TFF 26/W. PDF 
Giampiero Frasca   

C’è una scena che più delle altre è emblematica del modo in cui Oliver Stone, intenzioni da fiorettista e concretezza da boscaiolo, affronta il nodo George W., Dabl-ya, secondo la deformazione texana: all’inizio degli anni Settanta, il padre convoca il giovane W. nel suo studio per rimproverargli una condotta di vita sconsiderata, perennemente sopra le righe, fatta di alcool, sgommate in auto, lavori discutibili, amorazzi improvvisi e altrettanto fulminanti rapporti con rischio di gravidanze indesiderate. (Quando si dice un padre – naturale - della nazione). Bush padre lo redarguisce con decisione, troncandogli anche il progetto di intraprendere una carriera da giocatore di baseball, mettendolo impietosamente di fronte la sua innata mancanza di talento. George è una delusione e George padre glielo dice apertamente. Dietro di lui una bandiera americana appoggiata al muro. Stone connette nella stessa inquadratura la delusione paterna, la perenne ombra che graverà sulle spalle del giovane W. e l’istinto di riscatto che avrà come obiettivo quella stessa bandiera riposta in un angolo dello studio.

Il complesso e la riabilitazione, l’annichilimento e la megalomania. Tutto ruota intorno a questa contraddizione estrema che porta un fantastico esemplare di inetto a dettare le condizioni della politica mondiale. E Stone, come è suo costume, non si esime dal sovraccaricare il personaggio, facendolo ancheggiare con il suo bacino wayniano tra le varie inquadrature, malefatta dopo malefatta, un evento ridicolo dopo l’altro. L’identità texana che il povero Dabl-ya rivendica come se fosse un riconoscimento alla sua americanità, dopo aver avuto i natali lontanuccio, in Connecticut, si risolve in una goffa replica di un cowboy dalla mandibola ciclopica, in costante movimento per modellare con sdegno un chewing-gum che pare essere restio alla compressione, dalle fauci sempre spalancate nei confronti di un interlocutore curioso di rovistare visivamente tra ciò che rimane nei denti di un recente hamburger, dal dito esplorante gengive avare nel restituire frammenti di insalata. Un cowboy, un buckaroo, come dicono da queste parti. Un vaccaro dall’intercalare inconfondibile, fatto di “uhm, uhm” ammiccanti, come se la verità si nascondesse sempre al di là di una riflessione meccanica illustrata da occhi vacui. E poi una serie di eventi, che se non si trattasse di un personaggio reale rappresenterebbero il puro campionario, il bozzettismo della caratterizzazione. La t-shirt gialla proposta come cadeau riconoscente al reduce dell’Iraq senza più mani e gambe, la preoccupazione per il gusto del cibo nelle pause fisiologiche delle riunioni di Stato, le dementi banalità spacciate per folgoranti aforismi, lo smarrimento nella vastità della propria tenuta texana con l’intero staff della Casa Bianca al seguito, le risposte improbabili fornite a giornalisti increduli, lo stupore quasi fanciullesco di fronte alla rivelazione della mancanza di armi di distruzione di massa in Iraq. Senza contare, ovviamente, la patatina oscura giustiziera finita di traverso durante l’emozione irrefrenabile di un incontro sportivo, e le frasi storiche, una su tutte che ne inquadra i futuri bilanci epici con la Storia (giornalista cinese: «Mr. President, what place do you think you will have in history?»; W: « History? In history we’ll all be dead! »). E su tutto, sopra tutto, a tessere i fili della paziente tela politica, il fido Karl Rove, detto the Genius, vero artefice della grandezza politica di un uomo senza qualità, nei panni del grillo parlante che agisce dietro le quinte (appare come unico volto oscurato da inquietanti zone d’ombra alle spalle dei convitati al tavolo dello staff in cui si sta prendendo la decisione di invadere l’Iraq).

Sembrano esagerazioni, ma chi ha seguito non tanto la politica di Dabl-ya in questi eterni otto anni, quanto il personaggio, sa che Stanley Weiser ha scritto la sceneggiatura basandosi su notizie apparse su tutti i giornali e che Stone ha, conseguentemente, lavorato arrivando alla Storia attraverso la figura dell’uomo, con tutti i suoi eccessi e le sue sproporzioni. Il tono del ritratto è grottesco, un grottesco affettato, esibito apertamente. Se il personaggio fosse inventato, l’operazione sarebbe destinata al fallimento, ma il tono eccessivo su un personaggio già di per sé noto nella Storia, con buona pace della giornalista cinese, per la sua carica di maldestra stravaganza, fa di W., purtroppo, un racconto realistico su un sogno di grandezza inseguito a danno dell’intera umanità. Un gigante d’argilla: la sua caduca grandeur dopo essersi illuso di aver risolto la guerra in Iraq dopo un paio di giorni, chirurgicamente, ancora meglio di ciò che fece il padre nel Golfo, è accompagnata beffardamente, con le sue cadenze da marcetta inarrestabile, da “Yellow Rose Of Texas”, che commentava la scazzottata di Rock Hudson nel fast food texano a difesa dell’onore di suo nipote e della nuora ne Il gigante. La vittoria non è prevista né per Dabl-ya, né per Jordan Benedict jr., texani dal nome illustre, ma solo il gravoso e improbo impegno per conseguirla.

 


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