Cinema in bocca. Il sentiero del silenzio tra le strade parallele del senso: Mulholland Drive e Suns PDF 
Alessandra Mallamo   

Vi sono film che trasformano il nostro sguardo in un occhio-bocca tanto vorace da farlo cadere a volte vittima di incontrollabili deliri di interpretazione, film che permettono di dare libero sfogo all’umano desiderio di vedere e sapere ogni cosa, tra questi, Mulholland Drive di David Lynch occupa un posto di rilievo. Un film del genere consente, come un sogno, di percorrere molte piste alla ricerca del senso, quella che qui si è scelto di seguire disegna una sorta di deviazione che conduce il film di Lynch verso un’opera altrettanto sconvolgente: Sunset Boulevard di Billy Wilder.

L’idea che i due capolavori siano tra loro in relazione nasce dalla persuasione che quella più recente – Mulholland Drive – sembra essere disseminata di una serie di rinvii che ci conducono direttamente presso Sunset Boulevard. Certo non sappiamo quanto questi siano indizi coscientemente voluti da David Lynch. Per i nostri fini, sapere se c’era una volontà precisa nel portaci verso Billy Wilder è indifferente, anzi, paradossalmente, se certe tracce sono involontarie acquistano ancora più significato poiché si legittimano unicamente attraverso la visione.
In effetti, di veri e propri indizi si tratta ma tanto nascosti da costringerci a intraprendere una ricerca sugli “scarti”, sui surplus, sui particolari che non hanno un significato diretto ai fini della narrazione ma che creano della falle in cui il senso si raccoglie. Il film stesso, concepito come un sogno o un delirio, si snoda attraverso lapsus, dimenticanze, rimozioni.

Per rileggere [i]Mulholland Drive[/i] ci sentiamo autorizzati ad utilizzare i principi propri dell’interpretazione psicoanalitica, così come Freud li ha concepiti, partendo dal presupposto che in un sogno, come in un film, tutto ciò che avviene ha un senso che si presenta nella forma arcaica dell’enigma: l’interpretazione non procede come la matematica ma come l’archeologia, non si tratta di ricavare soluzioni ma di scavare, seguendo le immagini come si segue la conformazione del terreno, fino a trovare un senso, e non è detto che scavando in altro modo o più in fondo non avremmo trovato cose diverse. Così, quel senso è legittimato dalla stessa esperienza che ne abbiamo fatto con la conseguente evidenza che esso sia lì prima che il nostro sguardo lo intraveda.

Il sogno, il lapsus, la dimenticanza, che generalmente rappresentano un non-senso, sono usati da Lynch per fare emergere il fiume carsico del significato. La decifrazione degli indizi trovati tra gli scarti, tra immagini che sembrano essere messe lì per caso come certi oggetti, tra le assonanze che creano somiglianze subliminali, ci serviranno per capire in che modo [i]Sunset Boulevard[/i] può essere considerato la mitologia da cui Mulholland Drive attinge. L’impianto narrativo delle due storie è molto simile, entrambe riproducono con modalità diverse la dinamica della passione e del desiderio che può spingere un individuo fino ad una condizione patologica e sfociare nell’atto estremo della soppressione della vita. Lo sfondo su cui procede la vicenda è reso attraverso un ritorno di oggetti e luoghi che si ripropongono uguali in entrambe le opere e che finiscono per rivestire lo stesso valore simbolico rafforzando così la nostra ipotesi.

