I pieni e i vuoti: il cinema di Gabriele Salvatores PDF 
Aldo Spiniello   

È davvero difficile approcciarsi al cinema di Gabriele Salvatores senza fare i conti con il suo status di "personaggio". Perché il regista milanese, nel corso degli anni, ha visto crescere la sua popolarità, anche a discapito della qualità effettiva dei singoli film. È innegabile che Salvatores sia circondato, più di tanti altri, da una sorta di aura autoriale che fa di ogni sua nuova prova un termometro dello stato di salute del cinema italiano. È un po’ lo stesso discorso che si può fare per Giuseppe Tornatore (e non è un caso che abbiano vinto entrambi un Oscar). E che è si può estendere ad altri registi della generazione successiva, come Sorrentino, Garrone, in parte lo stesso Muccino. Forse, molto semplicemente, il segreto di questa autorevolezza riposa sul fatto che questi registi hanno avuto la capacità di farsi amare dal pubblico, prima ancora che dalla critica. Salvatores ha sempre cercato di coniugare le esigenze commerciali con le presunte vocazioni autoriali. E, in questo senso, può essere considerato un regista "classico", se il termine viene inteso non come un’accezione stilistica e tecnica, ma come dato storico di un raggiunto equilibrio tra industria e arte. Aldilà, quindi, delle spinte off o, forse, più precisamente postmoderne del suo cinema. Ma procediamo con ordine.

Nato nel 1950 a Napoli e trasferitosi ben presto a Milano, Salvatores si forma nell’ambiente teatrale della città, tra il Piccolo e l’accademia Paolo Grassi. Negli anni Settanta fonda il Teatro dell’Elfo, realtà votata all’avanguardia e alla sperimentazione. È in questo contesto, naturalmente, che affondano le radici del futuro cinema di Salvatores. È qui che il regista intreccia i legami fondamentali, è qui che comincia a definirsi la sua famiglia/compagnia, un’intera generazione d’interpreti che si è fatta le ossa sul palcoscenico e sulla ribalta poco illuminata dei cabaret. E il teatro rappresenterà sempre un punto di riferimento irrinunciabile, una sorta di luogo dell’anima, come testimonia Turné o anche l’ultimo Happy Family, che si apre sul sipario chiuso di un teatro in miniatura. Con tutto quello che ne consegue, nel bene e nel male … la sensazione insanabile di una frattura, di una mediazione tra l’immagine e lo spettatore, incarnata nel corpo dell’attore e nell’idea di messa in scena.

Il primo film, manco a dirlo, è proprio d’ispirazione teatrale: Sogno di una notte d’estate (1983), rivisitazione in chiave musical del testo shakespeariano, che manifesta, tra l’altro, il gusto per un certo tipo di cinema americano anni Settanta, notturno e metropolitano. Ed è un gusto, che, seppur tenuto sotto traccia, continuerà ad alimentare il cinema di Salvatores, fino a farlo diventare, nei suoi momenti migliori, uno sguardo vivo sulle città e sugli ambienti. Kamikazen – Ultima notte a Milano (1987): già nel titolo la città protagonista, ancor più degli uomini. Strade, case e luoghi che assomigliano a persone … è lo spazio che prende il sopravvento, che permea di sé l’azione scandendone i ritmi, e che ridefinisce l’orizzonte lungo cui si muovono le vite dei personaggi. È questo il vero cuore segreto della trilogia inaugurata con Marrakech Express (1989) e proseguita con Turné (1990) e il film premio Oscar Mediterraneo (1991), trilogia che delinea con maggior compiutezza la poetica di Salvatores. Il viaggio e l’avventura come miti, tragitti di un moto spaziale che si fa, per forza di cose, temporale. Avanti e indietro: verso un futuro incerto con lo sguardo rivolto ad un passato, alla dimensione aurorale della giovinezza e degli anni Settanta, gli anni della ribellione e dell’amicizia fraterna. L’ansia di libertà e la ricerca inquieta di un precario equilibrio identitario fanno il paio con la nostalgia, a formare il nucleo emotivo di un cinema che sembra "soggettivo", ma che in realtà ambisce a raccontare una generazione e un ambiente (un tempo e uno spazio sociali).

