Anything else: lettera al mio Woody PDF 
di Gianni Nicolai   

Woody. Il mio Woody. Il nostro Woody che da qualche anno, ogni anno, ci sforna commediole spruzzate di filosofia al rosmarino. Woody, lo stesso di Stardust Memories e Mariti e mogli, tanto per citarne un paio. Verrebbe da dire: ma non ci saremo sbagliati tutti su di te, Woody? Se sei arrivato a queste ultime poco soddisfacenti prove DA SOLO (perché il mio sospetto è che ormai i film te li facciano altri) allora si deve riconsiderare tutta la tua opera, Mister. Attento, che ci potrebbe anche essere qualcuno che la conosce tutta. E che si sente un pochino spaesato se si considera una mirabile parabola creativa che partendo dal demenziale era passata ad esercizi di drammaturgia nordeuropea e si era assestata, nei primi anni '90, su un miracoloso equilibrio di comico, dramma e avanguardia (i tagli creativi nella pellicola e la camera a mano in Mariti e mogli, per citare di nuovo uno dei più bei film di tutti i tempi, sono per me il vero significato della parola "cinema")... Allen vuole farsi amare anche dalle nuove generazioni; forse la casa di produzione glielo impone, come quando si è trasformato in un burattino anfetaminato in La leggenda dello scorpione di giada, o come cavolo lo hanno intitolato. E per farsi amare dai giovani utilizza anche (questo già da un po') attori di grido, come questo Jason Biggs che personalmente trovo espressivo come una sedia dell'IKEA. Però, però...

 

Però l'ultimo Anything else, devo dire, mi ha fatto pensare. Pieno di scene noiose, senza uno sbocco, statiche, lunghissime, e va bene. Ma per la prima volta da tempo vedo messaggi diretti ai conoscitori, o forse a lui stesso. Per esempio, chi non conosce una buona percentuale della sua opera non potrà apprezzare appieno questa voglia di far male, di essere violento, di rivelare al mondo quel senso di inutilità della speculazione pura che si fa strada nell'uomo maturo. Temi forse già toccati, e meglio (penso all'ottimo Crimini e misfatti, dove gli ideali venivano sistematicamente umiliati dalla realtà), ma Woody col FUCILE (!!!) non si era quasi mai visto (sì, l'aveva imbracciato in Hannah e le sue sorelle, ma per suicidarsi; in Bananas ne rimontava uno alla cieca ma lo trasformava in un rottame; in Amore e guerra era uno dei tanti poveracci mandati al macello sui campi di battaglia...). Ancora, Stockard Channing, che sfrutta sapientemente i suoi notevoli mezzi vocali (rivedere Grease per alcune davvero belle interpretazioni) per inscenare l'artista non più giovane che insegue un sogno sciupato mi ricordava la madre-padrona di Interiors: perché, mi dicevo? A parte l'essere ingombrante per la famiglia, non vedevo grandi somiglianze nei due personaggi... e poi si scopre che da giovane faceva l'arredatrice, come il personaggio dell'altro film! Coincidenze?

L'idea dell'alter ego, ormai sfruttata fino alla nausea, stavolta è contrapposta all'immagine reale dell'autore. Già in passato avevamo visto Woody alle prese con Woody-bambino, magari nella stessa stanza (Io e Annie): un omaggio-inchino a un certo Ingmar e a un certo posto delle fragole. Ma ora Woody PARLA a se stesso giovane, imponendogli un maggior senso di autodifesa: della sua persona fisica, ma anche delle sue idee. Vorrebbe piegare la realtà indiscutibile del passato (come Nanni Moretti quando su Palombella rossa rivede Il dottor Zivago e vorrebbe cambiare il finale), ma rimane frustrato, perché Woody-giovane alla fine non lo segue.

Le armi e la violenza sono un motivo insistito nel film: non solo come simbolo, ma anche come, purtroppo, unici mezzi di comunicazione validi per tanta gente: i due truci che rubano il parcheggio hanno la stessa valenza intellettuale di tanti personaggi simili che spesso in altri film infastidiscono o malmenano Woody, ma stavolta egli non si sente appagato dal contrapporre snobisticamente l'intelletto alla rozzezza: stavolta Woody sfascia i vetri. E' parlare la loro stessa lingua, ma è anche una violenza simbolica: il personaggio-Woody si dimostra così non meno irreale dell'alter ego-giovane romanziere: questi è il passato che non torna, quello è chi vorrebbe essere violento, un fattore-violenza gonfiato fellinianamente a costo di apparire ridicolo (ed è ridicolo, volente o no, nel negozio di armi e poi a casa dell'amico).

 Tutto questo (non molto, veramente), se può interessare un alleniano convinto, obiettivamente è un po' poco per chi vuole godersi il film a livello sensibile: a parte le riposanti verzure del Central Park e la sapiente illuminazione della scena del dottore-palpeggiatore, sono da rilevare momenti imbarazzanti quali un terrificante campo-controcampo nel dialogo tra Biggs e Christina Ricci davanti al ristorante all'inizio della vicenda, e un'altrettanto ributtante abitudine del protagonista giovane a parlare in macchina, ma forse è un problema di recitazione. Nulla da dire alla (supersexy!) Christina Ricci; clownesco nel senso deteriore Danny deVito. Proprio con lui è un momento incomprensibile: una telefonata del manager di Biggs (deVito appunto) arriva nel pieno di una discussione familiare: lo schermo si divide in tre e vediamo in contemporanea la telefonata e la scenata. Non vedo significato a questa scena se non quello di creare un caos per pochi secondi (di ben altro valore le due famiglie che si fronteggiano sullo schermo splittato a distanza di 30 anni su Io e Annie). Boh.

Woody. Resterai il mio Woody. Farò finta di niente, o farò finta di rivedere in questi filmetti le tue vecchie cose... ma non siamo troppo negativi: diciamo che speriamo di vedere alla fine un cinema spogliato dei doveri che pesano, fatto di volti e non di scorpioni. E non dobbiamo ridere per forza se non vuoi ridere, Woody.

 


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