Lasciate ogni speranza voi che entrate..." era la citazione che mi ronzava in testa ieri, alle 21.30, dopo una cena decisamente abbondante e la prospettiva di un film della durata di 2 ore e mezza che -avevo letto- avrebbe raccontato una storia perfettamente riducibile a 20 minuti di proiezione. E invece il film comincia e tu capisci che avrai a che fare, dal primo all'ultimo minuto, con personaggi scrutati da primi piani insistenti, colti nei dialoghi più semplici e insieme drammatici, impegnati in piani-sequenza interminabili e insieme così reali da farti seguire il tutto come se si svolgesse a pochi centimetri dal tuo naso e da interessarti a tal punto da farti domandare il perchè. Perchè i minuti scorrono e si ha la sensazione di trovarsi nella cucina in cui la famiglia gusta cous cous e di conoscerne da sempre i vari componenti, inclusi pregi e difetti, sogni e nevrosi? Perchè non c'è nessuna remora nell'aiutarli a risolvere l'arduo calcolo della spesa annuale destinata ai pannolini della piccola, perchè non sopraggiunge la domanda che troppo spesso tormenta, "Ma prima o poi succederà qualcosa?". Quello di Kechiche è davvero "realismo", o meglio, spingendosi ulteriormente oltre qualsiasi astrattezza, "realtà". Come Antonioni e prima De Sica e gli altri non spezza le scene, non annoda con malizia i vari fili della sua trama prendendoli e lasciandoli "sul più bello" - espediente cui ci siamo abituati grazie alla letteratura romanzesca ancor prima che con il "capolavoro" hollywoodiano-; no: non è questa la realtà. Le interazioni tra personaggi non si chiudono con un colpo di ciak per poi riaprirsi a nostra (apparente) descrizione. Quella di Kechiche appare una rivoluzione proprio come quella, dirompente, che interessò la letteratura e la cinematografia nel secondo dopoguerra. Una rivoluzione dimessa e modesta, che non vuole far rumore, ma solo "lasciar fare" al mondo, convinta che ciò basti a comunicare, emozionare e far riflettere. Una scelta di cui si aveva francamente bisogno nell'era del film in cui l'azione e il dialogo pressante la fa danno da padroni, in cui l'attore viene prima del personaggio e i movimenti di macchina prima di ciò che inquadrano. Parlando invece del racconto, vediamo tutta l'ammirazione del regista per l'"altra metà del cielo": sono le donne le "eroine", nel bene e nel male, e comunque le prime protagoniste di questa storia il cui titolo, Cous Cous, non può che esserne l'emblema. Alle donne è affidato il compito "tirare avanti", nonostante tutto e tutti, a loro il "protagonista" nell'ultima scena passa il testimone che con forza era loro già piombato dall'alto, inesorabile. La danza finale scelta anche per la locandina diventa così il simbolo, tutto femminile e vitale, della frenesia dell'esistenza e della sua incessabilità che tutto travolge ma che è anche possibile afferrare e dirigere, della morte e della rinascita di cui le donne sono prime testimoni e interlocutrici.
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