La fiction della realtà: il cinema di Kevin Macdonald PDF 
Umberto Ledda   

La differenza fra fiction e documentario, almeno nella pratica comune del cinema, è più superficiale di quanto non si pensi di solito. Certo, per la prima la libertà nei confronti della realtà è assoluta, mentre per il secondo è, almeno in teoria, molto limitata. Ma una volta superata questa fase, i due macrogeneri del cinema procedono appaiati. Entrambi hanno bisogno di una struttura narrativa, dello sviluppo del conflitto, di un punto di vista; di tutte quelle cose, ben poco attinenti al reale procedere degli eventi, che sono necessarie in un film perché possa funzionare in maniera efficace (perché anche qualcuno non addentro al suo argomento lo guardi, insomma, assolvendo al grande dovere documentaristico della divulgazione). Paradossalmente, anche la differenza di scopo fra i due generi è più labile di quanto non possa sembrare: in teoria la fiction appassiona e coinvolge attraverso l’immedesimazione; il documentario, semplicemente, informa. Ma i documentari che, semplicemente, informano, senza tirare in ballo coinvolgimenti e immedesimazioni, o senza usare l’elemento informativo come grimaldello per convincere lo spettatore di qualcosa, praticamente non esistono. E lo stesso discorso si può fare sulla distinzione fra oggettività scientifica del documentario e soggettività della fiction: giusto per fare un caso estremo, a nessuno viene in mente di essere di fronte a una visione oggettiva quando guarda un film di Michael Moore, che pure ufficialmente è un documentario.

Il fatto è che perfino i documentari naturalistici che passano su Superquark (e il documentario naturalistico è forse il grado zero del documentario, la sua forma più pura) usano abbondantemente gli elementi della fiction, e la loro stessa oggettività è dubbia: non mostrano la vita naturale tout court, ne mostrano quella minima parte che contiene le matrici narrative primarie, le stesse di cui sono fatte le fiction. L’animale è sempre, anche inconsciamente, antropomorfizzato perché si possa generare l’immedesimazione. La femmina il cui cucciolo muore, a prescindere dalla specie, viene presentata secondo gli stilemi del dolore materno ben oltre l’oggettività biologica. La gazzella e il leone non sono semplicemente vittima e predatore potenziali, ma acerrimi nemici: il conflitto fra di loro viene portato in primo piano per una pura esigenza di conflitto. E la specie a rischio d’estinzione viene solitamente ripresa in inquadrature epiche, e molto retoriche: le inquadrature dell’eroe sconfitto, che sa di dover morire pur non avendo torto alcuno. Senza questa pulsione epica, che è la base della finzione, i documentari sarebbero semplicemente di una noia tremenda. E non è un caso che una delle derive contemporanee della forma documentaristica sia la tendenza a mettere in primo piano non la situazione descritta, ma la storia delle persone che la stanno descrivendo, cioè il documentarista, o i documentaristi stessi. È una tendenza che rivela come un cartina di tornasole l’aspirazione a fare storie avvincenti, piuttosto che a documentare semplicemente la realtà, come in teoria andrebbe fatto, e che ha radici abbastanza antiche, se così si può dire per un’arte così giovane: per tornare ai filmati naturalistici, basta vedere i film di Jacques Cousteau, a tutti gli effetti film di fiction incentrati su un gruppo di cinematografari del reale (oppure basta vedere Le avventure acquatiche di Steve Zissou, dove Wes Anderson riscrive la figura di Cousteau mettendo al centro proprio questa strana ibridazione fra documentario e fiction, fra oggettività scientifica e cialtroneria da cantastorie).

