Kurosawa Kiyoshi: quando l’orrore è normale e il cinema ambiguo PDF 
Angela Cinicolo   

Un’incursione lenta e incessante avviata oltre trent’anni fa con una produzione formidabile che ha messo a segno fin dall’inizio avveniristiche visualizzazioni e sperimentali espressioni di un terrore raccapricciante quella di Kurosawa Kiyoshi, la cui vocazione si è rivelata essere una perturbante rappresentazione della realtà che può sfuggire all’occhio ma non alla macchina da presa. Tra V movies realizzati in Super 8 direttamente per il mercato dell’home video e workshop di sceneggiatura durante festival come il Sundance, tra ghost story, horror e contaminazione degenere, il cinema di Kiyoshi inghiotte ogni varietà per rifluire in aberrazioni imprevedibili e fantasmagoriche che strozzano le identità e deteriorano il tempo.

Il successo arriva per lui quando l’industria cinematografica giapponese ottiene numerosi consensi in occidente, riuscendo a soddisfare l’interesse e l’entusiasmo del pubblico verso una cultura e a una visione del mondo tanto differenti, proponendo seishun eiga (film sui giovani), che inficiano l’integrità della generazione del nuovo millennio ribaltando le aspettative degli europei, film impregnati di un erotismo disinvolto e deflagrante come quello di Shinya Tsukamoto, gli anime che iniziano a perdere gli occhi a mandorla, i saiko horā (psycho horror) basati su smembramenti truculenti come per Takashi Miike o su allucinazioni inquietanti, come quelli, appunto, di Kurosawa Kiyoshi. Tra le chiavi di decodifica di un talento che sforbicia l’ordinario, una deflagrante licenza di far paura. Se in Charisma (1999) e in Pulse (2001) siamo di fronte ai sopravvissuti di una multimedialità carnefice che priva di certezze, di un’innovazione che si congestiona con il recupero filtrato da una tecnica del découpage applicata al tema piuttosto che al montaggio, Bright future (2003) ha un portato diverso e vira verso un esito rivoluzionario giovanilistico, perpetrando una riflessione sulla valenza della comunicazione e sulle drammatiche conseguenze della sua perdita.

Eppure è così compito e pacato Kurosawa Kiyoshi che a vederlo sembra difficile immaginare che sia la mente inventiva di quei film nebulosi e tortuosi tacciati d’incomprensibilità da spettatori poco inclini ai relativismi. Viceversa, nessuno si perde mai nel dedalo delle sue opere, nelle immagini surreali delineate da riprese perfettamente geometriche che ritagliano particolari frangenti della realtà, nelle scene visionarie di episodi assurdi e quotidiani caratterizzati da un’imprevedibilità tutta lynchiana, da un’indeterminatezza che carica a ogni gesto la suspense e dall’assenza di effettismi snaturalizzanti, negli ambienti urbani disgregati che risucchiano nelle loro viscere gli uomini. “Sono gli esseri umani che sono così complicati, non sarebbe naturale se fosse tutto più facile da spiegare”, afferma il cineasta.

Ha esordito con pinku eiga (soft core per intenderci), realizzato yakuza movie e ha riscosso successo con i saiko horaa. E’ stato l’horror ad aver scelto lei o è stato lei ad aver scelto questo genere?

No, non ho scelto deliberatamente l’horror, non si può dire che sia il mio genere preferito. Volevo solo provare anche con altri generi. E lo farò ancora in futuro.

Ha intenzione di confrontarsi ancora con generi diversi come ha fatto Takeshi Kitano?
Come Kitano, sì. Passare da film drammatici a comici ma non come ha fatto lui. Lui ha realizzato Zatoichi, un film chanbara un film su samurai ma anche un musical. Io non lo farei così: a me non piace unire più generi all’interno di uno.»

Lei crede che la differenza tra l’horror americano e quello giapponese sia nel rapporto tra l’alterità e gli uomini. La produzione di Hideo Nakata rispecchia più una versione occidentale del male: sono i fantasmi a dare la caccia ai vivi. Il popolo orientale invece convive tranquillamente con essi. Cos'è allora che fa veramente paura ai Giapponesi?
Quello che incute paura al nostro popolo non è tanto la mostruosità. Si fa paura ai bambini parlandogli di obake(mostro-fantasma), ma gli adulti temono il senso dell’ignoto, il mistero, la morte, ciò che non possono vedere con gli occhi.»

Il cinema americano degli anni ’70, il police e l’action movie hanno determinato la sua passione per il cinema da giovane. Qual è oggi il suo rapporto con il cinema hollywoodiano?
Negli ultimi anni ho apprezzato molto le produzioni recenti di Spielberg e i film di Clint Eastwood che ritraggono in maniera perfetta l’interiorità umana, gli aspetti complicati dell’animo umano.

Che rapporto si è stabilito attualmente tra il cinema dell’Estremo Oriente e quello europeo/americano? Le major nipponiche tendono maggiormente a spingere i registi verso una contaminazione di generi o cercano di rafforzare un’estetica propria?
Io credo che la tendenza recente sia concentrarsi sul cinema nazionale piuttosto che su quello occidentale. Tuttavia l’ideale sarebbe trovare un giusto equilibrio tra entrambi.

Il suo cinema spesso è stato paragonato a quello di Takashi Miike per il coraggio della sperimentazione. Miike ha contribuito alla serie televisiva Masters of horror. Cosa farebbe se le proponessero di dirigerne un episodio?
Accetterei. Sarei onorato di accogliere questa proposta ma a una condizione: avere carta libera. E’ importante per un regista avere la libertà che gli permetta di esprimere la propria visione del mondo.

E’ un cinema sorprendente quello di Kurosawa Kiyoshi, che si sviluppa in una spontaneità consapevole e si districa tra gli altri emergendo con il suo individualismo, entrando nella mente dello spettatore e insinuandovi il dubbio che quella che gli sta davanti sia una realtà che sarebbe diversa se spostasse di un solo centimetro il suo sguardo.

 


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