È il caso della rappresentazione speculare che sia Wilder che Lynch ci lasciano dell’atmosfera e delle pratiche che permeano l’industria del cinema hollywoodiano: un luogo in cui i sogni possono avverarsi o morire, saturo di speranze e di cinismo al tempo stesso.  L’atmosfera elettrizzata e rarefatta degli Studios è resa egregiamente in entrambe le opere attraverso la scelta di mostrare direttamente la fabbrica dei sogni che è il set cinematografico; per farcene percepire l’energia, Lynch e Wilder non devono fare altro che dissacrare per un attimo i limiti dello schermo e allargare lo sguardo verso questo mondo parallelo all’immagine. Al contrario, le logiche di potere che sottendono l’industria del cinema si concretizzano attraverso la presenza di un oggetto ricorrente: la mazza da golf. Nella parte iniziale di Mulholland Drive la ritroviamo inspiegabilmente in mano ad Adam, il regista, quando si reca all’incontro con due misteriosi boss-produttori, mentre in Sunset Boulevard  l’incontro tra Joe Gillis, il protagonista, e il suo manager avviene proprio su un campo da golf; la dissolvenza che introduce la scena fa proseguire l’uscita verso sinistra di Gillis con la pallina che rotola verso la buca, essa serve a indicare che il nostro Joe non si rende conto che certe pratiche di potere pesano a Hollywood almeno quanto il talento degli aspiranti autori. Adam invece tiene con sé la mazza da golf quando quelle pratiche materialmente si applicano, l’intrusione dell’oggetto in un luogo non suo e il modo con cui egli la usa, sul tavolo come stendardo e limite tra lui e i due boss e poi come arma per distruggere la loro auto, rivela che anche in questo caso essa è segno di una gerarchia da rispettare. Tuttavia anche Adam, da giocatore che voleva essere, si ritroverà giocato come Gillis in Sunset Boulevard.

Certe relazioni si manifestano dunque solo con lo sguardo, l’immagine si fa strumento di ciò che non è verbale, di ciò che deve restare e che si può dire solo nel silenzio, esso è la principale chiave di accesso ai linguaggi con cui parlano le due opere: quello del sogno, della follia e della morte.
Il problema della loro rappresentazione sembra diventare un problema che concerne immancabilmente la lingua del cinema. il sogno di Diane, la protagonista bionda del film di Lynch, si lega immancabilmente alla follia di Norma Desmon, la diva dimenticata di Sunset Boulevard, nonché alla morte di Joe Gillis. Muoviamo dall’enigmatica chiusa di Mulholland Drive in cui una figura perturbante di donna ci invita al silenzio e, indicandocelo come la forma del film, ci riporta per un momento al teatro che abbiamo già visitato nel sogno della protagonista. In quello stesso luogo si svolge la scena che chiude la prima parte del film - il sogno - rappresentando una sorta di punto-cesura.

Il teatro raddoppia la dimensione non diegetica in cui veniamo a trovarci, qui una donna canta sulla scena ma quella voce non è la sua voce, noi la vediamo cantare ma ciò che suona davvero è nascosto dietro le quinte. “No hay banda, è tutto registrato”, il suo silenzio è il suo essere cantata dalla voce che udiamo, in sostanza quella a cui stiamo assistendo è la messa in scena del sogno e dei suoi meccanismi: nei sogni è infranto il normale rapporto tra le parole e le cose, le parole sognate non dicono quello che dicono ma diventano “oggetti” alla stregua delle cose che vediamo, esse acquistano valore per il loro carattere plastico, per il fatto di poter essere deformate, plasmate, poiché nella loro forma esteriore vi è una somiglianza con ciò che invece teniamo nascosto. Nel sogno la parola mantiene il silenzio su qualcos’altro, è una copertura che custodisce ciò che parole non ha, allo stesso modo la messa in scena teatrale è una copertura per far parlare qualcosa che resta nascosto, ma che si può esprimere solo se la voce che udiamo non ha più un rapporto diretto con ciò che vediamo, solo, cioè, se si porta nel silenzio quello che abbiamo sotto gli occhi affinché possa emergere un senso nuovo.

In effetti questa discrasia tra parole e cose è il meccanismo che innesca un vero e proprio walzer di nomi e persone, giocando sulla continua somiglianza fisiognomica di tutti i personaggi femminili di Mulholland Drive, divisi nelle due grandi categorie delle bionde e delle more e discendenti direttamente dalle due protagoniste. Ma questo meccanismo trascina con sé nuovi indizi, nuove visioni inconsce che ci portano dritti verso l’opera di Wilder. Il walzer ha inizio in un caffè dove una cameriera porta scritto sul suo cartellino il nome “Diane” che provoca un flashback a Rita, la mora, cominciando così il primo giro. Scopriremo più tardi che la cameriera si chiama Betty e che Diane opera nel sogno uno scambio.  È una parola scritta, quindi silenziosa, che permette lo snodarsi della vicenda, e contemporaneamente in quella stessa inquadratura Lynch ci lascia un’altra informazione, secondaria, che passa inosservata; uno scarto che noi utilizziamo per costruire la nostra indagine.

