Giocare al remake: i Funny Games di Michael Haneke PDF 
Elisa Mandelli   

Funny Games:  due  film di Michael Haneke
Funny Games US (1)  è sicuramente un fenomeno più unico che raro nella storia del cinema: non solo è un remake inquadratura per inquadratura di un film precedente (2), Funny Games, ma è addirittura realizzato dallo stesso autore. Un massimo di identità che è, quasi paradossalmente, proprio ciò che rende il remake profondamente diverso dal suo ipotesto. La trama rimane del tutto invariata nelle due versioni: la calma di una tipica famigliola borghese, papà, mamma e figlioletto, in vacanza sul lago, è sconvolta dall’irruzione di due ragazzi dall’apparenza innocua e rispettabile, che, senza alcun motivo, li sequestrano e li torturano fino ad ucciderli. Funny Games US ripropone non solo la stessa storia, ma addirittura la medesima messa in scena di Funny Games, riproducendone, come in un vero e proprio calco, composizione dei piani, angoli di ripresa, ritmo di montaggio. Identiche sono le inquadrature, tanto nelle angolazioni quanto nella costruzione dei punti di vista, e l’alternanza tra primi piani e giochi di profondità, oltre che la dialettica campo/fuori campo e lo sfruttamento ripetuto di lunghi ed estenuanti piani fissi. Altro elemento che rimane invariato è la colonna sonora: non solo vengono utilizzati gli stessi brani musicali, ma non cambia nemmeno il modo di sfruttare gli estenuanti silenzi, i gemiti, le urla e il suono fuori campo. Dall’altra parte, se i dialoghi sono identici, cambia un aspetto fondamentale, cioè la lingua: in Funny Games i personaggi parlano in tedesco (anche nella versione americana, poiché negli Stati Uniti i film stranieri in genere non vengono doppiati ma sottotitolati), mentre Funny Games US è recitato in inglese. Questa differenza comporta importanti conseguenze sul piano della ricezione, in particolare negli Stati Uniti: non solo il film austriaco viene percepito in una lingua altra, ma allo spettatore è richiesto lo sforzo di leggere i sottotitoli. Ciò comporta la creazione di una distanza rispetto alla messa in scena e la diminuzione dell’identificazione con i personaggi. Al contrario nel film statunitense la lingua dei personaggi e quella dello spettatore (ovviamente dello spettatore statunitense) coincidono, favorendo l’identificazione, il coinvolgimento e quindi l’incisività e l’impatto emotivo del film. Accanto alla lingua un altro importante cambiamento è quello nell’ambientazione, spaziale e temporale: l’azione è spostata dall’Austria del 1997 alla Long Island del 2007. Eppure nel confronto tra i due testi quella che si impone con maggior forza è la sensazione di identità, di assenza di modifiche sostanziali. Se infatti l’aggiornamento temporale comporta variazioni minime (l’auto è più moderna, al cordless si sostituisce il telefono cellulare, ecc), anche lo spostamento dell’ambientazione sembra non comportare modifiche nella messa in scena del film, e tanto meno nell’azione narrativa.

