Non è colpa tua! Gus Van Sant e i suoi dannati PDF 
Enrico Maria Artale   
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Non è colpa tua! Gus Van Sant e i suoi dannati
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ImageUna cifra peculiare dei personaggi ritratti dall’autore in questi due primi film è la loro dannazione esistenziale. Pur essendo le loro colpe difficilmente identificabili, quei giovani vivono la propria situazione come la condanna, magari non sempre insopportabile, espressa da una società profondamente ingiusta. Anche nella consapevolezza di essere solamente in parte responsabili del proprio destino, il vissuto personale è quello dei colpevoli; pertanto ognuno intraprende un timido tentativo di redenzione, non certo perché si condividano i ridicoli giudizi morali sull’omosessualità o sulla droga pronunciati dalla comunità, quanto perché si possa conoscere un’emancipazione dal contesto di dannazione e colpevolezza in cui quei giudizi gettano l’individuo. È come se, dopo un periodo in cui l’isolamento e l’emarginazione cui si è costretti vengono salutati positivamente, come espressioni di una vita intrepida e anticonformista, nei ragazzi riemerga il desiderio di avere una normale vita relazionale, magari in un contesto di legalità come nel caso di Bob, senza per questo pensare che la vita condotta fino ad allora fosse per qualche motivo biasimevole. Questo particolare vissuto della dannazione è uno dei nuclei concettuali di un film come Belli e dannati. Qui la dinamica si presenta in entrambi i protagonisti, ma sotto due vesti assai diverse. In Mike è un elemento istintivo e sincero: egli è veramente il dannato, colui che proviene da un contesto di indigenza economica e affettiva, colui che è stato verosimilmente costretto dagli eventi a diventare un ragazzo di vita, che sperimenta sulla propria pelle una condizione alterata come la narcolessia. Intraprendere un viaggio alla ricerca della madre, senza che questa madre rappresenti necessariamente qualcosa di fondamentale, è un tentativo di redimersi; non tanto per abbandonare il suo modo di vivere, quanto per uscire dalla condizione di straniamento emotivo e mancanza di affetto che lo affligge. In Scott invece accade il contrario: egli ha scelto consapevolmente la strada, preferendola alla vita agiata riservatagli dal potente padre. Ha scelto la dannazione. Ma il suo piano prevede un improvviso ritorno alle origini, una redenzione fulminea e disarmante; la sua colpevolezza non è radicata nella sua esistenza ed egli può controllarla a suo piacimento, con grande disinvoltura. Sarebbe erroneo ritenerlo un personaggio negativo, poiché è la logica della realtà a spingere la storia di Scott in quella determinata direzione, verso un ritorno al potere, come aveva ovviamente compreso Shakespeare quando scrisse l’Enrico IV, cui il film è ispirato (tramite l’adattamento cinematografico di Welles). In un certo senso, infatti, il duplice tradimento di Scott (che prima abbandona la sua famiglia per vivere in strada, e poi abbandona gli amici della strada per occupare il posto lasciato vuoto dalla morte del padre) costituisce la sua dannazione più intima. Nella straordinaria scena del doppio funerale Van Sant mostra meticolosamente, mediante la giustapposizione completa di due stili diversissimi, tutta la tristezza e la nostalgia di Scott per il mondo della strada (anche grazie ad una grandissima interpretazione di Keanu Reeves, in parte oscurata dalla genialità di River Phoenix). Forse solo allora egli percepisce come una condanna l’inevitabile ritorno alla vita borghese, la vera dannazione cui non può sfuggire. Belli e dannati è il più grande film che Van Sant gira nella prima fase della sua carriera, non tanto perché sia in sé un film migliore di Drugstore Cowboy, quanto perché risponde ad un ambizione decisamente superiore, quella di poter tenere uniti un linguaggio realista ed uno astratto e concettuale, un’ambientazione moderna e una storia antica, un contesto popolare ed elementi particolarmente colti, un’estrema serietà e un tono demenziale. È  un’opera postmoderna, ma ciò non è dovuto ad un gusto per il pastiche, tipico ad esempio di Tarantino; il tutto si legittima invece sulla base dell’unione di contrasti che caratterizza l’amicizia di Mike e Scott, quale tema centrale del film. È il frutto di uno strano equilibrio la possibilità che convivano le visioni del protagonista con le strade di Portland, Shakespeare e le marchette, scene come quella del falò con il numero canoro del tedesco pervertito. Ne esce un film complesso, sul quale si potrebbe parlare e scrivere moltissimo senza smettere di coglierne nuove implicazioni e nuovi spunti. In esso si condensano e si sviluppano tutti i nodi concettuali che ruotano attorno al tema della giovinezza, già presente nei film precedenti. Tra questi la difficoltà di elaborare la propria dannazione, la propria colpa esistenziale, emerge in una ricca varietà di sfumature: è una riflessione che non abbandonerà mai il cinema di Van Sant e i giovani personaggi che vi abitano.

