Figure dell’assenza nel cinema di Werner Herzog: l’irrapresentabilità del femminile PDF 
di Mattia Plazio   

È un dato di fatto inoppugnabile che Werner Herzog non sia - e neppure si senta - un "regista di donne". È lui stesso, in una delle sue interviste, a confermarlo: finora non c'è mai stato un mio film con una donna protagonista. Non so perché, è una constatazione di fatto. Mi piacciono le donne, ma non ho alcuna inclinazione a fare film su di loro. Mi aspetto che vi siano donne regista a fare film sulle donne, ma devono ancora arrivare. (1)


Se si guarda alla ricca galleria di personaggi a cui il regista tedesco ha dato vita in oltre quarant'anni di carriera, non è difficile riscontrare, infatti, l'assenza pressoché totale di personaggi femminili degni di essere definiti tali. Non che nei suoi film non trovino posto le donne. Tuttavia la loro presenza all'interno della storia è sempre marginale, accessoria, e il loro agire resta in qualche modo legato o a schemi previsti e stereotipati, riconducibili alla rigidità del ruolo ad esse preventivamente assegnato (come Lucy in Nosferatu, il principe della notte o Maria in Woyzeck - non a caso i due film che si riallacciano direttamente a "testi" appartenenti all'illustre tradizione della cultura tedesca) o subordinato sostanzialmente all'universo dentro cui si muovono i protagonisti maschili per i quali esse non rappresentano che un semplice strumento o pretesto per il raggiungimento dei propri folli sogni di "potenza" (come nel caso di Flores, figlia di Aguirre, o di Molly, la donna di Fitzcarraldo, o, ancora, di Katharina, "oggetto del desiderio" in Grido di pietra).

 

L'universo femminile, la sua sensibilità e "diversità", sembra dunque molto distante dal mondo poetico ed artistico di Werner Herzog, il quale ha sempre dimostrato una maggiore inclinazione nel modellare personaggi e protagonisti maschili. Questo non significa ovviamente che al cineasta non piacciano le donne, o che, peggio ancora, le consideri esseri "inferiori", come egli stesso, provocatoriamente, afferma: "quando io faccio protagonisti maschili non ha niente a che vedere con l'omosessualità, nascosta o palese […] Sì, mi piacciono [le donne]. Per la loro diversità: è il loro lato migliore, la loro particolarissima sensibilità, ed il fatto di essere femmine. Dovrebbero identificarsi nella propria femminilità, esserne orgogliose". (2)

La sua predilezione verso l'universo "uomo" potrebbe piuttosto risultare maggiormente comprensibile e giustificabile, alla luce di un'analisi più approfondita del suo cinema, se si considerasse da un lato la forte dimensione epica e mitico-eroica - riconducibile dunque ad un immaginario prettamente "maschile" - che permea l'intera opera del regista tedesco, fino alle sue radici più profonde (mondo della finzione/realtà della produzione), e dall'altro la spiccata tendenza all'autobiografismo del suo cinema, per cui ogni film sarebbe il frutto di una completa "messa a nudo" della vita, del mondo e dell'immaginario di Herzog stesso, nel quale evidentemente la donna non occupa un posto centrale o forse, più probabilmente, non trova un suo ruolo, una sua precisa collocazione.

Tuttavia le difficoltà da parte del regista tedesco nel "rappresentare" il femminile sono legate a ragioni forse più profonde e direttamente riconducibili alla sua stessa visione del mondo, al suo essere un individuo in qualche modo arcaico, ovvero profondamente distante dall'universo di valori espressi dalla modernità. Il motivo dell'assenza del femminile all'interno dell'opera cinematografica di Werner Herzog potrebbe essere ricondotto, infatti, a due differenti ordini di valutazione. Il primo è da mettersi in relazione con il significato simbolico e archetipico della donna. Essa, da sempre, rappresenta l'emblema o meglio l'immagine della bellezza, della grazia e dell'eleganza. È, di fatto, la personificazione dell'amore, oggetto di ispirazione celeste. Esattamente tutto ciò di cui è privo il mondo descritto dal regista tedesco, un mondo "difettoso", dominato dall'oscurità e dal male, dove trovano spazio solamente distruzione, rifiuti, fallimento, solitudine e morte. Agli occhi di colui, dunque, al quale si rivela tragicamente il volto reale del creato nella sua tribolata "crudezza", e quindi del destino assegnato al genere umano, la presenza del femminile, per ciò che esso rappresenta, risulta incoerente e in un certo senso fuori luogo, essendo questa portatrice di un significato e di un insieme di valori che in quel mondo sono letteralmente banditi.

 

La donna sembra dunque appartenere, per Herzog, ad un universo "altro", fatto di pensieri, sentimenti, azioni e movimenti che sfuggono alla sua comprensione, un universo che si pone ad una distanza siderale da quello più propriamente "maschile". È un mondo di difficile accesso, avvolto in un alone di mistero, impenetrabile, sfuggente, è una soglia di fronte alla quale l'uomo (di genere maschile) intravede l'"inconoscibile". Il cineasta tedesco ne riconosce la "diversità" - e la ama profondamente - ma nello stesso tempo ammette l'impossibilità di dare una rappresentazione di ciò che fondamentalmente non è ancora arrivato a comprendere e che forse non comprenderà mai fino in fondo. La femminilità viene così sublimata al punto da renderla assente, una creatura silente e invisibile che tuttavia, proprio in ragione di questa assenza, svolge, forse, il ruolo di un "nulla" desertico di connotazione mistica (non dimentichiamo che proprio il "deserto" rappresenta una delle figure tipiche dell'intero cinema herzoghiano).

