Il cattivo tenente - Ultima chiamata New Orleans PDF 
Gianpiero Ariola   

Il caos quale principio fondante dell’ordine, o meglio del disordine, della Natura è un tema ricorrente nelle trame herzoghiane. Il cattivo tenente - Ultima chiamata New Orleans non fa eccezione. Anche qui il caos si rivela un elemento determinante non solo per proiettare, nello svolgimento diegetico, un serpeggiante senso di instabilità (non a caso quasi tutti la fauna ritratta è costituita da rettili), ma si prospetta quale respiro stesso di una poetica, ovvero quale adesione a un approccio metafisico irrinunciabile (1).

Le distanze, che Herzog ha più volte dichiarato, dall’omonimo film di Abel Ferrara, in cui il tenente finiva imbrigliato in una crisi religiosa, assumono allora una forma di ragionevolezza inattaccabile. Non un pretesto futile, quindi, per negare la pratica del remake, ma un’ottica filosofica sovvertita segna lo sfasamento tra le due pellicole. Questo orizzonte di senso in cui Herzog ambienta il suo film, una semi-oscurità solo apparentemente sotto controllo, è il vero tessuto nervoso intorno al quale girano i motori della narrazione, dissimulando quelle leggi incomprese del cosmo che sottendono l’esistenza stessa. Pertanto le casualità, gli imprevisti, i passi falsi giocano a modulare gli eventi, precisando la propria essenza insidiosa e rivendicando ruoli di primo piano. Ecco allora cosa si tesse nella scena, ecco cosa riaffiora nel testo: un’ineludibile forza naturale, quasi fosse scoria della terra stessa, che si mischia all’implacabile acqua straripante, mutando le tane degli uomini a suo piacimento (visibile nelle tracce disastrose dell’uragano appena passato). È il borbottio dell’ambiente che a noi uomini suona come roboante invasione territoriale, mentre invece attua semplicemente lo smascheramento dell’umana stoltezza, incapace di accettare la potenza squilibrata di ciò che ci circonda: un mondo fuori da ogni controllo fisico (per la furia cieca dell’uragano), cognitivo (per le leggi naturali mai abbastanza chiare da poter prevedere catastrofi) e morale (Terence pare guidato solo da un acuto istinto di sopravvivenza).

McDonagh è esattamente un uomo braccato, che lo spettatore è chiamato a seguire senza soluzione di continuità per New Orleans. Non dorme (lo afferma chiaramente dopo la minaccia alle due anziane donne, e l’unico tentativo di riposare su una brandina, nella stazione di polizia, viene interrotta da un collega), non passa mai da casa (si vedono soltanto abitazione altrui), è sempre in movimento. Il suo corpo ingobbito è attraversato dal brivido dell’insonnia, stregato dall’oscurità come un Nosferatu, agitato e trasognato come Woyzeck o Fitzcarraldo. Insomma, anche il poliziotto in carriera, come gli altri personaggi del regista tedesco, sembra appartenere alla categoria dei reietti, dei rifiuti della società, dei menomati (2). La sua fisionomia cambia lungo lo svolgimento dell’indagine, consumando la sua vita e il suo aspetto già minato dalla droga, trasformandolo sempre più in un personaggio deturpato, con gli occhi allucinati che paiono saltargli dalle orbite e con il fisico visibilmente piegato e incurvato, fino a sembrare una caricatura di se stesso. La sua inquietudine lo spinge oltre gli schemi dell’indagine poliziesca – connotato di genere che il film conserva solo come pretesto –, in una ricerca interiore sommersa, celata dalla sua dubbia moralità, e in una lotta impari contro il forte senso di precarietà e casualità. L’intreccio insomma sembra impossessarsi del personaggio, costruendo prospettive che non possono essere che parziali, con zone d’ombra che sono rischiarate da meccanismi automatici (vedi il faro dell’auto di servizio) e aree d’invisibilità sfruttate con gesti approssimati, quanto improvvisati (Terence si nasconde alle telecamere per intascare la droga e sfrutta lo spazio dietro la porta per sorprendere le due anziane). In questa incertezza visiva, in questo clima di palese imprevedibilità, la fuga del ragazzo e testimone è allora tanto ridicola e parodistica quanto possibile, quasi scontata.

