Festa Internazionale del Cinema di Roma: conversazione con Carlo Mazzacurati PDF 
Enrico Maria Artale   

ImageCarlo Mazzacurati ha presentato alla Festa del Cinema di Roma il suo ultimo film, La giusta distanza, secondo molti il migliore dei film italiani proiettati alla Festa; in ogni caso l’unico a ricevere dei premi, anche se soltanto attraverso i suoi interpreti Valentina Lodovini e Giuseppe Battiston. A far le veci dell’attore, per ritirare il meritato premio, il bravissimo Ahmed Hafen (che forse avrebbe potuto vincere il premio per miglior interprete maschile dell’intera manifestazione, andato poi a Rade Serbedzija per il film Fugitive Pieces di Jeremy Podeswa), la cui evidente emozione ha creato uno dei momenti più intensi della cerimonia di premiazione.

Il film sfugge di fatto ad una rigida classificazione di genere, commedia, film sentimentale, giallo e via dicendo; in particolare il passaggio piuttosto improvviso dai territori del sentimento al thriller, se mi passa l’espressione, mi sembra molto riuscito. Eppure alcuni, tra critici e pubblico, da questo passaggio non sono stati convinti: hanno avuto l’impressione che fosse una mancanza di coerenza interna. Volevo chiederle allora come è nata l’idea di introdurre uno scarto così netto nella storia, e anche nel modo di raccontarla, se fosse ricercata quest’improvvisa alterazione dei toni.

Allora premetto che naturalmente non c’era un disegno per non appartenere ad un genere; questa semmai è la conseguenza di un percorso di costruzione della storia. Fin dall’inizio del mio lavoro ho sempre cercato qualcosa che appartenesse più alla definizione della storia di esseri umani piuttosto che ad un confronto più specificamente cinematografico con i generi. Questo mi ha sempre creato difficoltà: quando vent’anni fa ho proposto il mio primo progetto, che si chiama Notte italiana, ricordo che quando incontravo dei produttori a cui mostravo la sceneggiatura rimanevano perplessi, perché non capivano se fosse un commedia, un giallo o qualche altra cosa; ma questa mi sembra una limitazione che dovrebbe essere superata, e invece per qualcuno è ancora faticoso avere a che fare con un film non immediatamente incasellabile. A posteriori c’è sempre una tendenza ad aver bisogno di qualcosa di nitido, e questo francamente mi crea un certo disagio. Ogni storia ha qualcosa di suo e di specifico; questo racconto nasce con questo scarto, è fatto di questa materia qui, di questo squilibrio, o nuovo equilibrio se vogliamo; nella mia esperienza di questi giorni mediamente il pubblico normale si appassiona e si emoziona. È più un problema di chi ha un bisogno impellente di classificarlo.

E pensa che, con il senno di poi, per lo sviluppo dell’ultima parte, quella dell’indagine e del processo, poteva prendersi uno spazio maggiore?

Ripeto, io raramente ho avuto l’impressione di un accoglienza così calorosa per un mio lavoro. Non mi sembra francamente qualcosa di non riuscito, poi certo ognuno può avere la propria impressione.

No, il meccanismo mi sembra molto riuscito, forse qualcuno si aspettava che sulla vicenda giudiziaria si soffermasse un po’ più a lungo. Ad ogni modo, vorrei approfondire con lei alcuni aspetti del film, per non fermarsi a queste considerazioni generali. Come accadeva a volte in altri suoi film, lei utilizza ampiamente la voce narrante, arrivando in certi casi a moltiplicarla, come nel caso delle e-mail. È qualcosa che rimanda un po’ ad un cinema del passato, un po’ alla letteratura, un po’ ad un approccio molto particolare, un modo di lavorare sui personaggi. Volevo chiederle quale fosse la ragione di questa scelta, e come pensa la relazione tra la voce narrante e le immagini. È tutto fissato nella sceneggiatura o gli accostamenti vengono sperimentati e trovati anche in sede di montaggio?

