Cheyenne e gli altri: missioni possibili e icone raggiungibili nel cinema di Sorrentino PDF 
Paolo Fossati   

Si dice che ogni grande autore faccia sempre lo stesso film. La filmografia di Sorrentino, ad oggi, sembra confermarlo. Il cineasta partenopeo sembra però superarsi di volta in volta, aumentando potenzialità e rischi. Sembra fare "lo stesso film", ma con una profondità di campo sempre maggiore. Descrivendo nitidamente orizzonti sempre più lontani e, contemporaneamente, muovendo nella direzione intima dell’introspezione. Sembra, in effetti, essere alla ricerca del film perfetto, quello che riesca a toccare temi universali e personali. Quello che renda evidente il paradosso autoriale di compiere in simultanea due operazioni delicatissime: scavare dentro se stessi per scoprire i confini della propria identità e comunicare il proprio sguardo alle masse, regalando al mondo una cornice di soggettività con la quale confrontarsi. "This must be the film", deve aver pensato il regista mentre realizzava il suo ultimo lungometraggio, mettendosi a confronto con i propri miti e chiedendo a David Byrne di partecipare, nel ruolo di se stesso, alle riprese. Questo dev’essere il film che chiude un ciclo di ricerca, quello dedicato ad approdare definitivamente al ruolo di artista, prendendo coscienza di un destino. Sorrentino non ha fatto mistero della propria venerazione per Byrne, e This Must Be the Place (2011) deve il proprio titolo alla canzone dei Talking Heads che descrive la sensazione appagante di riconoscere finalmente un posto, chiamandolo casa.

Il cinema di Paolo Sorrentino, in questi primi dieci anni, ha raccontato icone di uomini in cerca della forza necessaria a prendersi le proprie responsabilità. Personaggi sempre più complessi, persi nella propria vita come in un labirinto di specchi rappresentati da attori in ruoli comprimari che incarnano possibilità parallele, ipotesi di approcci all’esistenza esclusi dai protagonisti, ma sempre ronzanti nella loro psiche, come fossero tenuti in considerazione alla stregua di vie di fuga in caso d’emergenza. I protagonisti vivono un paradosso: sono al contempo eroi e antieroi. Sovrapposti. In dissolvenza incrociata. E il percorso raccontato dal film, solitamente, non è altro che un disvelamento del processo che farà emergere una delle due figure. Tutto era già nel titolo del primo lungometraggio: L’uomo in più (2001). L’unica opera dell’autore a proporre nettamente un montaggio alternato tra le vicende di due protagonisti diametralmente opposti. Due uomini dal carattere diverso e raccontati in fasi differenti del proprio cammino: un giovane allenatore calcistico agli esordi professionali e uno sgangherato cantante a fine carriera (impersonato da Toni Servillo). Un caso di omonimia (entrambi si chiamano Antonio Pisapia), da risolvere come si trattasse di un mistero. Uno dei due emergerà nettamente nell’opera sorrentiniana così come fuori dal film: il cantante, Tony, sarà anche protagonista del romanzo pubblicato dal regista nel 2010, un monologo che è in fondo un sequel. E che in versione audiolibro riacquista parte dell’identità cinematografica grazie alla lettura del testo affidata a Toni Servillo. Tony, in fondo, è il contendente che ha vinto il duello, la sfida per dimostrare chi fosse il vero protagonista de L’uomo in più e chi fosse l’intruso, appunto: l’uomo di troppo. Ma è e resta un antieroe, diversamente dal Cheyenne di This Must Be the Place. Tony è probabilmente ciò che il regista vuole descrivere e condannare sebbene abbia tratti di un’italianità che può infastidirci, ma dalla quale ci separiamo nettamente solo con grande fatica, quando riusciamo ad essere eroi nel quotidiano. L’ossessione autoriale di una competizione tra due modi d’essere, in questo caso, si risolve con la supremazia del personaggio più viscido e votato all’inazione.

