Un’esperienza al di là del pensiero: il cinema di Jane Campion PDF 
Elisa Mandelli   

Probabilmente chi ama i cineasti prolifici, capaci di portare sugli schermi un film all’anno (e, con lo zampino di una distribuzione avveduta, magari nel periodo di Natale), rimarrà quantomeno spiazzato dai ritmi creativi di Jane Campion, che in più di vent’anni ha girato “solo” sette lungometraggi ed alcuni cortometraggi (1). E se i film più recenti sono stati liquidati in fretta, e senza riscuotere troppo successo (Holy Smoke e In the Cut), alcune delle opere dell’autrice sono invece state capaci di conquistare il pubblico e riscuotere i favori della critica, valendole una lunga serie di importanti riconoscimenti: Cannes le ha riservato un trattamento speciale fin dal suo primo corto, An Exercise in Discipline – Peel  (1982), che si è aggiudicato la Palma d’oro, poi replicata con Lezioni di piano (1993); Venezia l’ha premiata per Un angelo alla mia tavola (Gran Premio della Giuria e Piccolo Leone d’Oro); l’Academy ha candidato i suoi film  a numerosi Oscar, tra cui quello per la miglior regia (Lezioni di piano) e per la sceneggiatura originale (vinto nel 1993 con Lezioni di piano).

Capace di suscitare consensi tanto entusiastici quanto impietose critiche, la regista neozelandese vanta una carriera controversa e decisamente ricca di provocazioni, durante la quale tuttavia non ha mai rinunciato a seguire la propria strada e a prendersi il proprio tempo: come a dimostrare che l’importante non è restare sempre in scena quanto piuttosto, una volta che la si calca, riuscire a far udire distintamente la propria voce. La forza di quelle due ore in cui i suoi personaggi si muovono inquieti sullo schermo nasce infatti da un lungo percorso sotterraneo di creazione che, come un fiume carsico, si dipana lungo sentieri tortuosi e nascosti, rivelandosi poi con la forza e lo stupore di un’apparizione improvvisa. Dall’intensità con cui ciascun suo nuovo film detona sullo schermo e si impone alla coscienza dello spettatore, dalla precisione dei dettagli e dei tempi narrativi, dalla coerenza e dalla lucidità delle riflessioni, è evidente come i lunghi silenzi di Jane Campion siano gravidi di una minuziosa elaborazione poetica, di un paziente labor limae che non trascura nessun dettaglio, di un’applicazione tenace e costante che tende un resistente filo rosso tra tutti i tasselli della sua filmografia.

Sembra quasi che il percorso artistico dell’autrice tracci una temporalità del tutto propria, in cui l’oggettività delle date ha un peso relativo, sia quando segnala l’uscita in sala delle sue opere, sia quando attribuisce una collocazione storica alle vicende in esse raccontate. Così, dopo sei anni da In the Cut (2003), nel recente Bright Star (2009) Jane Campion torna al film in costume (l’ultimo era Ritratto di signora, 1996) e rimescola completamente le carte, rendendo inconsistente ogni cronologia: la cineasta riprende i temi e i motivi portanti della propria opera, continuando a disegnare la fitta serie di linee che uniscono a doppio filo tutti i suoi personaggi, e che svelano le affinità profonde tra i loro sogni e ossessioni, così come la sostanziale identità delle difficoltà che li irretiscono. Per quanto ci si muova tra epoche e continenti differenti (dalla Nuova Zelanda degli anni Ottanta all’Europa ottocentesca, fino alla New York contemporanea), è a ben vedere solo l’aspetto esteriore (anche nel senso più letterale: gli abiti, i costumi, sempre curati con estrema minuzia) che sembra dividere Fanny Browne dall’Ada di Lezioni di piano, la giovane e sensuale Ruth (Holy Smoke) dalla compassata Frannie di In the Cut, la tenace Isabel di Ritratto di signora dalla fragile Janet Frame (Un angelo alla mia tavola). Solo una convenzione geografica e temporale separa le vicende di queste donne in lotta contro ambienti chiusi e ostili, che negano i loro sentimenti e le loro aspirazioni per paura o ignoranza, etichettati come malattia (l’instabilità di Sweetie, la presunta schizofrenia di Janet Frame o la paura della follia di Ada, che suona il tavolo come se fosse un pianoforte), frutto di plagio (la fede di Ruth in Holy Smoke), o ipocrita civetteria (come rinfaccia il grossolano Brown a Fanny in Bright Star).