In realtà rispetto a quegli eroi “fallimentari” e decadenti che hanno popolato le pellicole del regista tedesco, McDonagh pare piuttosto una sorta di anti-eroe destrutturato e deriso. Egli subisce infatti una spoliazione valoriale, un inselvatichimento e un annientamento, in quel suo aspetto sgangherato e claudicante, ed è spinto a valicare la semplice dimensione caricaturale dell’eroe poliziotto. Le sue imprese si tingono di sfumature fosche, perché la sua strategia vincente si rivela più un losco sfruttamento altrui e di pieghe fortuite. Questo porta lo spettatore dritto alla confusione, per quel sentimento controverso di immedesimazione, per quel dubbioso sostegno che il pubblico stenta a concedere a un personaggio così controverso: corrotto, dissoluto, depravato e che tuttavia ha lampi di umanità, sprazzi di sensibile accoglienza. La figura del tenente si colora così, in virtù del suo imbarazzante successo, di una gamma d’umore che va dal riprovevole al commovente (i suoi momenti di affettuoso conforto verso Frankie), dal comico al pietoso (il suo sconforto finale sotto la vasca dei pesci). Herzog vuole allora costruire un semplice burattino? Il tenente è un fantoccio privo di libertà, in balia degli eventi? Non esattamente. McDonagh inanella azioni instancabilmente, incarnando piuttosto un topos di prontezza di riflessi, di attivismo e immediatezza. Interpreta un modello di azione, di movimento e di improvvisazione, forse non precisamente di velocità ma comunque opposto a quei comportamenti di flemma, ignavia e indolenza rappresentate dalle due anziane o dalla farmacista, che tessono reti di protezione e di rallentamento al corso incessante degli eventi. L’eccessiva lentezza sembra così prefigurare l’inciampo, l’intoppo al corso della giustizia ma anche a quello del respiro stesso della Natura, a quel polmone che dall’esterno condiziona le attività sociali. Il ritmo del film è fatto dall’incedere di Terence e risulta, a volerlo definire con esattezza, ipnotico, sospeso, grazie anche alla colonna sonora che associa alle immagini passaggi sonori in stallo, particolarmente riverberanti nel loro timbro acustico. Si tratta di un ritmo che possiede in sé già dei rallentamenti e non può permettersi di frenare ulteriormente, non può inciampare su ulteriori divagazioni, che rischierebbero di far girare tutto in tondo ostacolando il raggiungimento di qualsiasi obiettivo. Uno scopo, invece, il nostro poliziotto ce l’ha, anche se spesso sembra distrarsi da esso, di non concedervi importanza o addirittura di negarlo.

Qual è dunque la vera dimensione del protagonista de Il cattivo tenente? Come si districa in questo gioco asfittico di velocità caotica, da un lato, e di iper-rallentamenti umani, dall’altra? La risposta di Herzog è ancora una volta chiara, ripescata nuovamente nel paniere della sua retorica: la visionarietà. Questa si stampa sul viso stravolto di Cage, in quella sua risata beffarda e straniante, giustificata, ad uno sguardo banale e superficiale, dal solo effetto venefico degli stupefacenti. La costruzione delle iper-visioni assume invece una linea espressiva ben precisa, coinvolgendo anzitutto i corpi squamosi dei rettili, ma soprattutto ricorrendo ad effetti audiovisivi di grande efficacia. Nella scena dell’appostamento, le visioni si configurano come veri e propri spaccati comunicativi tra umano ed extra-umano, dischiudendo una dimensione a cui lo spettatore accede insieme al protagonista. Le iguane sono invisibili agli altri personaggi, la negazione della loro presenza è palese, e tuttavia la loro raffigurazione non è incorniciata in aloni onirici, ma è coalescente allo stesso piano visuale della scena. È come se tutto fosse confuso, oppure come se appartenesse a un sottofondo invisibile che emerge solo agli occhi mediatori del tenente. Inoltre, mentre la camera approccia il corpo dei rettili, interagendo con il brano rock/romantico, la percezione subisce una dilatazione. È proprio questa straniante ed insieme esilarante associazione immagine/musica a confermare il rapporto diretto tra soggetto umano e animale, che passa chiaramente attraverso finestre allucinatorie. Si tratta di una vera e propria inversione prospettica, che trasferisce brevemente l’angolo visuale nell’iguana (ma anche nell’alligatore, in un'altra sequenza). Per pochi secondi il piano ravvicinato dei corpi squamosi sembrano trasformarsi in soggettive anfibie, tremanti e incerte (per l’uso della camera a mano), che contengono in sé lo sbalordimento e l’incanto per quegli stessi corpi ignoti.

