Dogville PDF 
di Andrea Castelli   

Dogville, l'ultimo discusso film del discusso regista danese Lars Von Trier, entra di diritto a far parte di quella cerchia di opere che, a prescindere dal giudizio sul loro valore artistico, suscitano domande e questioni di portata generale o che vanno comunque al di là del film stesso. In questo caso la domanda che lo spettatore è portato a farsi è: che cos'è il cinema? Oppure, se vogliamo, Dogville è cinema?

La questione è di quelle a cui sono stati dedicati interi volumi, e di sicuro non starò qui ad elencarli; tuttavia possiamo provare a rispondere, e per farlo ci è utile mettere in gioco due diverse concezioni del cinema, o meglio, due diverse modalità di "classificare" il cinema stesso, rimanendo comunque sempre all'interno di una idea "artistica" di cinema. Un primo modo di definire il cinema "in astratto" potrebbe essere questo: "il racconto di una storia per mezzo delle immagini"; in questo senso Dogville è sicuramente cinema, in quanto soddisfa le condizioni implicate in questa definizione. Stando invece a una seconda descrizione, il cinema può essere descritto in maniera per così dire "differenziale" in base a ciò che lo distingue dalle arti vicine, come la letteratura o (ed è proprio qui che volevo arrivare) il teatro; è in quest'ottica che Dogville pone delle questioni di non facile soluzione.

L'ambiente in cui il film si svolge e la scenografia all'interno della quale si muovono gli attori sono in tutto e per tutto, nella loro astrattezza e semplicità, di tipo teatrale; e altresì questa scelta non può essere stata dettata da mere ragioni di budget, ma è evidentemente il risultato di una decisione autoriale (non nel senso di Autore, ma nel senso di scelta registica). Allo spettatore l'ardua risposta, se ritiene di aver assistito all'ultima trovata del cinema d'autore o a un'innovativa rappresentazione di un originale drammaturgo.

A chi ha fatto qualche studio di teatro contemporaneo, Dogville avrà sicuramente richiamato alla mente il drammaturgo polacco Jerzy Grotowski e la sua poetica fondata sull'idea di un cosiddetto "teatro povero"; questo non solo per le scenografie ma anche per il lavoro degli attori, per la loro fisicità, oserei dire carnalità, che viene condotta fino ai limiti della sopportazione.

Si è tanto parlato del fatto che Von Trier abbia voluto fare un film sull'America senza averci mai messo piede. Ma qual è l'America che il regista danese vuole rappresentare? Non è certo quella del nostro immaginario, fatta di grattacieli Monument Valley strade larghe macchinoni lustrini e hot dog. E' piuttosto un'America "europea" in cui la gente non ha affatto l'aspetto che siamo abituati ad associare alle persone d'oltreoceano, ma sembra piuttosto di origine scandinava (l'unica donna di colore porta ironicamente un turbante coi colori danesi). Come a voler dire, se l'America è il Male – e questo il film lo dice chiaramente – noi non illudiamoci di essere tanto diversi. A conferma di ciò il fatto che Dogville non è solo un disperso paese americano, bensì una città-mondo; non c'è niente al di fuori di Dogville, gli altri luoghi sono solo citati ma mai mostrati. Ed è proprio quello del Male il tema centrale del film: la sua ineluttabile presenza nell'animo umano, e l'altrettanto inevitabile tendenza a materializzarsi. Nessuno alla fine si salva, nemmeno l'angelica e sperduta biondina interpretata da una coraggiosissima Nicole Kidman (Grace, nome beffardo…), ma lo sguardo del regista, seppure per nulla assolutorio, sembra non attribuire alcuna colpa diretta all'uomo per lo scatafascio di questi tempi.

 


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