Se per ciascuna di queste eroine è dunque possibile specchiarsi nelle altre per comprendere meglio se stessa, ugualmente lo spettatore può guardare ad ogni film della regista attraverso il prisma dell’intera sua opera, giungendo solo così a penetrarne davvero il senso profondo, a seguire con sicurezza il percorso costante e coerente di cui essa è frutto. Film dopo film, storia dopo storia, dietro (o meglio accanto, in un certo senso dentro) la riflessione sull’amore e sulla sensualità, sul ruolo della donna, delle sue (impossibili) passioni e dei suoi sogni (infranti), Jane Campion non smette di parlarci anche di altro: di arte, poesia e letteratura (sostanza stessa delle sue opere, fin dalla genesi [2]), di cinema (che, in un percorso a ritroso nella propria storia, a tratti fa letteralmente capolino nel tessuto stesso dei film [3]), ma soprattutto del proprio cinema, di cui sembra in molti casi arrivare a fornirci una possibile chiave di lettura. Indicazione che si fa quasi del tutto esplicita in una sequenza di Bright Star, film che racconta la storia della giovane Fanny Brawne, innamorata (contro ogni convenzione sociale) del malinconico e malaticcio poeta John Keats, il quale morirà in Italia a soli venticinque anni. L’amore diventa per Fanny, come per altri personaggi (ad esempio per l’Ada di Lezioni di piano), la scintilla che fa divampare la voglia di cambiamento, di ribellarsi ai vincoli di regole imposte dall’esterno per seguire quelle, forse ancor più ferree, dettate dal proprio cuore. Ancora un volta (come per Ada, ma anche per Janet Frame) l’arte diventa strumento di questa rivendicazione, arma la cui lama sottile ma affilata viene puntata dritto al cuore degli obblighi e delle costrizioni. La giovane, stupita e spaventata da quel sentimento tanto intenso, e così diverso dall’allegra superficialità con cui si muoveva tra balli e salotti, desidera capirlo, decifrarlo, padroneggiarlo. Così decide di “imparare” la poesia, il linguaggio attraverso cui si esprime l’amato (mentre lei fa del cucito la propria arte e il proprio mezzo di comunicazione), e che le rimane, almeno all’inizio, oscuro. Eppure tale oscurità non può venir dissipata finché cerca di penetrarla con la razionalità, il pensiero logico. Come le rivela Keats, non è possibile insegnare la poesia, ma essa deve essere “compresa attraverso i sensi”: come quando ci si tuffa in un lago, e lo scopo non è nuotare subito verso la riva bensì “assaporare la sensazione dell’acqua”. Con questo dialogo, posto in uno dei momenti cruciali del film (quello in cui il poeta dichiara il proprio amore alla ragazza), l’autrice ci parla non solo di quello che accade tra i personaggi (che accettano di essere preda di un sentimento che li trascende, che non possono capire e descrivere fino in fondo né tantomeno dominare), ma ci rende anche partecipi della propria concezione dell’arte e del cinema, o meglio del senso profondo della propria arte e del proprio cinema. In questi pochi minuti, in queste parole sussurrate, la cineasta apre come una breccia sull’insieme della propria opera, indica e illumina allo spettatore il sentiero lungo cui attraversarla, la chiave per disvelarne i significati più riposti. Come la poesia, come il tuffarsi in un lago, il cinema di Jane Campion è “un’esperienza al di là del pensiero”, un lavoro fatto di sensazioni ed emozioni prima che di concetti e riflessioni, un’arte che va compresa innanzitutto attraverso i sensi.