Nello specifico di questo film mi interessava una certa silenziosità del luogo, delle atmosfere, delle separatezze e delle introversioni, che sono in primo piano in questa storia, una certa incapacità di parlarsi specifica della mia terra, in un certo senso. Attraverso la corsa sotterranea, mediante internet, dei pensieri, mi sembrava interessante giocare su questo scarto tra difficoltà di comunicazione diretta e pensieri che sgorgano attraverso le lettere o nella mente del giovane protagonista. In generale è una cosa che mi ha sempre attratto come spettatore, non necessariamente in rapporto alle mie storie; poi bisogna fare i conti con il tipo di progetto, il dialogo con le immagini non dev’essere sovrabbondante o descrittivo e va di volta in volta messo a fuoco. Certo anche il montaggio è una fase dove tutto questo si chiarisce, per cui è vero che la voce fuori campo può essere ipotizzata in fase di scrittura, ma si compie solo a lavoro ultimato. È la stessa cosa che mi succede con la musica, che raramente metto a film montato ma che comincio a far dialogare con il film quasi fin dall’inizio della post-produzione. Molto spesso, se devo lavorare con dei musicisti chiedo loro di potermi fornire la musica prima che io cominci il montaggio, non mi piace questa idea di appiccicare posteriormente la musica, ed è lo stesso con la voce umana. Quando ho molta fortuna la musica mi ha fatto immaginare la scena in base al tipo di emotività che può apportare un brano musicale.

La funzione della voce era piuttosto analoga, in questo senso, anche ne La lingua del santo?

Direi di sì; lì c’è una presenza importante della voce del personaggio di Bentivoglio, che va quasi, lungo il suo percorso patologico, in una specie di controtempo rispetto alla realtà del racconto, come se lui vivesse tutta quella esperienza, che noi vediamo essere una ridicola e grottesca vicenda di rapimento sui generis, come una prova esperienziale, un modo di mettersi in gioco; tant’è che l’arresto per lui corrisponde ad un esito positivo, e tutto questo naturalmente non poteva che scaturire dal suo pensiero.

Nel suo cinema, nel suo trattamento per l’immagine, io ci vedo, senza voler fare dei paralleli inutili e forzosi, qualcosa di viscontiano, per quanto rientrato in qualche modo nella sfera del quotidiano.

In che senso viscontiano?

Nel trattamento dell’immagine: una certa volontà di soffermarsi sulle vedute, un certo estetismo non fine a se stesso, capace di infondere un respiro maestoso alla vicenda. Posso citarle, anche in base alla suggestione lagunare, La morte a Venezia. Al tempo stesso tuttavia, e la contraddizione è voluta, la sfera emotiva dei suoi film ha qualcosa in comune con il primo cinema di Olmi: l’intimità, la riservatezza. Qual è il suo rapporto personale con il cinema di questi maestri?

ImageEh, da un punto di vista della consapevolezza direi che il rapporto è inesistente. Non credo di riuscire a riferirmi a dei film o degli autori specifici quando costruisco il mio lavoro; poi può capitare a posteriori, a distanza di alcuni anni magari, di riconoscere un’idea di cinema, o addirittura delle soluzioni l’origine delle quali è in parte legata alla visione di film molto amati. In tutto questo, pur ammirando molto per esempio quello che ha fatto Olmi nei primi anni, il suo cinema molto libero e indipendente, e senza dubbio alcuni film di Visconti come Ossessione o Rocco e i suoi fratelli, non ho mai stabilito un rapporto così intenso, come magari è avvenuto con altri autori. Forse, se posso cercare di interpretare quel che mi dice, io sono solito utilizzare, non perché sia una strategia ma è qualcosa che succede mio malgrado, una forma il più possibile classica, non solo sul piano visivo ma direi proprio sul piano della costruzione della storia; una forma classica dal punto di vista del racconto e del rapporto tra racconto e sequenza visiva, facendole tuttavia assumere una materia molto quotidiana, e molto vicina al vissuto di chiunque: storie che possono capitare, sia da un punto di vista psicologico che fisico, accanto alla propria abitazione. Cerco di coniugare una forma classica con il racconto quasi minimo di mondi riconoscibili.

Ovviamente si tratta di affinità che noi riscontriamo a posteriori.

Va benissimo, ma io non ne sono consapevole.

Ciò che comunque volevo indicare, indipendentemente dagli autori citati, era una certa compresenza di elementi quasi opposti, un’attenzione per i personaggi in un quotidiano molto intimo, molto semplice, e per questo mi riferivo a Olmi, combinata con una sensazione di un respiro maggiore in gran parte dovuta al trattamento dell’ambientazione, e in questo senso pensavo a Visconti.

Certo, raccontare storie che non hanno in sé alcuna epicità, in una maniera per certi versi epica.

