Million Dollar Baby PDF 
di Aldo Spiniello   

Ecco qui. Esci dalla sala e ti fai mille domande. Perchè vai a vedere un film, perché accetti di star male da cani, perché devi sforzarti di trattenere le lacrime per uno stupido orgoglio virile? Il problema è che quel film è penetrato talmente dentro la tua pelle, da scuotere le tue emozioni, da lasciarti nudo. E Million Dollar Baby non ti lascia scampo, costringendoti a seguire la storia di due persone profondamente sole, segnate dalla vita, i cui destini si incrociano in una sporca palestra della periferia di Los Angeles.

Uno, Frankie Dunne (Clint Eastwood), è un allenatore di boxe praticamente perfetto che ormai da anni rifiuta di mandare allo sbaraglio i suoi pugili, perché corroso dai sensi di colpa e da vecchie vicende finite male. L'altra, Maggie Fitzgerald (Hilary Swank) è una ragazza trentunenne, povera in canna, sfruttata da una famiglia orribile, che ha come unico sogno quello di diventare una campionessa di boxe. Frankie, dopo tutte le riluttanze e le paure iniziali, decide di allenare Maggie, ne fa una campionessa, la porta fino al combattimento per il titolo mondiale. Ma il caso o il destino è in agguato. A commentare tutta la vicenda è un vecchio pugile soprannominato Scrap (Morgan Freeman) che ha perso un occhio in combattimento, vera e propria "coscienza" dell'intera vicenda.

Traendo spunto da un racconto della raccolta Lo sfidante di F. X. Toole, Clint Eastwood, dopo Mystic River, arriva con questo film all'essenza dei sentimenti e al cuore dei rapporti umani con un'economia di mezzi disarmante. Non ricorre a trucchi, le ambientazioni sono spoglie (o meglio degradate), la fotografia non "carica" di sensi ulteriori la storia (pur giocando in maniera affascinante con luci ed ombre), le musiche sono malinconiche ma mai ingombranti, il linguaggio è di una funzionalità e di una classicità esemplari. Malgrado ciò il regista statunitense riesce comunque ad inventare squarci lirici eccezionali (su tutti la bambina con il cane e l'episodio della crema al limone), giocando sapientemente con le emozioni, quelle follemente romantiche, senza però scivolare nel patetico e nel retorico.

Come ne Gli spietati e in Un mondo perfetto, ne viene fuori uno straordinario ritratto di losers - quasi da film noir o da western crepuscolare -, di personaggi dolenti che, anche nella violenza di un mondo come quello della boxe, anche nella sconfitta e nel dolore, trovano un riscatto nella loro statura morale, nel coraggio di difficili scelte di vita e d'amore, aldilà dei rimorsi, delle paure, dei dubbi religiosi ed esistenziali. È vero, c'è la critica ad una Chiesa che non sa comprendere il cuore degli uomini, c'è il tema dell'eutanasia e quello della crisi dei rapporti famigliari, ma il vero nucleo del film sta nell'umanità dei personaggi, nello splendido rapporto che si crea tra quest'uomo maturo e questa giovane donna. Si può discutere se ciò che li lega sia un amore tra un padre e una figlia o tra un saggio e il suo discepolo. Ciò che conta tuttavia è che ognuno rappresenta per l'altro un approdo, un rifugio sicuro nel deserto morale ed affettivo che li circonda.

E noi siamo lì, incatenati ad una poltrona a farci massacrare da quelle parole che risuonano come pugni allo stomaco: "mio tesoro, mio sangue". No, proprio non possiamo perdonarti, Clint, di non averci fornito una rete di protezione, di averci aperto una ferita troppo vicina all'osso, di averci ricordato, con le rughe del tuo volto, che "vivere vuol dire portare una cicatrice", come diceva Steinbeck. Non possiamo perdonarti di averci ricordato quanto dolorosamente belli possano essere l'amore ed il cinema.

 


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