La dimensione sensuale è davvero l’elemento dominante dell’intera filmografia della regista, innanzitutto a livello diegetico: i suoi personaggi, e in modo particolare le sue eroine, sono costantemente in balia delle proprie inspiegabili pulsioni, sono vittime (spesso consapevoli) della propria iper-sensibilità, agiscono sotto la guida delle emozioni più che di piani premeditati e razionali. Il loro rapporto col mondo è completamente mediato dai sensi e, anche quando uno di essi è inibito o negato (da una mancanza fisica, come la parola per Ada, o da convenzioni sociali, come il contatto tra i due innamorati in Bright Star), sono gli altri ad acuirsi e a funzionare in modo più intenso, fino a fondersi e confondersi l’uno nell’altro in una potente e spesso destabilizzante carica sinestetica. Ciò è vero fin dal primo, disturbante, personaggio di Jane Campion: quella Sweetie che a tratti sembra porsi al confine tra umano ed animale (arrivando fino a ringhiare come un cagnolino), le cui azioni sono guidate solo dalle pulsioni, da un modo di muoversi nella realtà totalmente elementare e istintuale. È vero per Janet Frame, la cui sensibilità eccezionale si confonde, nell’ignoranza e nel pregiudizio dell’epoca, con i sintomi della schizofrenia, così come per la Frannie di In the Cut, la cui vita viene completamente sconvolta dalla potente carnalità del rapporto che la lega al poliziotto. Per quanto cerchi di negarlo anche di fronte a se stessa, le passioni sono l’unica guida anche per Isabel Archer: pur cercando di uniformarsi alla logica dell’universo ipocritamente puritano in cui si muove, la donna non può controllare l’impulso pressante dei propri fremiti interiori, i quali esplodono in sensuali visioni. L’indipendente e affascinante americana viaggia per il mondo convinta che vedere significhi conoscere, acquisire una piena e razionale consapevolezza di sé e del mondo, dominare il proprio destino e le proprie scelte, eppure nessuna più di lei è vittima di un inganno, di un fatale trompe l’œil. Ciò che le è dato di vedere non sono altro che sue fantasie, come nella sequenza che ripropone attraverso il bianco e nero sgranato di una vecchia pellicola le tappe del suo lungo viaggio: alla realtà oggettiva dei luoghi attraversati si sovrappongono, deformandola, i suoi sogni più intimi e la sua incontrollabile ossessione per Osmond.

Eppure, per quanto siano per molti versi vittime della propria viscerale passionalità, proprio attraverso di essa le eroine di Jane Campion riescono a creare una rottura, una falla nei rigidi sistemi di regole e convenzioni che le imprigionano. Attraverso la rivendicazione della forza e della dignità della propria corporeità, della propria istintiva sensualità, Janet e Ada, Isabel e Fanny, Ruth e Frannie sfidano a viso aperto un universo maschile, freddo e raziocinante, con la sua logica ferrea e insensata. Così, apparentemente relegata ad una posizione di inferiorità all’interno della piccola comunità bianca della Nuova Zelanda in cui arriva per sposarsi, Ada ne sconvolge, silenziosamente ma irrevocabilmente, l’intero equilibrio. La sua arma, laddove la parola le è negata (a tratti sembra più per scelta consapevole che per reale impossibilità fisica), diventa il suo corpo stesso, l’intera superficie della pelle, con cui esplora il mondo e lo fa proprio. È il corpo dunque che, nel suo offrirsi e ritrarsi alla vista del marito e di Baines, le garantisce un ruolo dominante nei rapporti con gli uomini. Sono le dita, con cui sfiora i tasti del pianoforte così come i corpi dei suoi amanti, a restituirle il ruolo di padrona del proprio e dell’altrui destino: per questo la punizione più crudele sarà tagliargliene uno. Lo stesso vale per Fanny che, laddove il contatto con il poeta è negato dalle convenzioni della buona società, esprime tutta la sua fresca femminilità attraverso i colori dei suoi abiti (i quali più che intonarsi al paesaggio, sembrano intonarlo a sé), sfiora il suo amato attraverso l’intensità degli sguardi, ma anche la fibra dei tessuti che essa stessa sceglie e cuce, e che si fanno estensione della sua pelle, superficie che riverbera i sussulti della sua carne.

Ad un primo sguardo sembra che questo dominio incontrastato dei sensi, questa irrazionalità latente e minacciosa, siano quanto di più lontano da una messa in scena minuziosa, quasi maniacale e attenta al minimo dettaglio visivo e sonoro, tanto nelle ricostruzioni storiche quanto nei film di ambientazione contemporanea. Eppure, a ben vedere, anche a livello stilistico Jane Campion dà letteralmente corpo ad un cinema che si sostanzia di emozioni, che procede con il ritmo a tratti sospeso a tratti concitato dei moti del cuore: gli ambienti e le situazioni sono costantemente esposti al rischio dell’entropia, l’equilibrio delle inquadrature e dei movimenti di macchina è minacciato dall’intrusione di dettagli simbolici e rivelatori che scompaginano le carte, la compattezza della narrazione è minata da scarti e deviazioni che annullano le certezze, da improvvisi rovesciamenti che ridisegnano i rapporti di forza. Così lo stile iperrealista di Sweetie, con i suoi contorni tanto netti da diventare taglienti, le sue inquadrature asimmetriche ed eccentriche, incrina dall’interno la stabilità del mondo rappresentato per mettere in scena le stranezze e le devianze psicologiche delle sorelle Dawn (adolescente obesa e ritardata, egoista e non priva di cattiveria, ribattezzata Sweetie dal padre) e Kay (nevrotica e sessuofoba). Così l’ipocrita compostezza della high class  tardo-ottocentesca in cui si muove Isabel Archer (Ritratto di signora) è impietosamente messa a nudo da inquadrature oblique che ne deformano gli ambienti e vi aprono inconsuete vie di fuga; così i limiti tracciati da un susseguirsi di grate, porte e finestre che rinchiudono e quasi schiacciano i personaggi sono eluse da giochi di luci e specchi che moltiplicano e rendono indistinti i contorni del quadro. Nello stesso modo in Lezioni di piano l’abito che cinge Ada e che, ingabbiandola nella sua complessa architettura, dovrebbe essere garante del suo pudore, si trasforma in strumento di un adultero gioco erotico la cui perversione è raddoppiata da un sistema di quadri nel quadro e accentuata dallo sguardo del marito nascosto sotto le assi del pavimento. Ancora, la fotografia di In the Cut dipinge con toni freddi e lividi il lato oscuro del’East Village newyorkese, sfondo di una serie di truculenti omicidi, eppure in questo ambiente più eticamente degradato che disinibito si aprono a tratti scorci di morbida luce arancione, che, come la pioggia di petali iniziale, sembrano restituire un tono sognante ad una vicenda dalla morbosità a tratti insostenibile.

