La cosa PDF 
Marco Doddis   

La cosa è il film più rappresentativo nella carriera di John Carpenter. Forse non è il suo capolavoro assoluto (su questo i “carpenteriani” doc potrebbero dibattere all’infinito), ma si tratta dell’opera che meglio ne definisce la poetica e il suo rapporto con il pubblico. La cosa è lo specchio del regista: un oggetto complesso, sovversivo, svalutato e rivalutato. All’epoca della sua uscita nelle sale dovette fare i conti con un fiasco per nulla scontato, poi divenne un vero e proprio cult, nient’affatto di nicchia. La sua parabola spiega più di mille analisi: The Thing comparve nelle sale statunitensi il 25 giugno del 1982, esattamente due settimane prima era uscito E.T.. Una sfida impari, è vero, ma anche la dimostrazione matematica di come l’horror non fosse (sia) un genere per forza nazionalpopolare. E.T. non vinse solo perché Spielberg è Spielberg, con tutti gli annessi e connessi (produzione, promozione, distribuzione ecc…): il film di Carpenter, cioè, non era un’opera autoprodotta e low budget, anzi aveva alle spalle la medesima casa di produzione (Universal) e circa 15 milioni di dollari di investimento. Se l’alieno di Rambaldi si impose fu perché rappresentava una storia molto più hollywoodiana e molto più consolatoria. Attenzione: non c’è il classico happy-ending in E.T., però, le lacrime, versate sulla favola che finisce, sono meglio, molto meglio, rispetto a quella sensazione di inquietudine e di ansia trasmessa dal finale de La cosa.

La creatura di Carpenter (anzi, la creatura realizzata dall’enfant prodige Rob Bottin) è la quintessenza dell’indefinito, del perturbante. Nel corso del film, lo spettatore capisce che è di origine aliena (c’è di mezzo un’astronave ibernata), che muta continuamente aspetto perché assume le sembianze dell’essere di cui si impadronisce, e che è una creatura che racchiude altre creature, ma non può certo dire, alla fine della visione, di aver saziato la propria curiosità. E’ questo, a nostro avviso, il meccanismo vincente della pellicola: dal primo all’ultimo minuto (e oltre), sulla vicenda grava un gigantesco punto interrogativo. Carpenter apre con il “non detto”, cioè con un uomo a bordo di un elicottero che spara a un apparentemente innocente husky (l’effetto, a dirla tutta, non funziona al massimo per coloro che conoscono la lingua norvegese: il cacciatore, rivolto agli uomini del campo americano, “spoilera” una frase che significa più o meno “Non è un cane, è una specie di Cosa!”); e chiude con il “non detto”, cioè con gli unici due sopravvissuti alla carneficina generale, McReady e Childs, che decidono, forse, di firmare un armistizio (“Perché non aspettiamo qui ancora un po’ e vediamo che succede?”, propone il personaggio interpretato da Kurt Russel). C’è incertezza. E l’incertezza è figlia della diffidenza seminata dalla creatura mostruosa. L’incertezza, quello stato d’attesa lacerante che preannuncia l’accadimento di un fatto terribile (a tal proposito, urge sottolineare quanta importanza rivesta, nella caratterizzazione di tale sentimento, la colonna sonora di Ennio Morricone), è dunque la cifra dominante dell’opera.

Come è noto, quella di Carpenter è una Cosa di mezzo: accomunate dallo stesso sostrato narrativo, il racconto Who goes there? (1948) di  John W. Campbell, esistono altre due pellicole: La cosa di un altro mondo (1951, di Howard Hawks e Christian Nyby), meno fedele all’originale letterario, e il recente La cosa (2011, di Matthijs van Heijningen Jr), prequel del film del 1982. Solo in Carpenter, però, si produce un cocktail altamente ansiogeno. Perché? Per la maestria registica, certo. Per la bravura degli attori, stelle di prima grandezza come Kurt Russel (attore feticcio di Carpenter) e comprimari di qualità. Per la musica, gli effetti speciali e la fotografia, ovviamente. Ma, soprattutto, per la capacità di toccare alcuni nervi scoperti dello spettatore, specie dello spettatore dell’epoca. Ai più attenti osservatori, infatti, non sfuggirà un fatto: La cosa di Carpenter è un ottimo rappresentante degli horror americani degli anni ’80. In essi, a differenza di quanto avveniva in passato, la chiave della narrazione risiede in una mutazione nel corpo dei protagonisti (anche le evoluzioni tecniche giocarono un ruolo decisivo, dal momento che questi film furono un ottimo pretesto per sfoderare un certo tipo di effetti speciali “antropomorfizzanti”). In qualche modo, Alien (1979) potrebbe essere considerato il precursore di questo filone. Ma Carpenter è andato oltre, “portando” Alien sulla terra, in mezzo agli uomini. I veri protagonisti del suo film, cioè, sono proprio gli esseri umani; umani che vivono sì una situazione particolare (non tutti abitiamo isolati in mezzo all’Antartide), ma che, nella loro vicenda, assumono comportamenti che possono riguardare chiunque.

La creazione di un gruppo virile (non ci sono donne nel film), in particolare, è una situazione tipica della nostra specie. I membri della base si fanno così paradigma di una società sempre più incerta, in cui nessuno può fidarsi di nessuno (homo homini lupus?), in cui non ci si accorda su nulla e in cui dominano le spinte disgreganti e centrifughe. D’alto canto, a pensarci bene, non è forse vero, che gli anni ’80 furono caratterizzati dal disimpegno sociale e dal trionfo dell’individualismo? Insomma, non è esagerato affermare che La cosa è stato in grado di segnare un epoca, rimanendo un film assolutamente godibile e avvincente anche a trent’anni di distanza.

 


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