Ma, forse, proprio misurandosi con quest’ambizione, lo sguardo di Salvatores incontra i suoi limiti. Perché la prospettiva resta fin troppo soggettiva e non riesce a compiere definitivamente il secondo movimento. E mentre arriva ad abbracciare lo spazio, non giunge a cogliere il tempo, se non in maniera mediata, facendo appello ad un immaginario che sembra fondarsi più su luoghi comuni che su una comunanza (condivisione) di luoghi ed immagini. Il mondo di Salvatores, pur con il suo fascino, appare abitato e passato, ma mai vissuto fino in fondo. Per non apparir fumosi, basta dire che la contestazione, il ribellismo, il sogno di libertà, certi miti sembrano sempre ridotti ad un stereotipo adolescenziale e cialtronesco, che incontra il sorriso, ma non sfiora le emozioni. Resta, in ogni caso, il tentativo di confrontarsi con un immaginario, e, quindi, di rimando, con tutta una serie di influssi narrativi, cinematografici, musicali, pop, rock, alti e bassi. E così appare chiaro come, in fondo, quello di Salvatores sia un cinema intimamente postmoderno, nella misura in cui ripensa i suoi canoni di riferimento. L’evoluzione del suo stile e della sua poetica, a partire da Nirvana, è già scritta, è come uno sbocco naturale. La rinnovata e consapevole attenzione per i generi, quindi: a cominciare dalla fantascienza, per passare poi alle atmosfere thriller (Io non ho paura) e noir (Quo Vadis, Baby). E poi il gioco delle citazioni: da Lang (Quo Vadis, Baby), a Malick (Io non ho paura, che richiama più o meno apertamente I giorni del cielo). E, sopra ogni cosa, la riflessione teorica sulla visione, sul linguaggio, sugli intrecci narrativi: il riavvolgimento e il gioco dei punti di vista di Amnésia, la memoria stomatologica di Denti, le implicazioni metalinguistiche di Happy Family. Il cinema diventa finalmente e definitivamente una questione di stile, di inquadrature, montaggio, ritmo, di connessione tra musica e immagine (che giunge all’estremo in Come Dio comanda). È come se Salvatores avesse trasferito le ansie libertarie e ribellistiche dal piano del contenuto a quello della forma. Il film sogna di diventare un oggetto smarginato, senza contorni definiti. Ma, anche stavolta, è un problema di pieni e vuoti. Perché la teoria non sempre trova il suo controcanto nella prassi e la ricerca insistita di una ricchezza linguistica ha il sapore di una rinuncia all’anima. Qualcuno ha avanzato un paragone con Tarantino. Ma se per il regista americano il lavoro sull’immaginario ha il sapore doloroso di un elogio funebre, in Salvatores la forma rimane nuda, senza carne e sangue. Vedendo gli ultimi film, non si ha quasi mai la percezione della necessità di un’inquadratura. L’immagine, per quanto "bella" e curata, non ha più il compito di costruire il senso, aldilà della "lettera". Sta lì, come un idolo (la radice è sempre quella). Gioca con lo spettatore, ammicca, emoziona per un istante e poi ritorna all’autocelebrazione.

Ma il trionfo dell’estetica non è, per forza di cose, una vittoria della visione. Non è neppure una questione di profondità e superficie, visto che l’immagine è di per sé superficiale. Ma è che la bellezza si ferma alla cornice, senza arrivare al quadro. Si può riconoscere la bravura, la capacità, la padronanza della tecnica e del racconto, ma c’è qualcosa che ci impedisce di amare Salvatores. È quella frattura di cui si parlava prima. Happy Family ne dà la cifra esatta. Vorrebbe essere un personalissimo Effetto notte, una dichiarazione d’amore per il cinema. Ma per Truffaut il cinema è sempre un mondo di fantasmi, di presenze "assenti". Qui accade il contrario: delle assenze, dei personaggi, comunque in cerca di autore, aspirano alla vita, a restare in campo. Discorso pirandelliano e teatrale, prima di tutto. Ma soprattutto un discorso che denuncia, senza reticenze, il proprio intellettualismo. È qui la cesura. Nella percezione, sempre stridente, del gioco fine a se stesso, del meccanismo. È in quegli sguardi in macchina insistiti, che non si tramutano mai nella nostra personale ossessione. Nei nostri privati, dolorosi fantasmi.

 


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