Il prologo di "Non è un paese per vecchi": allegorie di un'epoca in avvenire e già avvenuta PDF 
Alessandro Alfieri   

Ci sono film che fin dalla sequenza di apertura annunciano allo spettatore di stare per assistere a un capolavoro; sono film realizzati da grandi autori, che conoscono bene l’importanza di realizzare una “overture” efficace, trascinante, suggestiva, in grado di introdurci subito all’interno dell’universo tematico che essi si propongono. I fratelli Coen hanno realizzato, nel 2007, quello che probabilmente è da considerarsi come il culmine della loro già fortunata e nobile carriera, ovvero Non è un paese per vecchi, trasposizione dello straordinario romanzo di Cormac McCarthy; questa autentica pietra miliare del cinema contemporaneo ha concesso ai Coen di accaparrarsi ben 4 premi Oscar, tra cui l’ambitissimo premio per Miglior Film. In questa occasione vorrei concentrarmi sulla serie di inquadrature che compongono il prologo al film; la sequenza di introduzione è la dimostrazione del livello qualitativo dell’intera opera, dato che in essa si condensano alcuni dei pregevoli fattori di ordine poetico e tecnico che caratterizzano il film nella sua totalità. Fin dall’introduzione, possiamo da un lato renderci conto dell’indubitabile capacità artistica degli autori (oltre ai Coen, mi riferisco a Roger Deakins, uno dei migliori direttori della fotografia attualmente in attività), dall’altro, e complementare ad esso, attraverso la voce over del narratore, siamo accolti all’interno dell’ordine dei contenuti che il film ha intenzione di sviluppare. E’ come se, in questa serie di inquadrature iniziale, fosse presente già tutto il film, nonché il suo messaggio e la sua tetra visione del mondo. Ho parlato di overture non a caso: una inequivocabile peculiarità di questa sequenza è la costante armonizzazione e orchestrazione che mette in relazione la voce del malinconico sceriffo Bell e le immagini, non didascalicamente e per banali corrispondenze, bensì “allegoricamente” e in contrappunto. Le parole del protagonista caricano le immagini di uno specifico significato poetico, offrendo loro una profondità e facendo di esse delle allegorie di qualcosa che sta accadendo, mentre le immagini sono la palesazione struggente e ambigua del suo turbamento dell’anima, dei suoi dubbi esistenziali e della sua angoscia dinanzi al divenire. Partendo dalla notte, assistiamo progressivamente al levare del sole, che emerge all’orizzonte da dietro le colline, investendo gradualmente di luce l’erba agitata dal vento, le colline e l'arida superficie del suolo. Altro elemento che partecipa alla straordinaria coordinazione tra elementi visivi e auditivi è il suono del vento, deciso e insistente, ulteriore allegoria dello scorrere inesorabile del tempo.

