Into the Wild: la riconquista dell'identità originaria PDF 
Francesca Mautino   

Un percorso di formazione. Una fuga verso il punto dal quale si è partiti, in un cammino circolare che riporta all’origine. È questo che fa Christopher McCandless, il protagonista di Into the Wild. Scappa da se stesso, per ritornare a se stesso. Almeno nelle intenzioni, almeno col pensiero. La narrazione è suddivisa in cinque capitoli che scandiscono la trasformazione di Christopher dopo la sua scelta di fuggire dal mondo delle convenzioni, da ciò che lui considera “l’omicidio quotidiano della verità”. Ed è così che rivive in pochi mesi, tutte le tappe che un uomo attraversa durante la sua intera esistenza:


1. la nascita e la scelta di un nome, Alexander Supertramp, “super-vagabondo”, un appellativo che indica realmente, esplicitamente, quello che si è. Christopher si spoglia così di quella maschera che per tutta la vita, fino a quel momento, era stato costretto a indossare, la maschera della famiglia perfetta e felice che così perfetta e felice non era per niente.
2. l’adolescenza; Alexander lascia i genitori, la coppia di hippie Jan e Rainey con cui ha trascorso qualche giorno sulla spiaggia. È l’adolescente che decide di non compiere i percorsi convenzionali, ma di seguire una strada propria, una protesta pacifica volta alla realizzazione dei propri sogni. Alex vede se stesso al di là di una vetrina, o meglio vede ciò che potrebbe diventare, un uomo in giacca e cravatta, espressione falsa e occhi infelici, come a dire che siamo costretti innanzitutto a capire ciò che non vogliamo essere, per poi comportarci di conseguenza.
3. l’età adulta, dove Alex subisce le conseguenze delle sue azioni. È qui che lo vediamo picchiato da una guardia perché viaggia abusivamente su un treno merci. È qui che lo vediamo costretto a svolgere un lavoro deprimente in un fast food pur di accumulare soldi per realizzare il suo sogno. È qui che scopriamo un dettaglio apparentemente insignificante, la sua abitudine di non indossare i calzini, abitudine propria di suo padre, come a dire che per quanto cerchiamo di distaccarci dai nostri genitori per tutta la vita, in ogni caso, inevitabilmente, inconsciamente, diventeremo come loro.
4. la famiglia. Alex trascorre del tempo in una comune hippie, incontra una ragazza, sfiora l’amore. Gli uomini, normalmente, si fermano qui. Alexander Supertramp, tenendo fede al nome che si è scelto, non si accontenta della tranquillità della vita comunitaria, anche se libera dagli schemi come quella degli hippie, e fugge di nuovo, testardo, in cerca di qualcos’altro, di quella verità che ancora non è riuscito ad afferrare pienamente.
5. capitolo finale, getting of wisdom, letteralmente “la conquista della saggezza”. Alex ha raggiunto il suo scopo. È in Alaska, vive solitario in mezzo alla natura, in quella wilderness che i suoi autori preferiti (Thoreau, London) hanno esaltato nelle loro opere. Eppure qualcosa non funziona. Solo raggiungendo quest’ultima tappa del cammino della consapevolezza, Alex capisce (attraverso le parole di un libro, forse unico e ultimo baluardo della dignità umana) che la felicità non significa niente se non è condivisa. Happiness only real when shared, scrive con fatica, ormai consumato dal veleno di una pianta tossica mangiata per sbaglio. E la parola alone, che scriveva poco tempo prima, con accezione positiva, si trasforna in lonely. Essere soli, ora, è una condanna.

Il film porta sullo schermo, attraverso la storia vera di Christopher McCandless, la storia di noi tutti, del percorso dell’uomo verso un punto non ben precisato che si scopre, sempre, essere il punto dal quale siamo partiti. Non a caso, le sequenze iniziali, prima della scansione dei diversi capitoli, appaiono come le più significative per la comprensione dell’opera. Il film si apre con un incubo: la madre di Alex sogna che il figlio la stia invocando e si sveglia di soprassalto, consolata dal marito. Se è vero che i registi desiderano indurre lo spettatore a guardare un film attraverso una particolare prospettiva, è da questa che Into the Wild dev’essere analizzato: la prospettiva di coloro che vengono lasciati e che soffrono la perdita. Non a caso, l’ultima scena (e qui la circolarità) ci mostra lo stesso Christopher sognare di riabbracciare i genitori. Ma a cosa serve fuggire, cercarsi un’identità nuova, per poi ritornare all’origine? Sean Penn ce lo mostra esplicitamente nelle scena del pranzo, subito dopo la laurea di Christopher: le inquadrature sono affollate, i dettagli dei visi, delle bocche, delle mani la fanno da padrone, lo spettatore percepisce la claustrofobia del protagonista e comprende la sua voglia di fuga. Christopher necessita di un’inquadratura, intesa come sinonimo di spazio, nella quale possa muoversi liberamente e in essa riappropriarsi di se stesso.

Così, sempre all’inizio del film, la mdp segue il percorso di un treno, in una particolare rivisitazione della scena più famosa della storia del cinema: il treno, la tecnologia, non investe più l’uomo, stupendolo, ma il nostro sguardo segue il treno, sfrutta la tecnologia per poi distaccarsene, alla ricerca di un’esistenza più autentica e reale. E quello che il protagonista comprende, alla fine del suo viaggio, è che il fine, per l’uomo, non può essere la Natura, che gli si presenta, leopardianamente, indifferente ai suoi bisogni (significative le riprese dall’alto di Alex, minuscolo essere che cammina invisibile sulla neve), ma un’esistenza comunitaria, nella solidarietà fra gli uomini, nel rispetto reciproco, con l’amore per il prossimo come unico valore fondamentale. E così Alexander Supertramp, alla fine, ritorna a essere Christopher McCandless. Si riappropria della sua identità originaria, ma con una consapevolezza diversa, anche se, proprio a causa di quella wilderness che lui venerava, e, soprattutto, della sua incapacità di uomo di fronte ad essa, muore, solo, lasciandoci una lezione ormai, purtroppo, considerata banale nella sua semplicità di realizzazione.

 


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