Sul cartellino della ragazza è riportato anche l’indirizzo del locale che si trova proprio sul Sunset Boulevard. Il titolo del film di Wilder fa mostra di sé anche in un altro momento significativo: all’inizio, subito dopo l’incidente, Rita, si inoltra frastornata nel buio dei cespugli e finisce per ritrovarsi proprio sul [i]Sunset Boulevard[/i] dove la telecamera si sofferma per un momento sul cartello stradale che ne reca il nome. Normalmente l’immagine del cartello sarebbe da considerarsi un’inquadratura dettata da esigenze descrittive, ma nel sogno in cui, nostro malgrado, ci troviamo, vedendo la scritta sul cartellino della ragazza del caffè, quell’inquadratura diventa un flashback che suggerisce anche a noi un nuovo inizio tracciato però nel solco indelebile lasciato da Wilder; un deragliamento che da Mulholland Drive ci porta verso Sunset Boulevard come fa Rita e con lei il nostro sguardo.

Il sogno ha già operato un nuovo inizio rispetto a quello successivo in cui vediamo Diane stessa percorrere la Mulholland Drive. La prima battuta “Non dovevamo fermarci qui” è Diane a pronunciarla all’autista quando una donna, la Rita del sogno, arriva per portarla via con lei. L’apertura del film riproduce la sequenza in maniera identica e si apre con la stessa battuta, ma questa volta è Rita a pronunciarla quando l’autista le punta contro una pistola e un’altra auto arriva provocando l’incidente. Nel sogno Diane è la regista che assegna come parti i suoi fantasmi, le sue verità e i suoi desideri nel continuo sdoppiamento di sé. A questo regresso, che è appunto un ricominciamento, si oppone dialetticamente un nuovo regresso di cui è artefice l’immaginario del cinema stesso: il cartello della Sunset Boulevard indica la direzione precisa del suo destino nel sogno ancora prima di quella volta in cui Mulholland Drive aveva segnato il suo destino nella realtà.

Come Mulholland Drive anche Sunset Boulevard ripropone un certo modo di essere del cinema che lavora sul continuo oscillare tra forza creativa e forza distruttiva e in questo andirivieni di senso si fa strada la rappresentazione del delirio incarnato dalla figura di Norma Desmond in Sunset Boulevard, paradigma e antitesi della stessa passione “insana” che coglie il personaggio di Lynch. Norma è una vecchia gloria dimenticata del cinema muto che vive in una casa che è un suo prolungamento, abbandonata ed eccessiva, eccentrica, al di fuori dal tempo, al contrario Diane è una neofita piena di speranze ma incapace di gestire tutte le istanze che provengono da un mondo complesso come quello di Hollywood, il loro destino però è speculare: Diane è un’ambiziosa ma l’immagine che lo schermo rimanda di lei è quella di una donna divorata dal sogno in cui crede, esattamente come accade a Norma Desmon, rinchiusa in se stessa e nello scintillio del suo passato glorioso, servizievolmente assistita da Max nel suo delirio.