ImageÈ noto come da Cowgirl in poi il cinema di Van Sant subisca una decisa svolta in chiave hollywoodiana, attratto sempre più dall’idea di poter lavorare con grandi produzioni avendo in qualche modo conquistato l’interesse della sistema industriale con il suo particolare modo di lavorare. In realtà, restando focalizzati sui personaggi dei film, già lo stesso Cowgirl rappresentava un deciso cambiamento, e non soltanto per il fatto che si tratta dell’unico film del regista esplicitamente dedicato a figure femminili. Le cause di questo cambiamento vanno certamente ricercate nel romanzo leggendario di Tom Robbins che è alla base del film stesso, e che ne ha condizionato giustamente diverse scelte stilistiche e narrative. In particolar modo, il discorso sulla dannazione e sulla colpa appare alquanto marginale (l’unico elemento che può esservi riferito sono i pollici deformi della protagonista, ma non viene drammatizzato in questo senso). La stessa discriminazione sessista si mantiene su un livello prettamente ironico, e, in sintonia con il momento storico in cui il film è stato realizzato (siamo negli anni novanta, mentre il libro era stato scritto più di vent’anni prima), l’emarginazione femminile non viene affatto posta come il problema centrale. Certo le “cowgirls” rappresentano la ribellione, e questo le rende affini ad altri personaggi vansantiani, ma al tempo stesso, proprio perché qui la ribellione è figlia di una evoluta coscienza politica, sono diverse. Questa differenza illumina ancor più chiaramente un tratto essenziale dei giovani protagonisti maschili: in sintonia con alcuni elementi fondamentali della cultura americana questi sono, come dice il film culto del genere, Rebel Without A Cause, ribelli senza una causa (Gioventù bruciata in Italia). Anche quando si tratta di emarginati, di vittime di una discriminazione, omosessuali, immigrati, drogati, marchettari, i personaggi non lottano mai in nome del proprio riscatto sociale, né tantomeno in nome di un mondo migliore. A volte non lottano affatto, e non ne sono intenzionati. Il loro status di ribelli deriva direttamente dalle condizioni di vita, dal rifiuto istintivo di certi atteggiamenti, ma non riesce a sfociare spontaneamente in una lotta. Ciò è evidente, ad esempio, nel personaggio interpretato da Joaquin Phoenix in Da morire; egli è assolutamente un passivo, ha subito una serie di soprusi nella vita, e parimenti subisce l’influsso di Ms. Maretto, il personaggio della Kidman, influsso che costituirà alla fine il più grave dei soprusi. Questa commedia nera, estremamente intelligente, risente per molti versi di un grande sistema produttivo, ma resta in tutto e per tutto un film di Van Sant: lo si vede chiaramente dalle parti dedicate ai tre adolescenti, che pur non essendo i protagonisti costituiscono senza ombra di dubbio il fulcro d’interesse del film intero. Tra loro Jimmy è il classico personaggio vansantiano, un ribelle dannato, bello ed inquieto; alcuni tratti però sembrano innovativi, innanzitutto la passività: Jimmy non è un ragazzo molto sveglio, e non è uno che prende iniziative. Questo lo diversifica non poco da Bob, che in Drugstore Cowboy era a capo di una banda di malviventi, o da Mike di Belli e dannati, che era dotato di una certa genialità e di una grande memoria visiva. Nella sua passività rispetto agli eventi, nel suo subire le circostanze la figura di Jimmy anticipa significativamente alcuni personaggi dei film più recenti.