Gli ambienti rimangono infatti organizzati nella stessa maniera: non solo le case, la disposizione delle stanze e l’arredamento ma anche gli esterni, le strade, il molo. Il mantenimento di una forte identità tra i due testi, pur nella distanza cronologica e geografica dell’ambientazione, è permesso e favorito dalle caratteristiche del mondo diegetico: un universo chiuso, autoreferenziale e asfittico, in cui, una volta stabiliti i confini (marcati fisicamente da una parte dal lago, dall’altra dai viali alberati che danno l’impressione, più che di condurre da qualche parte, di separare dal mondo esterno), niente può entrare e, soprattutto, uscire: così come gli amici della famiglia (e la polizia) non si presenteranno mai, nello stesso modo non ne usciranno né Ann, nel suo disperato tentativo di trovare aiuto, né i due ragazzi, che simulano solamente l’allontanamento dalla casa della sfortunata famiglia. In definitiva, nonostante alcune modifiche, a prevalere è comunque la sensazione di identità dei due testi: siamo quindi di fronte a due strutture sostanzialmente identiche, abitate però da corpi diversi. Ed è proprio la diversità degli attori una delle differenze più incisive che intervengono tra Funny Games e Funny Games US. Nell’ipotesto i personaggi principali sono interpretati dai tedeschi Susanne Lothar, Ulrich Mühe, Arno Frisch e Frank Giering, nel remake dagli anglo-statunitensi Naomi Watts, Tim Roth, Michael Pitt e Brady Corbet. Gli attori austro-tedeschi, caratterizzati da tratti somatici del tutto ordinari, resi ancor più comuni dal fatto di essere pressoché sconosciuti all’estero e comunque non famosissimi in patria, recitano in modo quasi atono e asettico: in questo modo, se da una parte rendono più quotidiano e minaccioso l’irrompere della violenza, nello stesso tempo creano nello spettatore una sorta di straniamento e distacco critico dall’orrore messo in scena. Dall’altra parte gli interpreti di Funny Games US sono tutti conosciuti al grande pubblico internazionale (3), con una serie di importanti conseguenze: innanzitutto lo sfruttamento di celebrità note ed amate dagli spettatori permette sicuramente di attirare un pubblico più ampio. Inoltre i volti delle star hollywoodiane, usurati dalla conoscenza dello spettatore, contribuiscono a dare al film un’aria come di maggior familiarità, con effetti solo apparentemente contraddittori: da una parte, anche in virtù della recitazione più espressiva, rafforzano l’immedesimazione, dall’altra, conferendo alla messa in scena una maggior aria di finzione, la rendono più rassicurante, meno destabilizzante.

Un altro cambiamento significativo tra il film del 1997 e il suo remake riguarda un aspetto paratestuale, o meglio peritestuale, il titolo (4). Esso ripropone la dialettica tra identità e variazione che investe tutti i livelli della relazione tra i due testi che stiamo considerando: se la prima parte rimane invariata, il minimo cambiamento, l’aggiunta di US, si carica di una straordinaria densità di significati. Rimane costante il rinvio ironico a quei “giochetti” che, per niente divertenti, che i torturatori compiono con le loro vittime e, ad un altro livello al “gioco” metatestuale che il regista mette in atto nei confronti dello spettatore, ma l’indicazione della nazionalità interviene a marcare una differenza tra i due testi, segnalando immediatamente lo spostamento geografico e suggerendo l’intrinseca “americanità” dei contenuti del remake, diversi da quelli “non US”, bensì europei, dell’ipotesto. L’indicazione esplicita fin dal titolo del paese in cui si svolgono le vicende caratterizza l’ambientazione come un elemento cruciale, chiamando direttamente in causa la cultura, i valori e l’immaginario dell’intera nazione statunitense. Coerentemente con le indicazioni che si ricavano prendendo in considerazione le dichiarazioni del regista, che rimandano al fatto che l’America sia il paese per eccellenza in cui si manifestano le problematiche messe in luce nel film, il titolo sembra voler interpellare in prima persona gli spettatori degli Stati Uniti, dandogli la viva sensazione che si stia parlando proprio a loro, di loro.
 
