Noi Credevamo PDF 
Matteo Marelli   

Il verbo all’imperfetto contiene in sé il carattere di indeterminatezza: è il tempo sospeso, degli stadi liminali, che non ammette il raggiungimento finale dell'azione. Generalmente definito come il tempo del semplice tentativo, l’imperfetto serve a indicare  un  qualcosa che  poteva  o doveva succedere ma non è successo. Queste non sono soltanto suggestioni che il titolo Noi Credevamo potrebbe evocare, ma il vero e proprio tema centrale dell’ultima regia di Mario Martone.

Presentato alla 67° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, ispirato ad alcuni passaggi “liberamente rielaborati” dell’omonimo romanzo di Anna Banti e in parte ad alcuni fatti storici fedelmente riportati, Noi Credevamo riflette sulle lotte d’unità nazionale cominciate con i primi moti risorgimentali e concluse nel 1870 con la presa di Roma e la sua annessione al Regno d’Italia sotto la corona sabauda. Questa è la cornice storica dentro la quale si muovono i protagonisti, tre ragazzi del Cilento, Domenico, Angelo e Salvatore, di diversa estrazione, spinti dalla repressione borbonica ad abbracciare un’idealità antimonarchica e popolare che ha nella Giovine Italia mazziniana la sua espressione più compiuta. Perché, come ricorda Alessandro Leogrando, quello delle Due Sicilie non era un regno fiorente e liberale, come sostengono alcuni che vorrebbero riscrivere il nostro Ottocento, e i Borboni repressero “nel sangue la Repubblica romana, e fecero spegnere nelle loro galere decine, centinaia delle migliori intelligenze meridionali” (1).

Scegliendo come figure chiave tre patrioti democratici del Sud, Martone indica subito quale prospettiva intenda adottare per affrontare la rilettura del Risorgimento. Il regista rivolge la propria attenzione a quegli eventi e a quegli uomini abitualmente confinati ai margini delle rappresentazioni nelle pagine ufficiali della storia patria, preferisce raccontare gli avvenimenti “maggiori” indirettamente, di richiamo. Il processo d’unificazione è mostrato come un lungo procedere di tentativi falliti e di cospirazioni logoranti. I suoi personaggi, costretti in un frustrante isolamento che li rende incapaci di riporre fiducia l'uno nell'altro, sono in balia di molte idee altrettanto confuse. A  Martone non interessa mettere in scena gli eventi risolutivi, vuole lavorare sui quei momenti, quelle situazioni poco affrontate dalla storiografia istituzionale che è solita promuovere un Risorgimento moderato e annessionista. Per il regista il Risorgimento è stato un “teatro di guerra”, come quella fratricida combattuta in Aspromonte nel 1862 conclusasi con i piemontesi che presero a sparare sui garibaldini, spargendo morti. Così come i grandi eventi dell’epopea risorgimentale sono trattati a mo’ di echi lontani, allo stesso modo i protagonisti del periodo sono solo nomi, ombre, presenze fantasmatiche lontane dal centro dell’azione, chiusi nella penombra dei salotti, spinti nell’altrove dell’esilio. Mazzini è un profeta isolato e dolente, visionario e tormentato, condannato all’impotenza dalla sua condizione di esule. Crispi è una sagoma oscura, ambigua e inquietante, che si muove per vicoli ciechi, cupi e angusti, a tramare collusioni criminose. Cavour e i Savoia sono evocati, ma mai presenti sulla scena, costretti al fuoricampo. Lo stesso Garibaldi non è altro che un’apparizione notturna, ispiratrice, stagliata su una rupe. A differenza di Angelo, Domenico e Salvatore che corrono, agiscono, finiscono in prigione, le grandi figure della Storia sono ritratte da Martone in maniera statica, distanti dal vibrare della vita e della lotta.

Il regista sceglie di affidarsi ad un percorso antiretorico e antieroico, si smarca dai toni enfatici dell’epica risorgimentale, così come dalla diligente rievocazione cronologica, e cerca piuttosto di far emergere lo spirito controverso dell’epoca. Noi Credevamo è un saggio di storiografia non ufficiale, che affonda nelle pieghe e nelle piaghe di un’Unità d'Italia già tarata nelle sue fondamenta dai molti equivoci di fondo, ma soprattutto dal mancato amalgama delle tante forze che vi contribuirono. Emblematiche le sequenze all’interno del carcere politico di Montefusco, dove miseria e nobiltà, nonostante condividano il medesimo status di “sovversivi”, rifiutano di compattarsi persino nella comune tragedia delle prigioni borboniche. Ciò che è mancato è stato un reale sentire comune capace d’innescare un processo di educazione civile, necessario punto di partenza da cui avviare un compatto movimento irredentista. Perché, come ricorda la principessa Cristina di Belgiojoso, un popolo non può essere semplicemente dichiarato libero, senza averlo prima reso consapevole degli esatti confini tra schiavitù e libertà. Martone dipinge l’alba della nazione con tinte crepuscolari. Nel suo procedere, la Storia è fotografata con travolgente cupezza, i luoghi si fanno sempre più angusti e tormentati, gli ambienti, da nascondigli dove si prepara l’azione, diventano tane in cui ci si ritira dopo il fallimento. È così che appare il parlamento nella splendida sequenza finale. Domenico, unico sopravvissuto, vi arriva da reduce, da sconfitto, disposto a rintanarvisi pur di sopravvivere. Ma una volta trovatosi all’interno, di fronte agli scranni vuoti, ha visione dell’orrore della recita politica. Incapace d’accettare e di farne parte, donchisciottescamente si volta ed esce di scena. L’analisi storica di Martone è impietosa ma necessaria, per lui è nella mancata rivoluzione risorgimentale che bisogna rintracciare le ragioni per cui anche oggi l'Italia è un paese in lotta con se stesso.

Come dichiarato dallo stesso regista, grande fonte d’ispirazione è stato Roberto Rossillini, il modo in cui ha utilizzato la Storia al cinema e come l’ha filmata. Viene a mente il Rossellini televisivo, quello di La presa del potere da parte di Luigi XIV, dove la Storia non è un travestimento ma il vero tema del racconto. Martone fa sua la sfida rosselliniana di riuscire a proporre la Storia come se stesse realmente accadendo, per la prima volta, di fronte agli occhi dello spettatore. Il realismo di Martone, così come fu quello di Rossellini, è un realismo del pensiero, che lo pone al di sopra di ogni forma d’imitazione della realtà. Come fece Rossellini con La presa del potere da parte di Luigi XIV anche Martone riesce ad elaborare uno stile che, pur attraverso il costume e la cornice di un’epoca, mantiene intatto il sapore di verità.

Note:
(1) Alessandro Leogrande, Noi credevamo, http://www.minimaetmoralia.it/?p=3165#more-3165, 2010.

TITOLO ORIGINALE: Noi Credevamo; REGIA: Mario Martone; SCENEGGIATURA: Giancarlo De Cataldo, Mario Martone; FOTOGRAFIA: Renato Berta; MONTAGGIO: Jacopo Quadri; MUSICA: Hubert Westkemper; PRODUZIONE: Italia/Francia; ANNO: 2010; DURATA: 204 min.

 


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