ImageIl processo di mutazione del cinema di Van Sant, e dei giovani ragazzi che esso ritrae, si compie nel successivo Will Hunting – Genio ribelle. Come sottolinea didascalicamente il titolo italiano anche Will è un ribelle, in quanto proviene da una condizione di povertà e solitudine (è un orfano); inizialmente egli non riesce neanche a desiderare un’emancipazione della sua esistenza, una crescita, ma sarà la coscienza sociale del suo amico Ben a spingerlo nella giusta direzione, da un punto di vista professionale, mentre il confronto con lo psicologo interpretato da Robin Williams offrirà a Will l’occasione per rimettere in discussione la propria situazione emotiva. Fin qui nessun segno di discontinuità rispetto ai personaggi precedenti, anzi: Will condivide appieno quel drammatico sentimento di colpevolezza che abbiamo visto al fondo della personalità di tutti gli altri; in lui è talmente sviluppato da inibire ogni aspirazione individuale, in un’accettazione della realtà che va oltre il realismo, mostrandosi invece cieco di fronte alle occasioni offerte dalla sua condizione di privilegiato. Non a caso la scena chiave del film è quella in cui lo psicologo ripete a Will, ormai giunto al crollo emotivo: “Non è colpa tua”. In un certo senso la stessa frase potrebbe essere ripetuta per tutti i grandi personaggi vansantiani, come se il regista mostrasse un atteggiamento consolatorio nei loro confronti; con questo non si vuole affermare che il suo cinema sia consolatorio: non lo è mai stato, e da un certo momento in poi anche soltanto uno spiraglio per la consolazione diventa pressoché impossibile, se pensiamo ad esempio ai finali degli ultimi film. Ciononostante l’atteggiamento di Van Sant rispetto alla natura delle cose e delle persone, e soprattutto l’assenza di moralismo, lo inducono a disporre, magari anche al di là delle sue intenzioni, una dolcezza rassicurante nei confronti dei suoi personaggi, quasi a volergli esplicitamente dire: non è colpa tua. Questo vale ampiamente sia per i protagonista di film come Mala Noche, Drugstore Cowboy, e Belli e dannati, sia per Jimmy di Da morire, o per i ragazzi prodigio di Will Hunting e Scoprendo Forrester; vale persino per la figura di Norman Bates in Psycho, volutamente molto diverso dal personaggio interpretato da Anthony Perkins nell’originale di Alfred Hitchcock. E potremmo aggiungere anche il ragazzo superstite di Gerry, i giovani killer di Elephant, il cantante Blake in Last Days o il protagonista di Paranoid Park. Certo bisogna tenere presente che qui il discorso si fa più ambiguo e complesso, perché si tratta sempre, in un modo o nell’altro, di assassini, eccezion fatta per il personaggio ispirato a Kurt Cobain. Questo non significa che Van Sant voglia deresponsabilizzare l’individuo perché qui non è in oggetto una colpa psicologica (si esplicita come tale solo in Will Hunting), né tantomeno una responsabilità legale; certo non sono pochi i casi in cui emerge tra le righe il problema di una società costretta a responsabilizzare eccessivamente e prima del tempo i propri giovani, ad esempio nella figura di John in Elephant, abituato a badare al padre alcolizzato come fosse suo figlio. Ma se Van Sant di volta in volta sembra dire ai suoi ragazzi “non è colpa tua!” è perché in un certo senso mette in discussione la colpa su un piano metafisico, la colpa originaria di tutti gli uomini, che viene percepita in modo molto più drammatico da un ragazzo, per di più se si tratta di un ragazzo che vive sin dalla nascita in una condizione più o meno difficile. È il sistema morale della colpa ad entrare in crisi, in modo sempre più radicale e intransigente, lungo l’arco della filmografia del regista.
