Festival del Film di Locarno: l'immagine e la parola PDF 
Elisa Cuter   

“Le immagini sono presagi e dobbiamo imparare a interpretarle. Se non lo facciamo, entriamo nel mondo delle immagini: il vero mondo del fascismo, razzismo, nazionalismo e patriottismo” (1). Per quanto forte e tranchant possa suonare quest'affermazione, non è inadeguato citarla a proposito della prima edizione de “L'immagine e la parola”, spin-off del Festival del Film di Locarno. Nei quattro giorni di proiezioni e incontri l'obiettivo è stato quello di riflettere sulle immagini, di  imparare a comprenderle e interpretarle. Non solo capire da dove arrivino, da dove nascano quando nascono dalla parola, ma soprattutto chiedersi dove vadano a finire, come possano essere spiegate e comprese, tornando infine a quel logos che è il principio analitico ordinatore che tradizionalmente argina il caos creativo dionisiaco che vediamo all'opera nell'immagine, “sintesi di infinite informazioni” secondo le parole di Aleksandr Sokurov, ospite d'onore della manifestazione.

Se il tema ufficiale era appunto il rapporto tra cinema e letteratura, l'interpretazione che Carlo Chatrian (neo direttore del Festival del Film) ha voluto darne è stata un po' più ampia e per molti versi più interessante, fedele all'idea di un cinema creatore di realtà e di significati altri prima che di riproduzione e mimesi (della realtà o della narrativa). Un concetto che coinvolge non solo la letteratura come arte con cui dialogare. Paolo Benvenuti e la moglie Paola Baroni hanno presentato la loro concezione dell'inquadratura come erede della composizione pittorica, dimostrando la necessità di un'attenta riflessione sulle scelte nel costruire l'immagine cinematografica basata su una profonda consapevolezza del potere emotivo che essa può e deve avere sullo spettatore. Un metodo rigoroso, certo opinabile, ma dal grande merito di evidenziare la responsabilità dell'artista e fare luce sulle competenze che deve guadagnare nel suo lavoro: se la forma, l'immagine, si occupa dell'indicibile, “perdere il senso del rapporti dell'inquadratura è perdere il rapporto profondo tra cinema e spettatore”, ha affermato il regista. Un richiamo alla responsabilità dell'artista molto sentita, anche perché espressa all'interno di un workshop rivolto a giovani film makers: l'immagine è un mezzo potente da adoperare con cura e competenza. Una posizione condivisa da Sokurov, secondo il quale “la composizione è un codice. L'immagine è un codice complicatissimo” (2). Il dibattito sorto da queste riflessioni ha ribadito non solo il ruolo e la potenza dell'immagine, ma soprattutto, e di conseguenza, la necessità che la possibilità di dire, di esprimersi con la competenza necessaria, torni nelle mani dell'artista e non sia più così dipendente delle dinamiche di mercato. Un appello che tutti i partecipanti alle tavole rotonde (i sopracitati Benvenuti, Chatrian e Sokurov, insieme al regista Richard Dindo e all'ex direttore del festival Marco Müller) hanno sentito di condividere, rivolgendo un plauso proprio a istituzioni come il Festival di Locarno, roccaforte per quel cinema che non può contare su un riscontro al botteghino.

L'altra faccia di questo discorso però è il rischio costante di sfociare nel solipsismo, di chiudersi in una torre d'avorio, cioè in un cinema fatto dagli artisti per gli artisti medesimi. Un rischio che sembra evitato dal Festival grazie alle scelte operate nella selezione dei film presentati al pubblico. Tra le quali, in particolare, Bellas mariposas di Salvatore Mereu e Alì ha gli occhi azzurri di Claudio Giovannesi, che vedono nei loro spunti letterari un esempio di arte capace di dialogare con il popolo senza disinteressarsene, né sfruttarlo tradendolo. Sia nelle tematiche (in questo caso l'adolescenza nei sobborghi italiani più poveri e violenti) che nelle scelte espressive, sono un ottimo esempio per un cinema che (oltre a parlare di loro) si rivolge ai giovani, con l'augurio che questi siano capaci, forse, di raccogliere la sfida dei tempi difficili in cui viviamo, in cui sembra che non ci sia più alcun punto di contatto nel divario incolmabile tra “cinema” e “merce audiovisiva” che Aleksandr Sokurov ha presentato. Capaci cioè, come queste opere, di evitare lo scacco dei nostri tempi e muoversi all'interno della dialettica di resistenza e adattamento di cui ha parlato Richard Dindo, che permette non solo di sopravvivere in un sistema ingiusto, ma soprattutto di operare al contempo un mutamento dal suo interno.

Note:
(1) E. Bond, A blast to our smug theatre, in “The Guardian”, 28/1/1995 cit. in S. Kane, Tutto il Teatro, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2000
(2) A. Sokurov, Nel centro dell'oceano, Milano, Bompiani, 2009

 


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