Le conseguenze dell’amore (2004) racconta un tentativo fallito di immobilità. Lo sforzo quasi ascetico di non trasformarsi, di non farsi carico del proprio destino, di Titta di Girolamo, che si distanzia dalla cultura di camorra nella quale è cresciuto e fugge lontano senza smettere di essere colluso con affari disonesti. Nega apparentemente la propria natura e cerca fughe momentanee, quanto calcolate, nella dipendenza da eroina. Si costruisce una routine per sopravvivere proteggendosi dalle proprie aspirazioni e dalle conseguenze che potrebbero produrre. Fino a quando l’amore, del quale ha sempre tentato di evitare o sopire le lusinghe, diviene rivelatore della provvisorietà dell’esistenza e movente per il cambiamento, per la ricerca di una casa dopo lunghi anni vissuti in una stanza d’albergo. La descrizione di una situazione di stallo si configura anche ne L’amico di famiglia (2006), dove l’usuraio Geremia De Geremei è l’ennesimo personaggio sorrentiniano bloccato nei propri schemi, che si crede però furbo e sembra lucido nel ricordarci di "non confondere mai l’insolito con l’impossibile", cosa che egli poi non sarà in grado di fare. Punto centrale della filmografia, il film con protagonista Giacomo Rizzo si avvita in un vortice alla ricerca continua del sordido: risulta addirittura fastidioso, nonostante stilisticamente molto misurato, tanto da rappresentare, nel percorso autoriale, una crisi indotta e necessaria. È il tentativo di far toccare il fondo all’antieroe protagonista, esplorando al massimo il grottesco. Tanto da rendersi conto che esso ha contagiato tutti, ad ogni livello. E l’angoscia trasmessa dal film finisce con avere radici in questa morale, resa evidente in modo tanto esplicito, ma comunque credibile e accettabile. Comprensibile in quanto il degrado dell’intera società finisce per schiacciare un protagonista infimo, causando nello spettatore pietà e fastidio, strano binomio dovuto alla consapevolezza di non essere innocenti osservatori. Il parallelismo narrativo non assolve la platea e ci rende sia complici, sia parte della stessa società civile alla quale appartiene la piccola comunità rappresentata sullo schermo, tanto più colpevoli per esserci immedesimati nelle vittime dell’usuraio durante la visione. E qui è impossibile non pensare alla frase che spesso ripeterà Sean Penn nei panni di Cheyenne: "qualcosa mi ha disturbato, ma non saprei dire cosa".

È poi tempo per il film che sancisce il successo internazionale di Sorrentino, Il divo (2008), frammento biografico di Giulio Andreotti, personaggio reale, attraverso il quale si racconta un’epoca della politica italiana. Un monologo confessione del "Divo Giulio", che in fondo è uno sfogo e una presa di coscienza, svelerà anche in questo caso la ricerca di senso insita nell’indole dei protagonisti di Sorrentino. Nonostante il film sia un affresco storico, il regista riesce a tener fede alla propria attitudine a smascherare il proprio demone interiore: quel personaggio timido, dotato di un magnetismo innato, che tenta di mettere a nudo chiunque incontri ma in fondo conduce un’infinita battaglia interiore alla ricerca della propria identità profonda. Sorrentino giunge oggi al termine di questo primo decennio di attività con This Must Be the Place, un film internazionale con un cast d’eccezione. Dirige Sean Penn, abituato a ruoli che gli danno la possibilità di reggere il film sulle proprie spalle, creando una maschera dark ammiccante all’iconografia di Robert Smith dei Cure e inscrivendolo in spazi che fanno da co-protagonisti. Esplode in quest’ultimo film la tematica della ricerca di sé e della forza di affrontare le responsabilità della vita. Ma tante sono le pedine sulla scacchiera e il gioco si fa pericoloso: il ruolo dei padri in rapporto ai figli e le responsabilità reciproche nei diversi momenti della vita, il senso universale del decidere di toccare il tema dell’olocausto, i temi della giustizia, della vendetta e del perdono, la memoria storica. Non ultimo, un elemento significativo fa da cornice al film: l’adolescenza. Apre e chiude il flusso narrativo. Il racconto esplora l’idea di un ponte tra le generazioni, suggerisce la ricerca di una messa a fuoco delle responsabilità reciproche tra padri e figli. Le sequenze iniziali, che vedono la rockstar vestire volontariamente in modo naïf e con discreti risultati i panni tipici padre di famiglia (nonostante la propria inettitudine a gestire autonomamente alcuni aspetti della propria vita) fanno da contrappeso alla chiusa finale, dove il ritorno sulla via di casa di un adulto, che si è fatto carico di responsabilità che lo attendevano da tempo e divenuto finalmente in grado di evolvere, riapre la speranza che anche i più giovani possano trovare, per i propri problemi, rimedi diversi dalla fuga. Che possano ancora contare su maestri sicuri di sé e non solo su icone cristallizzate e volubili. Inseguire le icone individuate come guida nel personale cammino verso la costruzione della propria identità rende le missioni che dobbiamo affrontare più possibili.

