Sogni infantili di un vecchio saggio: il cinema di Hayao Miyazaki PDF 
Umberto Ledda   

Di solito i film sono più o meno belli, più o meno riusciti, e mentre li guarda lo spettatore sa benissimo il perché: un determinato pregio o un determinato difetto, la storia, la regia, la fotografia, eccetera. Questo vale per la stragrande maggioranza delle pellicole, con le ovvie eccezioni. I film di Hayao Miyazaki, ad esempio, hanno qualcosa di profondamente inspiegabile. Forse è semplicemente l’irriducibile alterità dell’immaginario giapponese, la distanza profonda tra il modo di osservare le cose, e di narrarle, la differenza con cui gli occhi si soffermano sulla realtà, e la interpretano, a creare questo spaesamento. Forse è la peculiare immaginazione del regista, per cui guardando i suoi film si ha sempre la sensazione di guardare nei sogni di un altro sognatore, senza poterli afferrare del tutto. Ma il fatto è che quando si guarda un suo film spesso è difficile capire precisamente dove stia il motivo della fascinazione che provoca. C’è sempre un elemento impalpabile e sottile, che sfugge alla razionalizzazione e alla spiegazione, un qualcosa che c’è ma non si lascia afferrare. I film di Miyazaki tendono a essere superiori alla somma tecnica e produttiva delle loro parti: c’è sempre qualcosa che avanza e che pure, evidentemente, è la chiave di volta del tutto, l’elemento più importante. Non è solo il disegno, non è solo la storia o la sceneggiatura, non sono le strutture simboliche complesse che si nascondono sotto l’apparenza di spettacolo infantile di animazione, non è nemmeno il montaggio: sono tutte queste cose, ma non bastano a spiegare l’effetto profondo. Ci sono momenti, nei suoi film, che semplicemente sono belli, e non si capisce il perché: semplicemente, dopo averli visti ci si sente un po’ meglio. Come un effetto subliminale. Come se ci fosse un secondo film, nascosto sotto la superficie del visibile, che la parte civilizzata del cervello dello spettatore non può vedere e che si lascia percepire soltanto a un livello diverso, un livello più basso, più puro e assoluto. E infatti, se chiedi alla gente se gli piace Miyazaki, la gente risponde cose tipo “sì, mi piace perché c’è la gente che vola”, oppure “sì, è bello” e quando gli chiedi un aggettivo più pregnante ripetono “sì, è bello”, senza trovare nulla di meglio, e hanno pure ragione.

Un esempio a caso. C’è una scena, in un suo vecchio film (Totoro), che apparentemente è una scena da nulla. Ci sono i due protagonisti alla fermata di un autobus. Piove. È notte e c’è poca luce, dietro ci sono gli alberi e una generica sensazione di foresta. Non succede assolutamente nulla che sia degno di nota, a parte il fatto che uno dei protagonisti è un’esserone morbidoso alto due metri con un sorriso strano e una foglia in testa. Poi l’altra protagonista, che è una ragazzina, dà un ombrello all’esserone morbidoso, un ombrello ridicolmente piccolo. L’esserone lo studia e lo apre. Rimangono così per un bel po’, poi la scena finisce. Ed è una scena meravigliosa, e non si capisce bene perché. Non sono le inquadrature, che proprio non hanno nulla di speciale, ma sono solo lì per fare il loro lavoro facendosi vedere il meno possibile. Non è il disegno, anche se è vero che gli occhi tondi dell’esserone, nella loro fissità, hanno un che di magnetico e di affascinante. Non è solo il rumore insistente della pioggia, che pure dà un’atmosfera autunnale ed è fatto così bene che ci senti dietro gli odori degli alberi. Non è una questione tecnica, insomma, perché di tecnico non c’è nulla. Quello che accade in una scena del genere, in cui non accade nulla, è spiegabile soltanto con la poesia. E non la poesia retorica dei film che vogliono essere poetici, ma quella vera: bellezza brada, ignorante, purissima.

Quello di Miyazaki è un cinema che non si può ricondurre a categorie critiche o analitiche o in alcun modo razionali. O meglio, può passare attraverso di esse, può essere analizzato e spiegato e tutto quel che si vuole, ma non si esaurisce in questa razionalizzazione, e anzi, ne rimane sempre fuori la parte più importante. Cosa, questa, che fra l’altro è evidente fin dall’elemento più macroscopico di tutti, il suo essere un cinema di animazione, roba di disegni, matite, con tutto ciò che consegue sul piano della scelta di target e di pubblico di riferimento. Ora, sono ormai due decenni pieni che l’animazione si è genericamente smarcata dal ruolo di mera rappresentazione infantile priva di complicazioni. E, ovviamente, era giusto così. Ma tutti i cambiamenti hanno bisogno di tempo, e infatti la maggior parte del nuovo cinema d’animazione, tradizionale o digitale non fa differenza, è ancora tutto impegnato a segnalare esplicitamente il suo essere rivolto pure agli adulti (una su tutte, Up!, che per far capire di non rivolgersi ai bambini esibisce uno spudorato e rivoluzionario protagonista vecchio; ma anche questo è solo un esempio a caso), come se fosse necessario segnalarlo di continuo per evitare di mettere in imbarazzo gli adulti, facendoli sentire dei bamboccioni. Miyazaki, complice una cultura in cui il concetto stesso di animazione è più diffuso e rispettato, di questo se n’è sempre fregato.