 
ImageDunque Will Hunting è un ribelle, un genio ribelle, che sperimenta su di sé la colpa universale, soltanto in parte concretizzatasi in implicazioni psicologiche. Resta allora da chiarire il significato della nostra affermazione circa il mutamento dei personaggi compiutosi in questo film, che concerne, per così dire, la forma della dannazione, l’espressione del sentimento di colpevolezza. A partire da Cowgirl e Da morire, si definisce nei film successivi l’abbandono del contesto moralmente ambiguo, del carattere tenebroso e tormentato dei protagonisti, della messa in scena delle difficoltà presenti nella loro esistenza. Nei primi tre film Van Sant parlava di omosessuali, di immigrati, di sfruttamento diretto e indiretto, di marchettari narcolettici e di drogati superstiziosi: in queste figure romanticismo e maledettismo costituiscono un binomio inscindibile, così come una disposizione caratteriale anarchica in violento contrasto con l’autorità. Il cineasta evita in modo intelligente le caratterizzazioni eccessive e esasperate, riuscendo così a costruire figure pienamente credibili, come Bob in Drugstore Cowboy, anche quando siamo al limite dell’idealizzazione, nel caso esemplare di Mike in Belli e dannati. Ciò non toglie che il quadro generale sia in sintonia ideale con certe pagine di Baudelaire o di Henry Miller, laddove l’autore non rinuncia a mostrare le difficoltà più o meno concrete dell’esistenza. Tutto questo progressivamente scompare. È vero che Jimmy, in Da morire, e Will Hunting vivono in condizioni disagiate, ma questo disagio resta al margine della storia, appena suggerito dalle case in cui i personaggi abitano; entrambi poi non partecipano ad un contesto di dissoluzione morale (nella prospettiva benpensante sia chiaro) presente nei precedenti film: uno è uno studente, l’altro è un bidello che dovrebbe essere uno studente, nessuno dei due forse è un ragazzo modello ma al massimo si segnalano per una discreta aggressività, perfettamente comprensibile del resto. Niente di paragonabile con la prostituzione o la rapina. Infine, per motivi opposti, caratterialmente non sono degli spiriti maledetti: Joaquin non lo è perché poco intelligente e assolutamente passivo, Will non lo è perché estremamente brillante e, almeno in certi casi, solare. La differenza tra gli interpreti in sé, ad esempio tra River Phoenix e Matt Damon, rende conto appieno della differenza tra i personaggi. Dopo aver lasciato fuori i bassifondi in un lavoro come Cowgirl, Van Sant fa rientrare i protagonisti dei film successivi in un mondo molto più ordinario, malgrado tutte le rispettive particolarità (non sono in ogni caso, non sono ancora, dei ragazzi qualunque).