Per capire la follia di Norma basta notare in che rapporto il regista la pone con la luce. La prima scena in cui essa appare è attraverso una veneziana che impedisce il passaggio della luce del sole e che lei attenua ulteriormente attraverso l’uso degli occhiali, quando Joe Gillis entra in casa non possiamo più distinguere se è notte o giorno fuori, la luce è tutta artificiale, d’altra parte è solo questa che permette a Norma di vedere e l’unica che può davvero illuminarla. Così accade quando investita dalla luce del proiettore, proclama irata il suo ritorno nel mondo del cinema, o quando “Occhio di falco” la illumina dentro gli studi di posa, improvvisamente tutti la vedono per il semplice fatto che Norma Desmon è visibile solo sotto una luce innaturale essendo lei stessa innaturale, un’amplificazione di se stessa, perciò il sintomo del suo delirio è fotografico, visivo. Per la luce del sole Norma Desmon è semplicemente uno spettro, solo “l’altra” luce la riconosce, la stessa che permette di orientarsi in quel buio cui la luce naturale non può accedere: come dal buio di una sala cinematografica si generano nuovi sguardi allo stesso modo dal silenzio può scaturire un nuovo ascolto che ci permette di percepire il mondo in un modo diverso da quello che costringe ogni significante ad un rapporto diretto con un significato stabilito da una visione unica.

Il silenzio diventa una categoria metafisica generante un nuovo ascolto e necessariamente un nuovo modo di vedere; del silenzio Norma fa la sua forza, ogni suo gesto ricaccia la comunicazione attuata tramite la parola e anela alla luce silenziosa di un riflettore, basta notare con quanto fastidio allontana un microfono che sembra ronzargli intorno agli studios o quanto ciò essa che scrive sia davvero illeggibile (a detta di Joe Gillis, che invece con le parole ci lavora) . Le parole sono un disturbo, lo rivela chiaramente l’invettiva di Norma contro il cinema sonoro: “è morto, finito! Un tempo con il nostro mestiere gli occhi di tutto il mondo erano stregati da noi. Ma non era sufficiente per loro, dovevano impadronirsi anche degli orecchi, allora aprirono le loro bocche bestiali e vomitarono parole, parole, parole! […] Avete fabbricato un capestro di parole per strangolare il cinema!”

Il regno del silenzio per eccellenza è senza dubbio la morte. Senonchè nell’opera di Wilder tutta la vicenda è pilotata dalla voce fuori campo del cadavere di Joe Gillis, che introduce il suo racconto dicendo:“Prima che gli altri vi raccontino questa storia deformandola, sono certo che vi piacerebbe sapere la verità, la pura verità”. Il rapporto che intercorre tra verità e linguaggio è soprattutto di negazione reciproca, [i]dire la pura verità[/i] non è una prerogativa dei vivi, che hanno punti di vista sempre parziali rispetto agli eventi così come non rientra nelle possibilità stesse del dire. La parola di Gillis non è la [i]sua[/i] parola ma la [i]pura[/i] verità, questa prospettiva trasforma quella che normalmente sarebbe un racconto narrato in soggettiva in un occhio che ci trasporta fuori dal personaggio, sin dall’inizio anche noi osserviamo la vicenda dal di fuori quando vediamo lo stesso Joe galleggiare nella piscina: al suo silenzio si sostituisce il cinema che costringe invece lo spettatore a tenere l’“acqua in bocca” e a innalzare il silenzio a paradigma della visione. Il silenzio non è più la negazione della parola bensì l’apparire di un nuovo modo di dire che costeggia il linguaggio ma non ne prende parte. Il silenzio di Mulholland Drive sarà scisso tra quello del sonno prima e della morte poi, in esso si raccordano le strutture diegetiche dei due film dal momento in cui si assumono punti di vista eccentrici, fuorvianti, non inquadrabili.

Come Joe anche Diane sta nel silenzio, lo stesso che stinge insieme il sogno, la follia e la morte. Nel suo racconto la narrazione scompare del tutto sostituita dai meccanismi onirici e, in un certo senso è normale che sia così visto che Diane sta intraprendendo il suo cammino verso la follia, ma il valore formale è essenzialmente lo stesso: costruire il senso a partire da dimensioni che non hanno parole per comunicarlo, procedendo a ritroso, al rovescio. La morte viene attraverso uno colpo di pistola, lo sparo che esplode in entrambi i film togliendo la vita diventa il simbolo assoluto del cinema, che traspone la realtà in un altro tempo e un altro spazio.  Solo attraverso uno sparo Norma può ricondurre il suo amante perduto nel suo mondo, il suo delirio non ha più forza di fronte alla realtà che Joe le mette davanti tanto da non avere altra scelta che un colpo di pistola per zittire le sue parole. Così la morte lo consegna al cinema, segnando l’inizio del film, e lo consegna a Norma che da folle sta già nella morte: per il mondo reale è perfettamente indifferente che ella sia viva ed essa è infatti fuori della vita, come dice subito dopo lo sparo “le stelle non hanno età, vero Max?”, sì, non hanno età, il cinema sacrifica la dimensione del tempo dell’esistenza per un’eternità in celluloide.