Esattamente quel che volevo dire, in qualche modo ci siamo venuti incontro. Come accadeva ne La lingua del santo le situazioni comiche, o comunque tipiche della commedia, si intrecciano o si accompagnano ad una critica della società. In particolare il suo bersaglio sembra essere una certa posizione di vita degli abitanti del nord-est, siano essi di Padova o della provincia; un ceto sociale, ma non solo, perché il problema non è soltanto legato alla condizione economica; un modo di condurre la propria esistenza, o nel senso più ampio possibile, un’ipocrisia molto pericolosa. Il tutto pur sempre trattato, salvo rari momenti, con ironia o divertimento, un po’ come accadeva nella commedia all’italiana. Tuttavia nel suo cinema chi è al di fuori di questi schemi alla fine ha, in un modo o nell’altro, un riscatto, una sua rivincita. È così per il personaggio interpretato da Bentivoglio ne La Lingua del santo, è così per il l’aspirante giornalista ne La giusta distanza

Non sono però personaggi privi di compromissione, o di errori di valutazione, non sono eroi a tutto tondo…

Assolutamente, anzi schematizzando si potrebbe dire che sono degli antieroi, sempre per voler usare delle etichette un po’ inutili, ma ad ogni modo hanno un loro riscatto morale, non so se si può dire?

Sì, sì, per quanto mi riguarda si può dire, certamente.

Ciò vale anche, nonostante il suicidio, per il personaggio di Hassan. Esce in un modo molto nobile dalla vicenda, ha un suo riscatto positivo.

ImageVede, io ho cercato semplicemente di seguire l’istinto, non mi sono posto degli obiettivi che abbiano a che vedere con l’imposizione di un mio punto di vista; il personaggio di Hassan è un uomo che entra in uno scenario ontologico completamente nuovo, al quale richiede di appartenere, e che lotta in se stesso con un retaggio più antico, capace di apportare sia aspetti positivi che negativi, anche se l’espressione è riduttiva. Anche lui infatti si manifesta con un forma di turbamento, è come se partisse già sconfitto; cercando di comprendere meglio la sua figura, dopo aver scritto la sceneggiatura ho parlato con ragazzi che potrebbero avere una analogia con lui, persone che lavorano qui da tanto tempo, che hanno un’affermazione professionale, ma che si guardano attorno da un punto di vista esistenziale.

Riflettendo a posteriori sui suoi film, pensa di essere in un certo senso ottimista, pensa che alla fine, nella realtà, l’ipocrisia e la bassezza morale non paghino? Oppure nei suoi film offre ai suoi personaggi una possibilità che nella vita difficilmente avrebbero, auspicando così, in qualche modo, un cambiamento delle cose?

ImageÈ sempre difficile essere in sintonia con il pensiero comune, ma io quest’ultimo film non l’ho vissuto come un racconto pieno di ottimismo. Se penso ad altri miei film è come se qui si registrasse un tempo più difficile: emerge un quadro apparentemente pacificato ed equilibrato ma che invece mi sembra nascondere, nell’indifferenza, un’inquietudine e un vissuto dominato da qualcosa di negativo; registra sensazioni accumulate in questi ultimi anni attorno a quella che in senso lato si può definire l’esistenza nel nord Italia, in relazione ad una serie di cambiamenti vertiginosi che comportano conseguenze nel vissuto della gente. L’impatto di una certa modernità, che può presentarsi sotto forma di oggetti o usi, porta uno squilibrio profondo in questa popolazione piuttosto arcaica; in opposizione a ciò il vissuto del meccanico, nonostante l’esito doloroso, rappresenta maggiormente una coerenza interiore, rispetto al proprio modo di vivere. Mi sembrano molto più inquieti e infelici, anche se circondati dal benessere, gli autoctoni.

Due sequenze del film, tra loro abbastanza simili, mi hanno decisamente colpito. La prima, quando tutti osservano l’anziana maestra passare sulla chiatta; la seconda, quando tutti osservano il corpo della ragazza uccisa: in entrambi i casi si tratta di uno sguardo della comunità. Mi sembra che queste due sequenze possiedano molteplici piani di senso: da una parte vedo una critica rispetto all’interesse del pubblico per il dramma, dall’altra vedo un sentimento di comunità che si costituisce proprio di fronte al dramma stesso. E vi si può riscontrare anche un’indifferenza di fondo, forse. Vuole parlarmi di queste due sequenze?