Cattaneo rammenta quanto Herzog, attraverso l’opera lirica, riesca a creare una trasfigurazione del mondo in musica (3). Stavolta però la musica non è quella operistica ma si ispira al blues (per un logico omaggio all’ambientazione) e al rock per suscitare fondamentalmente quei chiasmi audiovisivi che capovolgono la drammaticità e la tensione diegetica (ancora una volta si verifica una parodia del genere poliziesco/noir). Oltre alla scena delle iguane vale inoltre ricordare quella dello scontro a fuoco nell’ufficio di Big Fate, in cui si vede l’anima del gangster, appena assassinato, ballare ancora a suon di armonica, mentre Terence, divertito, chiede allo spacciatore di sparargli nuovamente. Si ripete quella coalescenza di piani (quello visionario del tenente e quello reale degli spacciatori), con una tensione amplificata a tal punto da indurre Big Fate a esplodere un nuovo colpo. L’allucinazione, in questo caso, viene chiamata ad aderire al reale, l’immaginario cerca disperatamente condivisioni e ragioni d’esistenza.

C’è infine un’ulteriore forma di visionarietà, quella che percorre il lato sorprendentemente tenero del tenente, quando questi parla alla sua ragazza del suo sogno infantile e le regala il cucchiaino ormai arrugginito. È l’ultimo tassello che completa la figura controversa di Terence McDonagh, ovvero quello relativo al sua essenza infantile, quello dei sogni puerili che si illudevano di tirar fuori la magia dalla realtà stessa, senza volerla superare ma traendone ispirazione. Ovviamente questa forma di immaginazione è inevitabilmente illusoria e, nel momento stesso in cui viene recuperato, il sogno è destinato a infrangersi. Così, tutto ciò che rimane del tenente è l’uomo oltre il poliziotto, l’essenza oltre l’utilità (4). Un residuo consunto, tutto riversato in quello sguardo che punta la misteriosa consistenza dell’acqua. Acqua che, non a caso, apre e chiude il film (sporca e lorda di catastrofe quella iniziale e limpida e cristallina nell’acquario finale). In entrambi i casi si tratta di un liquido vivo, di un elemento naturale popolato di creature inafferrabili, capaci di catturare l’uomo, la sua intimità onirica, e farne il proprio migliore amico (come recita la poesia del ragazzo ucciso). E forse è questa l’ossessione che ancora rende vivo il tenente McDonagh.

Note:
(1) Già Deleuze aveva definito Herzog “il più metafisico degli autori di cinema”. Cfr. Deleuze, G., Cinema e movimento, Milano, Ubulibri, 1984 p. 213.
(2) All’inizio, il tenente non dà l’impressione di essere un vero outsider, ma con lo scorrere delle scene scivola sempre di più verso quella “forma limite”, che fornisce l’accesso all’umanità più recondita. Cfr. Cattaneo, F., L’amo della menzogna e la carpa della verità, in "Cineforum", n. 462, 2007.
(3) Cfr. Cattaneo, F., 2003, op. cit.
(4) Si ritorna così alla portata metafisica dell’opera herzoghiana. Deleuze, citando Bergson, ammette quanto i personaggi del regista tedesco smettano di essere utili, per essere semplicemente. Essi, essendo senza difesa, non smettono mai di essere piccoli, ma grazie alle loro visioni l’immagine si gonfia e si espande. Cfr. Deleuze, G., op. cit., pp. 213-214.

TITOLO ORIGINALE: Bad Lieutenant: Port of Call New Orleans; REGIA: Werner Herzog; SCENEGGIATURA: William M. Finkelstein; FOTOGRAFIA: Peter Zeitlinger; MONTAGGIO: Joe Bini; MUSICA: Mark Isham; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2009; DURATA: 121 min.

 


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