2046 PDF 
di Umberto Ledda   

Al pari di In the mood for love, di cui è il seguito naturale, anche 2046 è la narrazione di un ricordo che si esplicita qui, cinematograficamente parlando, nella voce off del protagonista e nelle molteplici didascalie che ne percorrono lo svolgimento. Un ricordo raccontato - come il predecessore - con gli stessi strumenti della memoria, con la sua ambiguità e la sua incomprensibilità. Gli eventi situati nel ricordo non sono infatti rappresentativi di una realtà contestualizzata, ma rimangono sublimati in una sorta di astrazione frammentaria del tutto aliena al mondo fenomenico: non più mobili e precari nello scorrere aperto del tempo, ma bloccati, unici, privi di una collocazione organica all'interno di un contesto. E il montaggio diventa qui il mezzo supremo per descrivere la frammentazione stessa del ricordo: come affermava Pasolini, il montaggio è sempre un'operazione post mortem, perché presuppone necessariamente la fine del segmento temporale e dell'azione montati, esattamente come la memoria.

Tornano quindi in 2046 quelle stesse scelte strutturali che hanno trovato posto nel precedente In the mood for love. Una narrazione per frammenti, fatta di scene brevissime mai ricordate (filmate) nella loro interezza, ma solo a brandelli, senza una struttura organica, scene che iniziano in media res, la cui comprensione è sempre rimandata; ellissi ricorrenti che portano lo spettatore a vedere qualcosa sulla cui natura non può mai essere del tutto certo; sequenze ripetute più volte, nell'incertezza (per chi vede, per chi filma e per chi ricorda) di dove vadano situate e in quale contesto. L'unica messa in scena possibile insomma per visualizzare il ricordo, per riprodurne l'andamento caotico e selettivo. Accanto alle scelte strutturali, ritornano anche alcuni degli espedienti estetici già utilizzati nella pellicola precedente: la visione è sempre ostacolata, o impedita, da elementi diegetici (le telefonate nell'albergo sempre riprese in modo che il volto di chi parla sia nascosto dietro al muro), le immagini sono riflesse in specchi spesso sporchi ed opachi, le scene sono fatte di frammenti, costruite eminentemente su dettagli, senza alcuna visione d'insieme.

Più astratto, se possibile, del suo predecessore, in 2046 il processo di frammentazione e sublimazione della realtà fenomenica si svolge a livelli ancora superiori. Il ricorso alle alterazioni del senso di movimento è molto più insistito: Wong Kar Wai, accanto agli abituali slow motion, introduce rallentamenti privi di quella fluidità che lo spettatore, per convenzione, associa alla realtà, ricorrendo allo stop frame per disarticolare il flusso delle immagini in maniera onirica e irreale. Ancora più radicale è la ricerca di astrazione nella costruzione delle inquadrature. I personaggi non agiscono in una realtà contestualizzata, ma in un luogo alieno, psichico (l'assenza di campi totali rafforza la sensazione, "vietando" allo spettatore la conoscenza dell'ambiente). Lo spazio della memoria, appunto. Sono figure pure, i cui primi piani si staccano su textures, siano esse una tappezzeria optical o un motivo verticale, del tutto a-significanti.

2046 è opera quindi ancora più radicale della precedente, "teorica" nel prospettare l'azione - raddoppiando fra l'altro la ricerca sulla memoria (Chow cerca di ricordare e i suoi ricordi prendono vita in una versione doppia: le immagini che vediamo, il film, e il romanzo che scrive, anch'esso visualizzato) - in uno spazio mentale, piuttosto che fisico. Per mezzo delle riflessioni sulla scrittura, sempre ricordo per quanto si parli di futuro, viene a palesarsi un forte parallelismo fra il ricordare "per parole" e il ricordare "per immagini" del protagonista. Il cinema diventa così forma ideale di rappresentazione del ricordo, contenitore infinito di immagini mentali più che reali. Come la memoria, il cinema non è realtà, ma una sua particolare percezione. Per questo 2046 è radicalmente teorico: i suoi spazi astratti, la frammentazione della continuità determinata dall'utilizzo di un montaggio sincopato, le sue immagini decontestualizzate, tendono a trasformarsi in "specifici" imprescindibili dell'immagine filmica.

 


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