L’estetica essenziale dei Coen dinanzi alla sofferta transizione tra due epoche
Tina Porcelli, facendo riferimento al celebre antropologo francese Marc Augé, sottolinea l’ “anomalia” che fa di Non è un paese per vecchi un film emancipato dai canoni estetici contemporanei. Se infatti la contemporaneità si caratterizza per una proliferazione di non-luoghi, ovvero ambienti dove la pervasività di suoni, immagini, messaggi ha generato la cosiddetta “surmodernità”, nel film dei Coen ciò che viene messo in mostra è proprio un movimento opposto a questa logica dell’eccesso: il film rasenta il minimalismo visivo, l’essenzialità prende il posto della sovrabbondanza di stimoli percettivi, sono numerosi i momenti di stasi e le fasi riflessive mentre la colonna sonora è straordinariamente incisiva per la sua asciuttezza. La genialità del film sta nel fatto che, indirettamente, sia in grado di parlare proprio di quella surmodernità, ovvero di quella fase che noi oggi stiamo vivendo direttamente sulla nostra pelle. Se essere all’interno di ciò che si intende criticare impedisce di assumere una efficace posizione di distacco, la soluzione di McCarthy, come quella dei Coen, è ambientare la loro storia negli anni ’80, anni significativi perché testimoni proprio del “passaggio” in questione, avendo introdotto un’idea di consumismo massificata e radicale, ripulendosi dalle convinzioni e dai valori classici ai quali si era fatto riferimento per decenni. Non è un caso che un testo centrale per comprendere la cultura e la società contemporanee, ovvero La condizione postmoderna di Jean-Francois Lyotard, sia stato pubblicato proprio negli anni ’80. Il saggio godeva delle condizioni utili a teorizzare la trasformazione, solamente in quanto si stava assistendo in quegli anni al mutamento, offrendo l’opportunità così di “stare contemporaneamente” nelle due fasi, quella che ci si è lasciati alle spalle e quella che era prossima ad insediarsi. Una volta all’interno, ci è negata anche la possibilità di comprendere appieno il mutamento, dato che tale mutamento è già avvenuto. Per questo, l’estetica in linea con la postmodernità (o surmodernità, tralasciando in questo caso la pur importante distinzione tra le due definizioni) è di segno opposto rispetto a quella del film dei Coen, visto che l’estetica postmoderna caratterizza gran parte dello scenario televisivo e multimediale con montaggio frenetico, assenza di introspezione, colonna sonora insistente, dinamiche visive proprie del videoclip ecc. Per parlare di questa contemporaneità, e per comprenderne l’essenza e il fondamento, è necessario tornare a quella fase di transito appartenuta agli anni ’80, e questo ritorno è un viaggio tragico, drammatico, perché vivere il mutamento significa subire lo strappo nei confronti di qualcosa che non tornerà più. Il tema centrale del film è proprio quello della fine di un mondo, che si accompagna d’altronde, come sostiene Riccardo Castellacci, alla fine di un “certo cinema”; se la storia si è sempre sviluppata attraverso la “fine di mondi” che perpetuamente si sono susseguiti per l’avvento di “mondi nuovi”, la frattura degli anni ’80 e del passaggio dalla modernità a ciò che ci circonda attualmente è qualcosa di non riconducibile ad analoghe esperienze precedenti. Ciò che è andato perduto è il senso della storia, ovvero la possibilità stessa della comprensione di ciò che sta accadendo. Le immagini intrise di malinconia della sequenza di apertura ci costringono a fissare lo sguardo su di loro, essendo loro caratterizzate da un’immobilità costante svuotata di eventi e di fattori determinanti per la narrazione; lo sguardo si sofferma con profonda riverenza, e assiste a testimonianze di un mondo prossimo a scomparire per sempre, negandogli il potere di trattenerlo a sé, di ritornare ad esso per stringerselo forte al petto.