Il colpo di pistola spinge all’estremo il movimento del senso. Dal suono significante delle parole, il rumore sordo dello sparo ci apre le porte di quel silenzio che stravolge la “normalità” del rapporto tra le parole e le cose portandoci sulla via del patologico, dove appunto l’ordine è rovesciato.
Il patologico è ciò che la razionalità non riesce a ricondurre facilmente sotto il suo controllo e infatti esso racchiude in sé, per vie diverse, anche le dimensioni di cui ci siamo occupati fino a ora: sogno, follia, morte. La patologia moderna rappresenta l’ultima tappa di questo percorso, relativizzando la morte nella pratica dell’autopsia, cioè nell’analisi dei cadaveri che permette di ricostruire, percorrendo a ritroso i processi di decomposizione, il regime di funzionamento “normale” del corpo. Tale disciplina trasforma lo stato del corpo morto in qualcosa con un valore positivo che permette di vedere chiaro nella dimensione del vivente; l’autopsia, che è l’[i]osservazione diretta[/i] del cadavere, si basa sul principio che è possibile dire tutto ciò che si vede, e dire solo ciò che si vede, legando in maniera necessaria il visibile con l’enunciabile. Vedere è sapere, ma se il sapere non corrisponde più al dicibile siamo costretti a sconvolgere tutte le nostre categorie(1).

Forse è questo straniamento che alla prima di Sunset Boulevard suscito l’ilarità generale tanto che Wilder fu costretto a sostituire l’inizio che aveva montato con quello che tutti conosciamo. Pochi hanno avuto la fortuna di vedere quella prima versione dell’opera: il film si apriva in un obitorio dove era stato portato Joe Gillis, lì il protagonista inizia a parlare con gli altri cadaveri che gli chiedono di raccontare la sua storia. Il sovvertimento operato da Wilder sta essenzialmente nel sottoporci un’autopsia - il film è di fatto una visione diretta - in cui non siamo noi ma la morte a parlare, in cui non tutto il visibile è sempre enunciabile. Il passaggio consiste nel togliere il silenzio ai morti ai sognatori e ai folli e passarlo agli spettatori che di quel silenzio devono fare strumento. Dall’inizio di Sunset Boulevard alla fine di Mulholland Drive, Wilder e Lynch hanno esploso lo sparo del cinema su due storie che come due cadaveri ci parlano invitandoci al silenzio, e forse, solo il lavoro del critico si avvicina poi a quello del patologo che cerca di capire, di ricostruire, tentando di scrivere ciò che non è fatto di parole. Questa sorta di tradimento che opera la critica è consapevolmente un lavoro vano, che non cerca risultati matematici ma esperienza del senso, ciò che spinge alla scrittura e all’interpretazione è il desiderio insanabile di capire, è la necessità di trovare il bossolo del proiettile, di individuare il punto in cui lo sparo ha infranto ed è riuscito a trasformare il silenzio in cinema e il buio in luogo dello sguardo, mutando l’universo del patologico in quello dell’immaginario.

(1) È Michel Focault che negli anni ’60 si dedica allo studio della fondazione medica del sapere attuata della società moderna occidentale. Il problema del rapporto tra visibile ed enunciabile è affrontato nell’ambito di un’analisi che spiega il passaggio da una medicina delle specie nosologiche ad una medicina dei sintomi e dell’osservazione diretta, basata sull’impianto della relazione linguistica tra segno e significato. L’opera che raccoglie queste ricerche è [i]La Nascita della Clinica[/i] edita nel 1962.

 


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