Play it again, Michael
Con Funny Games e Funny Games US ci troviamo di fronte alla dialettica, tipica del remake, tra coincidenza e variazione: anche in questo caso ci si colloca «nello scarto tra identico e diverso, tra vecchio e nuovo, tra il piacere di raccontare (o di sentirsi raccontare) di nuovo una storia amata e quello di raccontarla (o di sentirsela raccontare) in maniera nuova» (5). Eppure quello che si impone come dominante, nel rapporto tra Funny Games e  Funny Games US è il polo dell’identità: le differenze sono minime e spesso non sostanziali, i due testi aspirano decisamente ad essere uguali e come tali si impongono alla percezione dello spettatore, o almeno di quello spettatore che conosce entrambe le versioni. Una volta sottolineato questo aspetto, fondamentale per la comprensione del senso e della portata dell’operazione compiuta da Haneke, non bisogna però trascurare che, pur nella loro rarità, le differenze si caricano, come abbiamo visto, di notevoli implicazioni. Infatti per comprendere fino in fondo tutte le potenzialità di significazione incarnate nei due testi, non basta leggerli come entità autonome e indipendenti, slegate dal contesto socio-semiotico in cui circolano: essi dialogano con una molteplicità di altri testi e discorsi che li circondano e li attraversano, modificandone gli effetti e la ricezione. Il remake, per quanto uguale all’originale, muta irrimediabilmente il testo, imponendogli una nuova e differente contestualizzazione: «ogni remake è una ricontestualizzazione, l’inserimento in una nuova rete dei dati del testo d’origine [...]. La riproposta (intesa come atto creativo e non come copiatura, ristampa) muta l’opera anche se questa rimane identica a se stessa» (6). Gli stessi elementi hanno una portata ben diversa in Funny Games e Funny Games US, in virtù del diverso contesto in cui i due testi nascono e si collocano: in entrambi si può leggere il riferimento e la critica nei confronti di un cinema hollywoodiano (e, in senso più ampio, di una società americana) che fa di una violenza cruda ed esasperata il proprio soggetto privilegiato, ma da una parte il contesto mass mediatico muta profondamente, dall’altra, se con film austriaco del 1997, ci troviamo in una posizione esterna, estranea e fortemente polemica nei confronti di questo universo, con la versione US siamo calati proprio nel cuore di quel mondo che si intende stigmatizzare.

Presentato a Cannes nel 1997, Funny Games ha scosso a fondo la critica internazionale, ha sollecitato dibattiti e polemiche e aperto numerose discussioni sulla rappresentazione della violenza. Il film, ritenuto da Menarini «una delle poche opere contemporanee meritevoli di essere definite “disturbanti”» (7), ha a quell’epoca un impatto forte e destabilizzante, poiché, attraverso modalità di rappresentazione inedite e dotate di una forte carica di rottura, spinge a riflettere su fenomeni straordinariamente attuali e vivi nel contesto sociale e massmediati cocontemporaneo. Il film mette a nudo, attraverso una sorta di processo di distanziamento brechtiano, la manipolazione che esso conduce ai danni dello spettatore. Attaccando la forma stessa della finzione cinematografica, Funny Games si interroga e spinge ad interrogarsi sulla posizione dello spettatore in rapporto alle immagini di violenza sempre più massicciamente veicolate dai mass media stimolando costantemente una reazione, una risposta critica e consapevole alla provocazione e alla denuncia delle menzogne dell’immagine. Quando, nel 2007, Haneke propone un vero e proprio calco del film precedente, tutto è cambiato. Come direbbe Borges, sono passati dieci anni carichi di eventi, tra cui lo stesso Funny Games (8). La riflessione sulla rappresentazione della violenza si carica di una serie di aspetti inediti, sopratutto se si considera la rete di relazioni intertestuali che Funny Games US istituisce con una serie di produzioni statunitensi contemporanee, ossia tutti quegli horror di grande impatto mediatico etichettati come «torture porn» (9) : da Saw-L’enigmista (con la schiera dei suoi seguiti) a Hostel, da [i] House of 1000 corpses a The Devil’s Rejects, da Wolf Creek a The Descent. Proprio grazie alla massiccia diffusione di questo tipo di film, il pubblico contemporaneo è ormai abituato tanto ad una violenza senza pudori e senza senso, quanto a giochi e gli ammiccamenti metatestuali, che appaiono ormai “normalizzati”, sembrano non rendere più problematica la rappresentazione e non contribuiscono più a creare quel senso di straniamento che era premessa di un atteggiamento critico dello spettatore. Di fronte al pubblico di oggi la riflessione sulla rappresentazione stessa passa in secondo piano (se non viene del tutto trascurata) e le provocazioni cui è sottoposto paiono incuriosirlo più che destabilizzarlo, condurlo a chiedersi, più intrigato che critico o spaventato, fin dove loro, ma anche lui stesso e, in definitiva, lo spettacolo, saranno in grado di spingersi. Quindi nel remake non si incarna la stessa capacità di rottura che l’ipotesto metteva in atto nei confronti di tutta una seria di convenzioni cinematografiche: guardando il film oggi è difficile avvertire il medesimo impatto destabilizzante, la stessa disturbante sensazione di essere manipolati, presi in giro.