Sorrentino pare più che mai ispirato da Byrne (in un’inedita esplicita coincidenza con il protagonista del proprio film) e il suo approccio alle immagini sembra quello del musicista appassionato che pazientemente ricostruisce l’ispirazione artistica provata durante l’esperienza dell’improvvisazione, disponendo in sequenza con razionalità i temi emersi durante il processo creativo. Un’alchimia tra ragione e passione permea il suo cinema. Ogni movimento della macchina da presa è calcolato nei minimi dettagli, ma risulta fluido e paradossalmente naturale. È naturalmente cinematografico: non tenta di mimetizzarsi gratuitamente, di escludere la sua matrice legata al concetto di messa in scena. Sorrentino non teme l’artificio, anzi ne sfrutta ogni potenzialità. Ricerca il proprio senso di realtà attraverso attenti calcoli e canoni estetici. Lo snodo narrativo principale di This Must Be the Place è il piano sequenza girato per durante l’esibizione live di David Byrne (coordinando i movimenti della scenografia che sovrasta la band sul palco) che chiude sul viso in lacrime del protagonista, un volto (disperato) in una folla (danzante). In quel momento il protagonista Cheyenne individua e rivela (anche a se stesso) il proprio desiderio inconfessabile, la propria missione. Non a caso la sequenza è realizzata dal regista con un’attenzione estrema ai movimenti di macchina, come ogni punto chiave delle proprie opere (viene da pensare alla ripresa funambolica del viso del Titta di Le conseguenze dell’amore che, iniettandosi eroina, si rilassa regalandosi un viaggio che è libertà condizionata dalla prigione di un quotidiano che lo ingabbia).

Home, is where I want to be. Sorrentino vagava da oltre dieci anni come un Ulisse alla ricerca della propria patria e, proprio come l’eroe classico, collezionava esperienze in grado di mettere alla prova i propri limiti. Con This Must Be the Place racconta finalmente in modo esplicito un viaggio introspettivo, ammettendo che l’unica via possibile per la ricerca di sé è quella che tiene in considerazione, oltre all’interiorità, la capacità di mettersi sulle tracce dei propri miti e di osservare il proprio cammino in chiave storica, con il respiro internazionale della propria cultura di riferimento. Sorrentino fronteggia il proprio demone costruendo un protagonista timido ma vistoso come Cheyenne, descrivendone la crisi interiore che porta il musicista a chiedersi chi sia il vero artista. La risposta, per essere considerati e ritenersi tali, è nella ricerca continua di un’evoluzione (l’esempio è David Byrne, mito che Sorrentino non sacrifica, ma eleva a vate senza timore di fronteggiarne la presenza autorevole). La soluzione – sembra dirci lo sguardo di Cheyenne al termine del viaggio – è saper aspettare il tempo necessario a costruire una risposta efficace e strutturata su salde basi, selezionando gli insegnamenti suggeriti da ogni esperienza e distillandone il senso, proprio come un vero artista alle prese con la propria opera. Pazientemente, scelta dopo scelta, apparirà un simulacro del nostro esistere. Dev’essere quello il posto dove vorremmo essere e che chiamiamo casa.

 


#01 FEFF 15

Il festival udinese premia il grandissimo Kim Dong-ho! Gelso d’Oro all’alfiere mondiale della cultura coreana e una programmazione di 60 titoli per puntare lo sguardo sul presente e sul futuro del nuovo cinema made in Asia...


Leggi tutto...


View Conference 2013

La più importante conferenza italiana dedicata all'animazione digitale ha aperto i bandi per partecipare a quattro diversi contest: View Award, View Social Contest, View Award Game e ItalianMix ...


Leggi tutto...


Milano - Zam Film Festival

Zam Film Festival: 22, 23 e 24 marzo, Milano, via Olgiati 12

Festival indipendente, di qualità e fortemente politico ...


Leggi tutto...


Ecologico International Film Festival

Festival del Cinema sul rapporto dell'uomo con l'ambiente e la società.

Nardò (LE), dal 18 al 24 agosto 2013


Leggi tutto...


Bellaria Film Festival 2013

La scadenza dei bandi è prorogata al 7 aprile 2013 ...


Leggi tutto...


Rivista telematica a diffusione gratuita registrata al Tribunale di Torino n.5094 del 31/12/1997.
I testi di Effettonotte online sono proprietà della rivista e non possono essere utilizzati interamente o in parte senza autorizzazione.
©1997-2009 Effettonotte online.