I suoi film sono evidentemente pensati e concepiti per un pubblico adulto, e infatti in sala, durante la proiezione, de La città incantata si vocifera di bambini che piangevano e chiedevano ai genitori di essere portati via. E dei film per adulti hanno la complessità narrativa ed etica, e la saggezza profonda e alcune volte tragica propria della terza età (non si era mai visto cinema d’animazione così orgogliosamente antimanicheista, dove ogni personaggio, protagonisti compresi, comprende in sé zone d’ombra etica profonde, e il male e il bene non solo si completano a vicenda, ma a volte sembrano direttamente due espressioni opposte della stessa matrice sotterranea). Ma non rinunciano affatto ai tratti distintivi dell’animazione infantile, non mascherano in alcun modo l’andamento puramente fiabesco, non creano una patina di maturità con la violenza grafica o il turpiloquio futile o l’accenno a temi comunemente considerati impropri per un under 14. I protagonisti sono giovanissimi come da tradizione, e il disegno è complesso nell’inquadratura ma semplice e morbido nel tratto, ne Il castello errante di Howl così come lo era nei primi lavori, quando ancora Miyazaki faceva Heidi e le sue caprette: accostamenti cromatici gentili, che non feriscono l’occhio, di matrice effettivamente bambinesca. È un cinema per adulti bambini, o per bambini adulti, qualsiasi cosa, ma di certo non una roba facilmente caratterizzabile. Film senza un target preciso per il semplice fatto che il loro target è assoluto, e che mettono di fronte ai bambini spettacoli complessi e non di rado dolorosi, e agli adulti fiabe che non si vergognano di mostrarsi come tali, e hanno per protagonisti streghette che parlano con i gatti e, appunto, troll alti due metri.

Del cinema infantile, i film di Miyazaki hanno anche l’esibita semplicità dell’impianto tematico, oltre a un lieve, ma sempre evidente, didascalismo didattico. Sono tutti espliciti inni al mondo della natura, nel nome di un ecologismo gentile e un po’ naïf, certamente antirealistico. Invocazioni panteistiche (il che, in effetti, è già una cosa decisamente meno da bambini) a un mondo infantile e più lineare, in sintonia con il creato e con la natura, non contaminato dalle logiche della modernità civilizzata, nonostante siano girati con la tecnologia più avanzata (e in questo scontro e in questa contraddizione sta forse una delle matrici più peculiarmente giapponesi della sua opera). È un nucleo tematico primario, compatto, monolitico e semplice, che si dirama però in una selva di rivoletti simbolici di grande complessità e di derivazione culturale disparata (dai classici della letteratura occidentale allo shintoismo alla pittura figurativa tradizionale all’antropologia), in una moltitudine di elementi ricorrenti più e più volte durante le opere. Il tema del volo, per cui nel cinema di Miyazaki vola veramente di tutto, dai maiali ai castelli ai draghi alle scope. La personificazione degli spiriti della natura, la fascinazione profonda per il mondo vegetale che vanno a comporre un universo semioticamente anche piuttosto complesso, tutto incentrato sull’esaltazione della purezza infantile, della vittoria dell’immaginazione, dell’infanzia, della libertà assoluta. Dio ciò che non ha forma, della fantasia più sfrenata, di ciò che viene prima della ragione, che non si può pesare o analizzare, dell’irrazionalizzabile. Come i suoi film, appunto.

E, infatti, nemmeno un’analisi della grande complessità figurativo-tematica-simbolico-storica delle opere di Miyazaki basta a esaurirle, a chiarirle, a spostare la loro percezione e la loro fruizione dall’uso insistito e confuso del  semplice aggettivo “bello”. Perché la vera importanza dei suoi film risiede in ciò che non ha forma né peso. Nell’immaginazione e nella fantasia più sfrenate, ma sfrenate in un modo che non cede mai al surrealismo gratuito: anche la più delirante delle invenzioni dei suoi film, anche gli spaventapasseri saltellanti, anche gli spiriti della monnezza hanno una coerenza forte, anche se spesso non è ben chiaro rispetto a cosa. Una coerenza onirica, fantastica, prerazionale: ma che è e rimane, indubbiamente, una coerenza. La grandezza di Miyazaki sta nella capacità, che non è figlia della tecnica pur servendosene ampiamente, di trovare e spremere significato ed emozione anche dalle assenze, dalle attese e dai vuoti (un’altra caratteristica peculiarmente giapponese, che qui si smarca dall’assorta contemplazione dei maestri del cinema classico e si fa più primaria, più fruibile, più popolare, nel senso migliore del temine): la scena di Totoro sotto la pioggia, o anche la meravigliosa sequenza della ferrovia sommersa de La città incantata, o più o meno tutte le scene di volo, comprese quelle di film decisamente meno personali come quelli di Lupin, che trovano il loro fascino nell’abbandono irrazionale delle leggi fisiche, e che finiscono con l’essere non una semplice rappresentazione del gesto di volare, ma una specie di distillato dell’emozione primaria che sta dietro a uno dei desideri umani più antichi e comuni.

Alla fine, quel qualcosa di inspiegabile che sta alla base dei cartoni animati di Miyazaki è una questione di sguardo, è Miyazaki stesso. L’essere umano dietro la tecnica, la sceneggiatura e la messinscena, e dietro (o sotto) le complesse giustificazioni filosofico-intellettualistiche che si possono costruire intorno alle sue storie. È, alla fine, solo poesia infantile, il sogno senza senso di un uomo che sogna molto bene, e allora non frega più niente del senso, e ci si abbandona al fluire puro e meraviglioso delle immagini che gli vengono in mente. C’è qualcosa di infinitamente saggio, dietro lo sguardo di Miyazaki. Di una saggezza infantile, che non ha bisogno di analisi per essere percepita, e che ha il sogno e la fantasia come canale privilegiato d’espressione. Qualcosa di molto bello. E non c’è bisogno di altri aggettivi.

 


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