Anche la brutalità che permea gran parte della rappresentazione, tanto più significativa quanto più lasciata fuori campo, muta decisamente la sua portata per uno spettatore ormai anestetizzato alla violenza, che lo raggiunge fin dentro le mura domestiche con le immagini televisive, non solo di finzione ma anche nei telegiornali. Così l’enorme televisore grondante sangue da una parte perde gran parte del suo impatto impressionante, dall’altra diventa una metafora quanto mai pregnante. Un esempio di come il mutato contesto renda profondamente diversi i due testi può essere individuato anche analizzando i personaggi di Peter e Paul: se rimane immutato il gioco dei ruoli tra un personaggio apparentemente più freddo, calmo, e ironico, ma anche, in definitiva, più spietato (Frisch/Pitt) e il suo compagno più insicuro, problematico e tormentato (Giering/Colbert), cambia decisamente tutto l’universo di significati incarnato dalla coppia. Nell’Austria del 1997 i due aguzzini evocavano immediatamente una Hitler Jugend tanto vicina nello spazio, nel tempo e nell’immaginario, mentre i due ragazzini americani rappresentano piuttosto una gioventù cresciuta tra violenza endemica e abissale assenza di senso. In questa prospettiva cambia di segno anche la crudeltà stessa dei torturatori: da una parte una brutalità che affonda le proprie radici in una storia, quella tedesca del nazismo, che, a lungo rimossa e negata, riaffiora e irrompe a ribadire il suo essere ancora viva e radicata nel presente, dall’altra una violenza senza radici se non proprio l’assenza stessa di motivazioni, valori o ideali.

Tutta un’altra storia
Si è in conclusione visto come il remake di Funny Games, lungi dal riproporre un’identica riflessione e dal sortire identici effetti sullo spettatore, non riesca ad eguagliare la lucidità e profondità della critica condotta nell’originale. Al di là della fuorviante questione del giudizio sulla migliore o peggiore qualità del remake, bisogna sottolineare come l’operazione compiuta da Haneke sia comunque importante a livello teorico, poiché aggiunge un tassello alla già ricca e complessa riflessione sul remake. Funny Games e Funny Games US mettono in evidenza come riproporre un film identico all’originale a distanza di dieci anni implichi necessariamente il mutare del messaggio veicolato: cambiando il contesto in cui un’opera circola, quand’anche rimanga identica a se stessa, essa produce nuovi significati, anche radicalmente diversi da quelli originari.


Note:
(1) Funny Games US è il titolo originale del film del 2007, che nel nostro paese circola con il titolo Funny Games.
(2) Com’era già Psycho di Gus Van Sant (USA, 1998).
(3) Ad eccezione del bambino, Devon Gearhart, alla sua prima apparizione cinematografica.
(4) Il titolo è un punto cruciale della significazione, che, in modo più netto di altri elementi paratestuali, si colloca propriamente alle soglie del testo, costituendo una zona di confine tra extratestuale e testuale, un terreno di negoziazione e modellazione della fruizione e dell’interpretazione.
(5) Giovanni Guagnelini, Valentina Re, Visioni di altre visioni: intertestualità e cinema, Archetipolibri, Bologna, 2007, p. 24.
(6) Leonardo Quaresima, Amare i testi due alla volta. Il remake cinematografico, in Giovanni Guagnelini, Valentina Re, op. cit., p. 148.
(7) Roy Menarini, Funny Games, in «Segnocinema», n. 153, settembre-ottobre 2008, p. 91.
(8) Jorge Luis Borges, Pierre Menard, autore del Chisciotte, in Finzioni, Einaudi, Torino, 2005, p.39.
(9) Definizione coniata dal critico cinematografico del "New York Magazine" David Edelstein in un articolo del 28 gennaio 2006. (Cfr. http://nymag.com/movies/features/15622/).

 


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