Etiche di frontiera: due ideologie a confronto in attesa di un treno per Yuma PDF 
Gianmarco Zanrè   

ImageEsisteva un tempo, come si direbbe sulla frontiera, in cui tutto pareva affettato dal vento, tagliato come l’aria da un proiettile sparato un secondo troppo presto, o troppo tardi, vissuto come veniva, o come direbbe il William Munny de Gli spietati, sopravvissuto, e basta. Da queste stesse terre proviene il film più rappresentativo di Delmer Daves, Quel treno per Yuma, portato di nuovo sullo schermo dal recente remake hollywoodiano firmato da James Mangold, un western “per definizione” che ha nel suo DNA tracce evidenti della lezione del di poco precedente Mezzogiorno di fuoco: se, infatti, la pellicola di Daves (tratta da un racconto di Elmore Leonard) parte da presupposti dal respiro fordiano, pare evidente da subito l’approccio etico che il regista tiene ad imprimere al suo lavoro.

ImageIl meticoloso operato sui protagonisti, ben evidente sin dalle prime scene, mette infatti in risalto un dilemma che non separa soltanto eroi e criminali, buoni e cattivi, come semplicisticamente e troppo spesso viene ridotto il genere western, bensì scelte tutte umane che, principalmente, riguardano la sopravvivenza in una terra che, allora, poteva definirsi senza dubbio “di nessuno”, una sorta di wasteland di soffocante bellezza nella quale soltanto il più forte, o il più accorto, potevano sperare di sopravvivere. La sopravvivenza, dunque, come tema principale legato a Dan Evans, co-protagonista, con il fuorilegge Ben Wade (un sempre affascinante Glenn Ford), della vicenda narrata: una scelta mai così azzeccata, che non solo caratterizza i personaggi principali, ma la stessa pellicola, cadenzata da un ritmo serrato e da un montaggio capaci di privare lo spettatore del respiro almeno fino alla conclusione, scioglimento perfetto di una trama che, come già ricordato, non è immemore della lezione di stile, tecnica e regia del perfetto capolavoro di Zinnemann Mezzogiorno di fuoco, che quasi “in tempo reale” (seguendo la tecnica usata dal grande Robert Wise nell’ancora precedente Stasera ho vinto anch’io) narra il duello della vita di Will Kane.

ImageL’intera vicenda del film, infatti, sviluppata nell’arco di quarantott’ore, trova il suo climax nelle ultime dieci, quando l’escalation del confronto verbale fra l’Evans carceriere “forzato” e il prigioniero Wade assume le proporzioni del confronto di due filosofie di vita, quasi fosse un trattato o un’indagine etico/sociologica. Evans, contadino schiacciato dalla siccità e dal lavoro, umiliato dalla sola idea di un prestito, o della pietà di moglie e figli, costretto per denaro a fare da guardia, nell’attesa del famigerato treno che possa condurre il suo prigioniero ad una prigione più sicura, e Wade, criminale incallito e glaciale, socievole e carismatico leader, nonché conquistatore di donne. Due scelte, filosofie, vite a confronto: da un lato la logica del lavoro delle braccia e la fiducia in una Natura identificata con il Dio delle preghiere prima della cena, il rispetto del prossimo e la ferma convinzione di non abbassare il capo per un altro, sia esso padrone o creditore; dall’altro la fiducia in se stessi e nelle proprie mani come strumento assoluto del Destino, al di sopra delle regole dell’uomo e di qualsiasi Dio, con la consapevolezza di essere soltanto di passaggio e, di conseguenza, di godere del momento, sia esso costituito da una donna, dal denaro o dalla gloria. Un contadino e un rapinatore. Due mondi distanti, due vite agli antitesi.

ImageEppure, minuto dopo minuto, inchiodati alle poltrone in attesa di un treno che pare, pur puntuale, giungere sempre troppo tardi, la distanza che separa i due protagonisti sembra colmarsi, come quella tra lo spettatore e il solo apparentemente freddo e serrato lavoro di regia: perché Evans e Wade sono uomini soli di fronte al Destino, ed entrambi, pur non ammettendolo, appaiono ben coscienti di obbedire a regole non scritte di rispetto e, per quanto assurdo possa suonare, umanità. Il Ford de L’uomo che uccise Liberty Valance racconta che nel West, quando la leggenda incontra la realtà, vince la leggenda, eppure, una volta ancora, la pellicola di Daves dimostra chiaramente il contrario, e lascia i cowboys e gli indiani a un sempre troppo semplicistico immaginario collettivo, per anticipare, e di gran lunga, gli antieroi che soltanto Penn, Peckinpah e Altman cominceranno a riscoprire vent’anni dopo, e che, prima Cimino e poi Eastwood, nel ventennio ancora successivo, consacreranno, ribaltando l’antico detto del padre del western cinematografico. Un western che non insegue icone o eroi leggendari, ma che, una volta di più, descrive uomini - e donne, troppo semplicistico relegare la figura della moglie di Evans a semplice comprimario - alla ricerca di qualcosa per cui continuare a lottare, un mito che mito non è, ma che trova riscontro nella realtà di una famiglia, del desiderio di un futuro che non riesce a consumarsi più lontano di sei mesi da quando lo si è immaginato. A pensarci bene, e un altro merito si aggiunge ai tanti di quest’opera, quanto pare cambiato da allora ad oggi?

ImageL’attualità di una pellicola determina, in qualche modo, il suo valore intrinseco, capace di sopportare la prova più difficile dopo quella del confronto con lo spettatore - il tempo - e, anche a distanza di cinquant’anni, descrivere a tutto tondo dinamiche che potremmo ritrovare anche in un mondo profondamente cambiato come quello in cui viviamo ora. Straordinario, in questo senso, l’apice del confronto fra i due protagonisti all’interno della stanza d’albergo, nel momento in cui Wade, celato dietro la sua aura di criminale senza perdono - e di nuovo torna alla mente l’ultimo capolavoro eastwoodiano - confessa provocatoriamente al suo antagonista il desiderio recondito di costruirsi, un giorno, una famiglia come la sua, memore di una cena alla loro tavola consumata nonostante tutte le differenze, più che sociali, di credo rispetto alla vita stessa: Evans remissivo, Wade attivo, disposto a sacrificare qualcosa solo ed esclusivamente a se stesso. Simile approccio, ribaltato nelle parti, si ha nel momento in cui il contadino, tiratore infallibile ma devoto a terra e famiglia, di fronte alla promessa di una nuova evasione da parte dell’avversario, non ha che da replicare: “Il mio lavoro termina a Yuma”, lasciando, in un modo o nell’altro, campo libero ad una nuova fuga del suo rivale. Eppure entrambi, pur se in modi diversi, avranno rischiato la vita.

Tecnica e profondità. Questa era la “frontiera”. Quella che è sparita. O che forse, e tutti noi lo speriamo, si è solo nascosta, coprendo le tracce, in attesa di un avversario che riuscirà a portarla di nuovo in campo aperto. Come ne Il mucchio selvaggio, così in Heat, quando il richiamo della sfida sarà lanciato, speriamo sempre che qualcuno, da una parte all’altra della macchina da presa, sarà pronto a rispondere “I’m in!”. Se loro saranno della partita, noi faremo di tutto per esserci, una volta ancora.

 

SCHEDA FILM

TITOLO ORIGINALE: 3:10 to Yuma REGIA: Delmer Daves SCENEGGIATURA: Halsted Welles FOTOGRAFIA: Charles Lawton Jr. MONTAGGIO: Al Clark MUSICA: George Duning PRODUZIONE: USA ANNO: 1957 DURATA: 96 min.

 

 


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