Se è dunque attraverso il corpo stesso del film, attraverso la matericità del suo linguaggio, che Jane Campion restituisce le passioni delle sue eroine, le loro ossessioni, i desideri più profondi e inconfessabili, la sua opera è attraversata da qualcosa che va oltre le storie stesse, oltre ciò che è possibile spiegare e comprendere razionalmente. I film della regista neozelandese sono attraversati da qualcosa che letteralmente tocca i sensi dello spettatore, che ne stimola non solo la vista e l’udito, ma anche, in maniera eccezionalmente intesa, il tatto (con quei piani ravvicinati che quasi ci fanno sfiorare gli oggetti), l’olfatto (quei fiori di cui sembra di percepire il profumo), e perfino il gusto (quei cioccolatini che Janet mangia di nascosto, e di cui sentiamo tutto il sapore di ribellione e rivendicazione di libertà). Così come per le eroine dei film, le percezioni dello spettatore si fanno tanto intense da diventare indistinte, perdendosi in un’inebriante confusione sinestetica: la morbidezza e la fluidità dei movimenti della macchina da presa lo avvincono e lo confondono, lasciandolo preda dei colori dei paesaggi e degli oggetti che si frantumano in infinite sfumature di luci, odori, sapori, mentre i sussurri dei personaggi vengono moltiplicati dal vento e, riverberandosi in mille eco, si fondono ai rumori della natura.

Senza bisogno di effetti speciali i film di Jane Campion fanno vivere una vera e propria esperienza: sicuramente intensa, a tratti spiazzante, per molti versi destabilizzante. Un’esperienza che sollecita interamente e intimamente, che sembra far emergere nostro malgrado le pulsioni più riposte e irrazionali, rendendo impossibile restare indifferenti. Il rischio è che alla fine non rimanga che uno sventolio di abiti colorati, un frusciare del vento in paesaggi dai colori avvolgenti, che si cada nel manierismo e nella pura stimolazione emozionale. Forse possiamo rimproverare alla Campion qualche passo falso in questa direzione, qualche indugio un po’ troppo compiaciuto (4), ma ci sembra che, grazie all’autenticità della propria ispirazione e alla tenace coerenza del proprio percorso artistico, almeno per ora l’autrice abbia evitato benissimo questo pericolo.

Note:
(1) I lungometraggi: Bright Star (2009); In the Cut (2003); Holy Smoke (1999); Ritratto di signora (1996); Lezioni di piano (1993); Un angelo alla mia tavola (1990); Sweetie (1989); Two Friends (1986, film per la TV austrialana). I cortometraggi più noti: The Water Diary (2006, in Chacun son cinéma, film a episodi, Francia, 2007); An Exercise in Discipline – Peel (1982). Cfr www.imdb.com
(2) Quasi tutti i film della cineasta sono tratti da libri o in ogni caso presentano al loro interno una fitta trama di citazioni e riferimenti letterari e poetici.
(3) È evidente infatti come Jane Campion sia affascinata dai dispositivi del cinema primitivo o addirittura del pre-cinema, che ritornano spesso nei suoi film: oltre a molteplici rimandi alla fotografia troviamo ad esempio il gioco di ombre cinesi in Lezioni di piano, o la citazione de L’arrivo del treno alla stazione dei Lumiére in Ritratto di signora.
(4) In particolare, a nostro avviso, in Holy Smoke e In the Cut.

 


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