L’inquietudine del “vecchio” Bell
La presenza dello sceriffo Bell come “coscienza interpretante", coinvolta nella trasformazione epocale, ha un ruolo drammaturgico essenziale, che distingue il romanzo da altre opere di McCarthy, come ad esempio Meridiano di sangue. Se in quest’ultimo McCarthy si limitava a mettere in scena la violenza senza ricondurla a una redenzione e senza relazionarsi ad essa in senso morale, limitandosi a presentarla alla lettura senza giudizi, in Non è un paese per vecchi tutto passa sotto la lente di Bell, ed ogni accadimento assume un significato preciso data la sua presenza, che si attesta prima ancora che inizi il film. Quando Bell inizia il suo monologo, lo schermo è ancora nero; come sostiene Salviano Miceli, il “nero” è la tinta del film, in quanto presagio della fine, o dell’imperscrutabilità degli eventi avvenire. Il nero iniziale è seguito da alcune inquadrature che mostrano in successione l’albeggiare del sole sulle praterie dei territori texani. Le 13 inquadrature che si susseguiranno a questo punto sono fisse, pressappoco tutte della stessa durata, scorci di un ambiente deserto, dove le testimonianze della presenza dell’uomo (da recinti in filo spinato, ai tralicci della corrente elettrica, ai mulinelli a vento) si rivolgono a noi come relitti dei “vecchi tempi”, quei vecchi tempi a cui lo stesso Bell allude nelle sue parole: "Mi è sempre piaciuto sentire parlare di quelli dei vecchi tempi; non ne è mai perso l’occasione". Bell è il centro ellittico attorno a cui ruotano tutti gli eventi del film, dichiarando fin dall’apertura la sua autorità come coscienza che si relaziona al mondo in trasformazione. Ciò che turba e inquieta Bell non è l’avvento del futuro, il senso di inadeguatezza o il sentore di una prossima sconfitta dinanzi ad esso, ma qualcosa di peggiore, ben più grave della perdita dell’ “onore” e addirittura della stessa perdita della “vita”. Ciò che è a rischio è l’ “anima”, in quanto all’avvento della postmodernità si assiste in uno stato di radicale “incomprensione”, di palese esclusione dalla possibilità di ordinare i fatti e di dargli un qualche senso. Lui, erede di una lunga dinastia di “tutori della legge”, non sa come relazionarsi alla “criminalità di oggi”, non perché più cattiva, spietata e pericolosa di una volta, bensì perché fuori da qualsiasi criterio di spiegazione: "Con la criminalità di oggi è difficile capirci qualcosa. Non è che mi faccia paura. Ho sempre saputo che uno deve essere disposto a morire se vuole fare questo lavoro. Non ho intenzione di mettere la mia posta sul tavolo, di uscire per andare incontro a qualcosa che… non capisco. Significherebbe mettere a rischio la propria anima; dire OK, faccio parte di questo mondo". Mettere a rischio l’anima è peggio di mettere a rischio la propria vita: la vita si mette a rischio per un preciso ideale, per esempio per il mantenimento della pace e della legalità. Mettere a rischio la vita è un atto nobile, che riveste di un’aura eroica e prestigiosa colui che si presta a tal fine. Se così è sempre stato nell’eterna lotta tra “bene e male”, il mondo d’oggi non concede più la possibilità di distinguere coerentemente il giusto dallo sbagliato; in questo stato di dispersione del senso, l’unica soluzione sarebbe quella di “sacrificare l’anima”, ovvero “fare parte di questo mondo”, subendo la trasformazione piuttosto che assisterle con lo spirito angosciato di chi si rende conto di ciò che sta accadendo. Sacrificare l’anima significa sacrificare la propria storia, il proprio passato e il proprio vissuto, conformarsi con la “distruzione” imperante della memoria che caratterizza la nostra epoca; il livello di coscienza di Bell per ciò che sta accadendo al suo paese non gli da tregua, è la sua pietra di Sisifo, lui che non è disposto a sacrificare la sua anima, e che contemporaneamente non ha i mezzi per arginare l’avvento dei nuovi tempi. Lo sceriffo ricorda con tormento di un ragazzo condannato alla pena di morte per suo arresto e sua testimonianza. La cosa più terribile non era l’omicidio di una quattordicenne compiuto dal giovane, bensì le parole del carnefice poco prima di venire ammazzato, l’ammissione del suo perverso desiderio di uccidere qualcuno da sempre, e la volontà di tornare ad uccidere qualora fosse uscito di galera. Bell insiste sul fatto di “non sapere cosa pensare”, non tanto di “non essere d’accordo”, o di “essere contrario o intollerante” a certe dinamiche, ma proprio “di non capirle”. Una tra le poche differenze tra il monologo di Bell nell’apertura del film e quello che apre il primo capitolo del romanzo ci permette di passare ai prossimi paragrafi di questo saggio; nel libro viene detto da Bell, a proposito del giovane assassino: "Lui era niente in confronto a quello che sarebbe venuto dopo". Questa frase è certamente riferita all’arrivo di Chigurh, ma soprattutto, indirettamente, a ciò che Chigurh simbolizza, ovvero l’11/9 e la guerra in Iraq, eventi esemplificativi della deriva di senso a cui assistiamo nella storia e nella cronaca contemporanee.

Chigurh, profeta della distruzione

Prima della contemporaneità, addirittura i “cattivi” e i criminali avevano una loro logica comportamentale, anche loro si affidavano a dei valori, che ovviamente erano contrapposti a quelli istituiti dalla legge e dalla società civile. Con la criminalità di oggi è difficile capirci qualcosa poiché sono decadute le categorie e i criteri classici che vedevano contrapposte la varie figure coinvolte. Le parole di McCarthy, all’interno del prologo, sono esaustive: "Da qualche parte là fuori c’è un profeta della distruzione in carne e ossa e io non voglio trovarmelo di fronte". Bell sta ovviamente alludendo a Chigurh, la grande incognita, l’assolutamente altro dalla comprensione. Chigurh non è “profeta del male”, che avrebbe significato poterlo ricondurre a uno schema ben preciso per comprenderlo; esso è “profeta della distruzione” in quanto allegoria del futuro imprescrutabile, in una fase della storia dove la continuità e il cordone che legava il passato al presente è stato rotto per sempre, lasciandoci in assenza della condizione di capire il presente a partire dal passato. Chigurh non lo si può capire; dopo le inquadrature su un mondo pregno di storia che ci stiamo lasciando alle spalle, le immagini ci conducono all’interno della narrazione con un movimento di macchina che ci presenta questo criminale in occasione dell’arresto. E proprio per quel principio di “contrappunto” propriamente sinfonico, alle parole di Bell abbiamo un equivalente espressivo nelle immagini: "Io non so cosa pensare, non lo so proprio. La criminalità di oggi… " e vediamo per l’appunto Chigurh trascinato verso la volante. Ma ancor più incisiva è l’inquadratura all’interno della vettura, quando Bell, insistendo sulla sua impossibilità di comprendere ("Andare incontro a qualcosa che…") fa una piccola pausa per riprendere fiato, ed in quel momento viene introdotta in scena l’arma di Chigurh. A questo punto Bell conclude la sua riflessione (…non capisco). Alla visione dello spettatore viene offerta l’arma del profeta di distruzione. Questo è dovuto al significato simbolico che quest’arma anomala porta con sé: la bombola a pressione di solito adottata per uccidere i tori è qualcosa di non giustificabile, come lo è lo stesso Chigurh, che irrompe nel mondo come il futuro autonomo e sciolto da legami del passato. In tutta questa parte della sequenza, il volto di Chigurh è nascosto, scrutabile con difficoltà; mentre il flusso di coscienza di Bell fa riferimento all’impossibilità di capirci qualcosa con la nuova criminalità, Chigurh è ripreso di schiena, e nell’inquadratura all’interno della volante, col poliziotto in primo piano, il suo volto è ottenebrato, non pienamente visibile, così come il mistero irrisolvibile che esso rappresenta.