Questi due aspetti che lei ha menzionato, lo sguardo oggettivo che è nel contempo coeso e indifferente, sono rintracciabili nella mia esperienza e nel vissuto attorno a certi fatti o a certe storie accadute. Nel primo caso, per come ho cercato di costruire la sequenza, nello sguardo verso questa vecchia maestra, che è stata la maestra di tutti con tutta una sua relazione emotiva, un modo di stare al mondo che forse fa parte del passato, in questo caso anche loro sono visti da lei, perché per quanto folle rimane dotata di un punto di vista, un punto di vista che in qualche modo può tornare ad essere quello di una piccola autorità morale capace di osservare una popolazione che si sta perdendo. Nel secondo caso, essendo la ragazza, ahimé, un oggetto inerme, c’è forse apparentemente una pietas, che convive nello stesso tempo un’estraneità profonda, come se gli elementi intimi raccontati dal film fossero guardati con distacco, perché troppo lontani dal modo di vivere i sentimenti che ha questo tipo di comunità.

Ha ragione, avevo sottovalutato il fatto che anche la maestra guarda gli altri, e il suo punto di vista esterno illumina diversamente lo stato delle cose, è una delle funzioni antropologiche del folle, se non, come avviene in tanti libri, dello “scemo del paese”. Ad ogni modo, nel fatto che in entrambe le sequenze i personaggi corrano verso l’evento, corrano per guadagnare la migliore posizione per assistervi, letteralmente da spettatori, in questo coglievo un velato riferimento critico a questo spasmodico interesse del pubblico per tutto ciò che è sensazionale, il folle, il cadavere, quest’ansia televisiva di partecipare alla malattia o al delitto come se fosse uno spettacolo destinato a tutti.

Sicuramente; si corre per consumare qualcosa che poi si dimentica rapidamente.

ImageProseguendo in questa riflessione metacinematografica che può svilupparsi a partire dal suo film volevo chiederle qualcosa sul titolo: La giusta distanza è nel film una regola che il caporedattore vuole trasmettere al giovane giornalista. A parte questo le chiedo se, in qualche modo, “la giusta distanza” non è anche, ad oggi, il problema fondamentale del cinema, il parametro della sua eticità: dover trovare di volta in volta la giusta distanza, in senso letterale e non, tra la macchina da presa e il soggetto da riprendere. E ancora volevo chiederle se non pensa che l’idea di poter mantenere un certo distacco imparziale di fronte alla realtà, per un giornalista come per un regista, sia un’illusione, e che forse la propria presenza, il proprio essere in gioco, il proprio partecipare alla formazione della notizia o dell’immagine non vada in una certa misura dichiarato esplicitamente.

Questa è una lettura molto articolata, e molto soggettiva.

Più che una lettura è una suggestione che le ripropongo in relazione al suo lavoro, senza voler procedere ad un’interpretazione del film.

ImageHo capito; allora, andando al di là del significato del titolo in funzione del film, parlando della casualità che innesca il titolo come aspetto di posizione in generale, c’è un problema che è insieme etico ed estetico, e quando le due cose si sovrappongono significa che ci si sta chiedendo nella maniera giusta cosa si deve fare quando si racconta una storia; la posizione esatta non è solo quella nel rapporto tra la macchina da presa e l’oggetto, ma è anche nella costruzione del  racconto, e credo sia qualcosa su cui riflettere di volta in volta: il mio film Vesna va veloce racconta l’arrivo in Italia di una ragazza che viene dall’Est, e il percorso che compie, nella speranza di riscatto, di ritrovamento di una sua posizione sociale, e non solo; somiglia in questo a certe eroine dei romanzi francesi dell’Ottocento. In quel film mi sono posto il problema della posizione che io, come narratore, dovevo assumere verso questo personaggio, perché ad essere sincero io questo personaggio lo conoscevo poco; ne ero molto colpito, attratto, però nello stesso tempo la sua intimità fino in fondo non l’ho mai potuta approfondire e ho cercato di raccontare anche questo: che la sua anima non era svelabile. Il suo modo di mentire, quando racconta anche ciò che lei sta facendo, non svela il suo profondo stato d’animo. Mi sono posizionato alcuni palmi distante da lei, raccontando ciò che vedevo senza valicare la soglia dell’intimità. In altri casi questo è venuto meno a causa di un’identificazione, nel senso che io quasi inconsciamente sono migrato emotivamente all’interno di uno dei personaggi. Avviene spesso, non mi chieda perché, con gli adolescenti, ma mi sento più prossimo a loro, anche nella semplicità: penso di aver guardato questo film dal di dentro, sovrapponendomi allo sguardo di questo ragazzo, e questo può voler dire muoversi a seconda del progetto.

