema e bello/sublime si può comprendere la natura critica dell’opera di Waters, difatti, come ebbe a scrivere Lyotard, il padre della postmodernità: “La sublimità non è più nell’arte, ma nella speculazione sull’arte”. Diventa così insolubile il legame tra opera d’arte, ricerca del sublime, critica della società e critica dell’arte, diventa centrale il “discorso sull’arte”, cardine della estetica contemporanea. Si comprende in tal modo la natura postmoderna del cinema di Waters, dalle opere istintive giovanili, nelle quali tale natura emerge in maniera spontanea e veemente, alle opere mature, nelle quali la riflessione critica sul cinema e sulla società diventa elemento centrale e viene condotta in maniera organica e programmatica.

È innegabile difatti che il cinema di Waters abbia subito un profondo mutamento nel corso degli anni Ottanta, in particolare nei sette anni di pausa tra Polyester (1981), che in ogni caso già segna un piccolo passo indietro rispetto alle opere precedenti per volontà di stupire e provocare, e Hairspray (Grasso è bello, 1988), quasi un film per famiglie che rappresenta il maggior successo commerciale del regista e ne consente l’ingresso in grande stile ad Hollywood. Questo compromesso preannuncia la fine delle aspirazioni rivoluzionarie di Waters e presagisce una produzione di maggiore popolarità, ma di minore qualità, una fase nostalgica di ripensamento del cinema e dell’industria, nella quale vedono la luce pellicole formalmente impeccabili (e anche talvolta apprezzabili) ma in cui non v’è più alcuna traccia di sovversivismo. La tecnica registica si fa più pulita, la narrazione più coerente, la fotografia più curata, l’ironia più sottile, ma ciò provoca un senso di artificiosità insolita, evidente anche nei lavori più riusciti come Pecker (1998) e A Morte Hollywood! (Cecil B. Demented, 2000).

La figura di Waters è, ad ogni modo, fondamentale per ogni regista indipendente e la sua filosofia è ancora attualissima da un punto di vista ideologico, come dimostrano i continui omaggi e i numerosi imitatori in circolazione. Molto cinema è stato ispirato o influenzato da Waters, Da Fassbinder ad Almodovar, da Burton a Tarantino, da Peter Jackson a Kevin Smith, dai Coen ai Farrelly e, naturalmente, una grande parte della produzione indipendente nordamericana deve moltissimo ai film dei dreamlander. Il merito principale è stato la comprensione del valore violento e provocatorio dell’arte concettuale e l’applicazione di tale principio ad un cinema di intrattenimento viscerale e non cerebrale. Il superamento di Warhol e Mekas e la creazione di un nuovo linguaggio cinematografico, che ha aperto la strada a decine di giovani cineasti.

 


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