Il secondo aspetto quindi sta proprio nel riconoscimento di questa "lontananza" e nella conseguente difficoltà di capire quali siano effettivamente le coordinate del femmineo, quali le aspirazioni, i sogni e le ossessioni che lo contraddistinguono. Difficoltà che spinge il regista tedesco ad avvicinarsi sempre con una certa circospezione, quasi con timore/tremore, all'universo femminile, come ad un oggetto al quale si riconosce un'altissima dignità, ma che rimane comunque segretamente chiuso nella sua profonda enigmaticità.

Esiste a tal proposito un film "clandestino" di Werner Herzog, che sembrerebbe (3) documentare idealmente la sua volontà di fornire comunque - anche solo per una volta - una rappresentazione dell'universo donna, e la cui analisi confermerebbe nello stesso tempo la sua personale visione del mondo femminile nei termini di cui si è detto, ovvero come mondo a sé stante, misterioso e incomprensibile, ma profondamente affascinante. Si tratta di Una notte senza paura (Eine Nacht ohne Angst, 1978), film girato nell'arco di una notte durante le ultime riprese del Nosferatu, in uno chalet della foresta nera, all'insaputa della produzione e con attrici/amiche fuori contratto e senza assicurazione. È il solo film herzoghiano in cui tutti i protagonisti sono solamente donne. Dopo Ophüls, Cukor e Rossellini - afferma Enrico Ghezzi - sembra la quarta reinvenzione della donna al cinema inattesa e stupefacente da un regista così penetrante, ossessivo e dionisiacamente "violento" quale Herzog. Un piano sequenza di novantasette minuti, e dentro - quasi sempre tutte inquadrate – quattro, cinque donne che parlano ininterrottamente o quasi, prendono un tè, del vino, un po' di marmellata. (4)

 

Il film non ha un plot (come spesso accade nella cinematografia di Herzog), i personaggi non agiscono (si limitano ad entrare ed uscire di scena). Parlano soltanto, discutono. Si riescono a riconoscere alcuni volti, diverse età, diverse generazioni, dall'attrice wendersiana Lisa Kreuzer alla più anziana Hanna Schygulla, fino alla pallidissima Isabelle Adjani, la quale ad un certo punto entra dal nero della porta e pronuncia un'enigmatica frase in francese ("..lo amavo.. e il giorno in cui glielo dissi me ne andai in treno") per poi uscire di scena immediatamente dopo. Tutto è avvolto dal mistero, in un'atmosfera surreale, tanto vaga quanto magica nella sua impalpabilità. Le parole sfumano ed è difficile, se non impossibile, capire esattamente di che cosa parlano queste donne, che spesso si animano, alzano la voce, litigano, forse, ma sempre con un accordo segreto tra loro che un po' ci esclude; tutto sembra vago perché si ha l'impressione precisa che senza paura si stiano "dicendo tutto", un mormorio interminabile continuamente affascinante; si colgono brani distinti di conversazione, allusioni a situazioni quotidiane, nomi pubblici, ma è l'insieme che sfugge e attrae, in una calma compatta e dolcissima che fa superare davvero tutte le paure ed estraneità, perfino il dolore di questa estraneità. (5)

E Herzog è lì vicino, con in spalle la sua cinepresa, a seguire e "braccare" queste donne, la loro inafferrabile diversità, ad osservare con occhio esterno e distante - come uno "straniero" - il loro mormorio continuo, cercando di decifrarne il significato e di gettare una luce su un mondo alieno, a tratti inquietante, a tratti magicamente rivelatore. Fino alla sorpresa finale. Quando cioè la macchina da presa, compiendo il classico movimento sfrenato e sontuoso che chiude ogni film del regista tedesco, si avvicina alla porta che le si apre davanti e, come esausta da tanta incertezza e confusione, corre fuori, scappa tra le erbe alte di una foresta rada e poco illuminata. L'ultima immagine che si vede sullo schermo è il nero dell'erba che avvolge tutto, compresi gli occhi dello spettatore. È il nero simbolo dell'oscurità che si posa su un universo che mantiene il suo fascino, ma rimane più che mai distante ed inconoscibile.

(1) Intervista a Werner Herzog, a cura di Manuela Fontana, in Film und Drang. Nuovo cinema tedesco, Firenze, Vallecchi, 1978, pp. 67-68.
(2) Ibidem, p.67.
(3) Il condizionale è d'obbligo data la "segretezza" e la clandestinità della sua proiezione, motivo per cui non è stato possibile prenderne visione direttamente. A cura del Cineclub Brera, il film è stato presentato in Italia per la prima (e forse l'ultima) volta a Milano nel 1979, dove fu proiettato per due sabati a tarda notte, per poi essere consegnato all'oblio. Inizialmente le intenzioni di Herzog erano quelle di normalizzare la situazione (il film non aveva nessun titolo di testa o di coda, era parlato in tedesco con qualche frase in francese e in tutto una ventina di sottotitoli in inglese molto artigianali) e di renderlo presentabile addirittura per il Festival di Venezia, ma per motivi ignoti (probabilmente legati a questioni finanziarie e distributivo-produttive) il progetto fu abbandonato.
(4) Enrico Ghezzi, Herzog clandestino, in Paura e desiderio. Cose (mai) viste. 1974/2001, Milano, Bompiani, 2000, p. 87.
(5) Ibidem, pp. 87-88.

 


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