E rispetto alla regola del giornalista, né troppo lontano, né troppo vicino?

La regola è una regola che, quando mi sono imbattuto in professori, maestri, o altre autorità, mi è sembrata appartenere ad una normalizzazione; e in un certo senso tutto ciò che io ho fatto l’ho fatto con la consapevolezza della norma, ma andando in una direzione contraria, cercando una mia personale regola; forse quella regola dei generi di cui parlavamo prima è una di quelle che ho sempre disatteso. Apparentemente il giornalista parla della giusta distanza, ma quello che vuol dire in realtà è soprattutto di non essere troppo vicino, di non farsi coinvolgere troppo; credo che invece un ragazzo debba appassionarsi moltissimo a quello che fa. Insomma quando mi capita di incontrare dei ragazzi che vogliono fare questo lavoro, quello che mi viene da consigliare è di buttarsi il più possibile, di vivere emotivamente il rapporto con quello che si vuole fare, di crederci molto.

In termini strettamente cinematografici dunque l’idea di una imparzialità non è possibile neanche per un cinema molto realista.

Assolutamente no, almeno dal mio punto di vista. Cerco di non esser il più possibile portatore di prese di posizione, cerco di registrare quello che mi appare, cerco di trasferirlo in un racconto; sono spesso accusato di non portare alle estreme conseguenze la malvagità umana, e usano quest’espressione, che è quella che più detesto: “buonismo”. La trovo l’espressione del cinismo cosmico, la parola buonismo, sottende al fatto che in fondo un sano cinismo e una buona cattiveria sono qualcosa di positivo: questo francamente mi fa orrore, perché dimostra che una certa purezza è identificata con l’idiozia, per cui abbiamo ad esempio dei politici che ci sono più simpatici nella misura in cui sono dei furbacchioni, e via dicendo. È qualcosa di specifico del nostro paese, e francamente, ripeto, mi fa orrore.

Qual è secondo lei ad oggi la situazione del cinema italiano? Esiste quella ripresa che i media  continuano esasperatamente a celebrare?

ImageNé la ripresa, né la sua morte. Il cinema è qualcosa di molto acuto in questo paese, è rivelatore dello stato di salute del paese, è profondamente specchio della società; quindi, quando la società è stata espressione di grande vitalità, energia, come nel dopoguerra, il cinema ha trovato nel Neorealismo una forza straordinaria, capace di affascinare il mondo intero, ma non rispecchiava una società che aveva una vitalità enorme e una grande voglia di riprendersi? Questo è un tempo di scarsa energia, nel mondo in generale e in Italia in particolare; il cinema si adegua, il che non significa che ci siano buoni o cattivi film, ma che purtroppo il rapporto con il cinema non sa restituire lo stato della società. Ciò che si fa mi sembra in ogni caso quantomeno onesto, poi ci sono tentativi più o meno riusciti in questo senso.

Gli scenari del futuro potranno dunque cambiare in relazione ai mutamenti complessivi della situazione italiana, non soltanto in ambito cinematografico?

Molto. Ciò non significa che non esistano personalità in grado di porsi al di sopra della situazione, come Fellini, che pur specchiandosi nel quadro sociologico è stato importante per il mondo intero, parlando dei sogni, dei desideri, dell’uomo. In questi ultimi anni ci sono stati anche degli autori, la cui forza è stata in un certo senso la conseguenza del contesto: Nanni Moretti per alcuni ha avuto questa valenza.

Cosa ne pensa di questa Festa del Cinema di Roma?

Un impegno complesso; il fatto che tante persone hanno visto tanti film mi sembra un dato importante. Forse questa crescita così rapida e imponente può aver avuto per alcuni un effetto disorientante, nel panorama cinematografico, non saprei. Mi sembra giusto però che il luogo naturale dove in qualche modo il cinema italiano è nato e si è sviluppato, artisticamente e artigianalmente, fosse anche la città dove fare un momento di celebrazione.

 


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