Il documentario ha sempre una storia: il fatto che questa sia reale oppure meno è certamente importante, ma poi, nel procedere delle immagini e delle inquadrature, le strutture logiche che la fanno avanzare sono le stesse. Il più delle volte, il documentario è una forma di fiction costituita da tasselli presi dal reale, montati poi insieme per costruire un percorso che ha la superficie visiva della realtà, ma è fatto della sostanza delle storie. Lo scozzese Kevin Macdonald questo lo sa così bene che ha costruito l’intera carriera fregandosene della distinzione. Dopo aver iniziato col documentario è passato alla fiction, per poi tornare al documentario, per poi tentare le vie ibride, da una parte e dall’altra, spesso con risultati che semplicemente eliminano la differenza fra i due generi, nel senso che lo spettatore che li guarda non ha idea se si tratti dell’uno o dell’altro. D’altra parte, fiction e documentario sono semplicemente due modi per raccontare le storie (reali - se ha senso parlare di realtà per una storia che qualcuno ci racconta - o inventate che siano), entrambi possono essere usati, anche contemporaneamente. Il suo cinema documentario non si fa problemi a utilizzare apertamente (e quindi onestamente) elementi di messinscena, così come il suo cinema di fiction prende pezzi dalla realtà come se niente fosse, usandoli in sinergia, e non in contrapposizione, con quelli narrativi.

Un caso è eclatante: La morte sospesa è un documentario, visto che racconta la storia, verissima, dell’alpinista Joe Simpson, che nel 1984 si ruppe malamente una gamba durante la discesa da un seimila andino e, dopo essere stato dato per morto dal suo compagno, si fece tutta la discesa da solo, con lo stinco infilato nella coscia, attraverso crepacci, ghiacciai e solitudini allucinanti. È un documentario con attori, però, e senza una sola inquadratura di repertorio, un documentario in cui per oltre il sessanta per cento del tempo si vedono immagini girate secondo messinscena (il resto del tempo i due protagonisti parlano direttamente alla cinepresa su uno sfondo neutro): scelta accurata dell’inquadratura, spesso sghemba o comunque ben studiata, cura dei tempi scenici e della fotografia. È, quindi, anche fiction, almeno nel senso che ciò che si vede è ricreato: racconta una cosa che è accaduta, ma le immagini non sono la realtà. Ma, cosa impensabile per la fiction, la location di questa messinscena è quella reale: con una certa follia herzoghiana Macdonald è andato a girare sulle Ande, nei luoghi reali degli eventi del 1984, nonostante le ovvie difficoltà del fare cinema in un posto in cui non c’è nemmeno l’ossigeno, figuriamoci le altre cose che di solito servono a una troupe (allo stesso modo, per girare il film di finzione e per molti aspetti quasi di genere L’ultimo re di Scozia, sul dittatore ugandese Idi Amin, andrà a girare in Uganda, per preservare, anche nella fiction, l’oggettività e la precisione del luogo). L’ibridazione fra fiction e documentario è assoluta: e non si tratta nemmeno di cose particolarmente originali, ma d’altra parte non è fra le priorità di Macdonald rivoluzionare il genere cinematografico di cui si occupa. Quello che colpisce è la totale naturalezza del risultato. La morte sospesa è un film con attori che a guardarlo ci si dimentica il fatto che siano attori, ed è un documentario pienamente compatibile, per scansione dei tempi e struttura della suspence, a un buon action movie. Il risultato va ben oltre la solita docufiction, dove i due elementi rimangono giustapposti, appaiati. Macdonald ha semplicemente girato come se il confine tra i due generi non avesse senso di esistere, come se di fatto non esistesse.