ImageSi potrebbe insistere sul fatto che la ragione di questo evidente cambiamento vada ricercata nel sistema produttivo hollywoodiano, che ha accolto Van Sant tra i propri protetti senza per questo concedergli carta bianca, privilegio di pochissimi. O si potrebbe anche sottolineare come la sceneggiatura di film come Da morire, Will Hunting, o Scoprendo Forrester, sia stata proposta al regista da terzi, la cui visione di certi temi potrebbe essere affine ma certamente diversa e meno radicale. Certo non si può non tenere conto di questi fattori, non si può non tenere conto di come i primi film di Van Sant rispecchino realtà magari non vissute in prima persona ma senza dubbio osservate da vicino dall’autore, mentre Will Hunting rispecchia il mondo osservato da Ben Affleck e Matt Damon. Tuttavia ciò non deve nasconderci una ragione diversa, altrettanto importante e forse più profonda, della svolta, che in ogni caso qui interessa molto di più: da un certo momento in poi Van Sant riconosce un cambiamento radicale nella vita dei giovani, e i suoi film ne risentono. Senza dubbio, cercando di tenere insieme gli elementi, si può dire che Affleck e Damon, con la loro sceneggiatura, sono stati un filtro utile per Van Sant, ormai non più ragazzo. Anche grazie al loro lavoro il cineasta comprende come rispetto ai giovani degli anni Settanta e Ottanta alcuni miti e alcuni atteggiamenti siano crollati; non perché non esistano più condizioni di vita disagiate, anche in Occidente, anche in America, quanto perché quelle condizioni non costituiscono più un mito o un modello di per sé alternativo. Il sentimento della colpa è qualcosa che non abbandonerà mai i ragazzi, ma esso non si manifesta più in certi atteggiamenti, in certe condotte di vita: lo status di “belli e dannati” è destinato a scomparire, almeno in apparenza. Ecco in che senso cambiano le forme della dannazione. Naturalmente, in perfetta sintonia con quanto appena detto, ma anche con i dettami di Hollywood, cambia anche la forma stessa della narrazione e della messa in scena, che diventa più lineare e pulita, a volte capace di strutture piuttosto complesse (in Da morire), in ogni caso meno confusionaria e anarchica, meno visionaria. Psycho risulta esemplare in questo senso. Innanzitutto il film è il frutto di un operazione estremamente intellettuale e manierista, di una cinefilia molto matura, e ciò conduce verso un lavoro stilistico raffinato ed elegante. D’altra parte Van Sant dimostra di avere una visione molto diversa da Hitchcock, e ciò si ripercuote sulla figura di Norman Bates, il serial killer: se l’originale aveva qualcosa di demoniaco e inquietante, già nella scelta di Vince Vaughn l’autore ha scelto di rinunciare a certe corde privilegiando l’aspetto bonario e infantile del personaggio. Solo in apparenza Psycho non parla di ragazzi; tra i film di Hitchcock invece, insieme a Nodo alla gola, è quello che affronta i giovani nel modo più diretto: Bates è ben lontano infatti da essere un uomo maturo, anzi, spesso si comporta da bambino, come del resto evidenzia psicologicamente la dipendenza mentale dalla madre. Ecco che allora vengono fuori le affinità con altre figure vansantiane, sulla base, qui fin troppo evidente, del sentimento di colpevolezza e della ribellione, che qui è però al centro di una dinamica patologica per cui si traduce nell’omicidio seriale. Tuttavia in Bates è assente, già nell’originale, qualsiasi traccia di romanticismo, e qui il suo tratto diabolico viene ulteriormente mitigato. Egli si muove così in un contesto ordinario, ma non solo: è la concretizzazione e la rappresentazione metaforica al tempo stesso dell’ordinario quale luogo della violenza più radicale e temibile. L’incipit del soggetto di Psycho è un capolavoro emblematico in questo senso: una ladra fugge con la refurtiva e lungo la strada si ferma in un motel. Fa amicizia con il proprietario del motel e mentre fa la doccia viene assassinata, il suo corpo gettato in un lago assieme alla refurtiva, di cui l’assassino non aveva scoperto l’esistenza. Si è usato spesso a proposito l’espressione, rubata al famoso libro di Hannah Arendt, “banalità del male”, diremmo in termini inappropriati; in ogni caso qui si intravede chiaramente un filo rosso che lega tematicamente Psycho ad Elephant. Ma Elephant fa parte di una fase successiva della produzione del regista, radicalmente diversa. Se era forse possibile intendere positivamente, come un segno di speranza, il cambiamento dei personaggi giovanili dai primi film a quelli realizzati dalla metà degli anni Novanta in poi, la successiva rivoluzione del cinema di Gus Van Sant, stavolta molto più repentina e radicale, sembra aver fugato ogni dubbio. Il ritorno nell’ordinario apre spiragli ben più inquietanti ed enigmatici di quelli osservati in Drugstore Cowboy e Belli e dannati, e mette in luce difficoltà di elaborazione esistenziale insormontabili, o quasi.


 


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