Il futuro già avvenuto: l’11 settembre e l’anacronismo delle immagini
Non è un paese per vecchi è il primo romanzo scritto da McCarthy in seguito all’attentato del 2001, ed è stato pubblicato dopo un lungo silenzio nel 2005, quasi fosse la testimonianza dell’esigenza di tornare a scrivere dopo quanto era accaduto. L’11 settembre e la guerra in Iraq sono presenze costanti nella narrazione, ma sono “presenze in assenza”, che scorrono sotterraneamente senza mai palesarsi. Offrono una profondità specifica a tutta l’opera, pur essendo essa ambientata in un periodo storico precedente di 20 anni; questo perché, come abbiamo sostenuto in precedenza, il tema del film è la “transizione” verso l’epoca contemporanea, che avrà il suo apogeo simbolico proprio con l’11 settembre. Data questa complessa e intricata relazione tra passato, presente e futuro nel film, potremmo a ben vedere parlare di “anacronismo” delle immagini, accogliendo una definizione propria del celebre storico dell’arte Georges Didi-Huberman. Chigurh è allegoria dell’imprevedibilità dell’avvenire, che troverà pieno compimento solo nel nuovo millennio con l’evento dell’11/9, che come sostiene Baudrillard è ciò che si sottrae, nostro malgrado, a qualsiasi tentativo di rappresentazione e di comprensione. La “distruzione” profetizzata da Chigurh non è solo quella attuata da lui stesso, per propria mano, ma quella di cui esso si fa istanza simbolica, di ordine storico più generale; questa distruzione si palesa negli attacchi al World Trade Center e nei bombardamenti su Baghdad, ma in maniera più fine e metaforica, la “distruzione” è ciò che caratterizza l’epoca della contemporaneità, che svuota ogni istante del suo bagaglio che lo lega al passato, che frammenta il mondo in un proliferarsi di atti, di eventi, di gesti e comportamenti non riconducibili a unità di senso solide e rigorose. Così come Baudrillard, a proposito dell’attentato alle Torri, parla di "impressione che l’evento ci sia sempre stato", esemplificando il paradosso di “un antico presente” che sovverte il regolare senso vettoriale della storia, così Non è un paese per vecchi si offre come efficace sovrapposizione di piani temporali: ci parla del presente, raccontando di un passato che tragicamente assisteva all’inarrestabile avvento del futuro. Il “non capire” dello sceriffo Bell è la cifra propria della nostra epoca, dove non è più garantita la possibilità di mettere ordine ai fatti del mondo; alla fine del prologo, quando Bell sentenzia il suo rifiuto di sacrificare l’anima per entrare a far parte di questo mondo, i Coen muovono la mdp mostrandoci la strada che scorre verso l’orizzonte, percorsa a tutta velocità dall’auto della polizia. Quella strada molto probabilmente arriva fino a noi, parti integranti e costitutive di quel/questo mondo al quale Bell tenta di sottrarsi senza riuscirci; e mentre lui vive con sofferta partecipazione la transizione verso la contemporaneità, noi non possiamo che guardarci intorno, chiedendoci attoniti come sia stato possibile arrivare a questo.

 


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