Lo stesso atteggiamento di Macdonald è ibrido: senza la pretesa di mera informazione, di descrizione della realtà in sé, utilizza come base per il suo documentarismo storie di singoli individui, sui cui poi la realtà più ampia si costruisce e si intuisce da sé. Come in Life in a Day, il progetto del 2011 che raccoglie materiale mandato da tutto il mondo da chiunque volesse mandarlo, e riunisce in un’ora e mezza una specie di istantanea del pianeta a partire da singoli elementi liberamente personali (l’unico vincolo era che le riprese fossero state effettuate il 24 luglio 2010). La volontà di raccontare il mondo nella sua interezza è del tutto stemperata dalla controintuizione di farlo raccontare dal mondo stesso, attraverso le singolarità pure, senza un piano comunicativo superiore se non quello del montaggio. O come nel Nemico del mio nemico, opera decisamente più tradizionale sia de La morte sospesa sia di Life in a Day, documentario abbastanza normale, fatto di interviste e materiale di repertorio. Racconta, attraverso la storia del torturatore nazista Klaus Barbie, la cupa e verosimile realtà degli Stati Uniti del dopoguerra, che nel tentativo di combattere l’influenza comunista in Europa non esitavano a collaborare con coloro che più di tutti conoscevano e odiavano i comunisti: le SS. Quella di raccontare una verità, una realtà generale a partire dalla singola storia di un individuo non è certo una peculiarità di Macdonald, e molto documentarismo attuale si fonda su questa struttura.

Quello che stupisce nel Nemico del mio nemico è però proprio la labilità del collegamento: quella di Barbie è una storia interessante principalmente sul piano psicologico, mentre su quello storico era solo uno fra i tanti nazisti assoldati dalla CIA in qualità di esperti anticomunisti, senza una particolarità che lo rendesse decisamente rivelatore, che ne facesse un grimaldello per chiarire meglio di chiunque altro la realtà storica che stava dietro e sopra di lui. In altre parole, non sarebbe cambiato molto se lo stesso tema fosse stato affrontato da Macdonald direttamente su un piano più vasto, senza scegliere una specifica figura come protagonista. Ma a Macdonald, più che la realtà del contesto, interessava quella individuale, psicologica. E molto di più l’analisi del male e della violenza in sé rispetto all’analisi politica. Prima il singolo e poi il contesto, e non viceversa. E infatti Macdonald il suo meglio lo da quando il contesto storico, il piano superiore della realtà, se ne sta un po’ in disparte, quando non è troppo ingombrante. Come ne La morte sospesa (che rimane forse il suo lavoro migliore, capace com’è di unire una struttura cinematograficamente interessante a una storia solidissima anche dal punto di vista spettacolare), appunto, dove contesto proprio non ce n’è, e allora si possono analizzare le psicologie, soffermarsi sui volti, e su questo costruire la presa documentaristica. O come in Marley, che dal punto di vista tecnico è piuttosto tradizionale (se non fosse per l’abolizione della voce off, che ancora una volta impone un ritmo più narrativo e meno documentaristico), ma in cui l’abbondanza di materiale, fra interviste e archivio, permette a Macdonald di costruire un ritratto compiuto e complesso, una vera e propria indagine sul cantante jamaicano, dove il contesto c’è e si vede, ma la cui descrizione può comodamente stare sullo sfondo, trapelando naturalmente, senza forzature.

Le sue opere sono addossate ai loro protagonisti, anche quando questi protagonisti sembrerebbero soltanto una chiave d’accesso per temi molto più grandi di loro. D’altra parte non è affatto un caso che Macdonald abbia iniziato con opere di documentarismo biografico su grandi registi: biografico - e quindi personale e psicologico -, e artistico - e quindi necessariamente interiorizzato. Il risultato è duplice: se nel suo cinema di finzione l’effetto è quello di una densa patina di verosimiglianza, di onestà e di credibilità su trame che sono, alla fine, spesso decisamente vicine al genere, in quello documentaristico, che gli riesce probabilmente meglio, la sensazione è quella che, abbattendo i labili confini tra la messinscena del reale e quella della finzione, e facendo sì che sia quest’ultima a prendersi cura dello spettatore, riesca a superare e ad aggirare la tradizionale distanza e freddezza del cinema documentario, rendendolo più fruibile e anche più efficace, senza, per questo,  venire meno alla sua obiettività.

 


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