TOFIFE 2004 / Americana PDF 
di Giampiero Frasca   

La consueta - e sempre più attesa - panoramica del TFF sul cinema americano quest'anno, più degli altri anni, forse anche a causa delle evidenti contraddizioni esistenti sul suolo di produzione, pare essersi concentrata su temi essenzialmente politici, imbastendo un discorso composito, diversificato per le cifre stilistiche caratteristiche di ogni singolo autore, spesso ironico, sempre critico e beffardo. Tanner on Tanner di Robert Altman, tanto per citare - noblesse oblige - il decano tra i cineasti proposti, sceglie la carta del sarcasmo per illustrare le goffe peripezie di Alex Tanner, figlia di quel Jack Tanner, immaginario candidato democratico alle elezioni presidenziali, che Altman aveva seguito sedici anni or sono per la serie televisiva Tanner '88.

In questo sapido gioco di riflessi Alex deve girare un documentario sulla indimenticabile campagna elettorale paterna conclusasi con una sconfitta (e non avrebbe potuto essere altrimenti: la stessa Alex risponde "ricorda un presidente degli Stati Uniti chiamato Jack Tanner?" a chi le chiede se suo padre sia poi riuscito a vincere le elezioni). Prodotto dal canale televisivo che fa capo al Sundance Institute, girato con l'ormai proverbiale leggiadra coralità attraverso il formato Beta digitale, Tanner on Tanner si sofferma sulla politica come semplice riverbero di una ricerca artistica (quella di Alex Tanner, ovviamente) destinata a mostrare la corda delle sue aspirazioni fondate sulla frustrazione e sulla strenua volontà di riuscita. Altman osserva, registra e spesso sferza la vacuità del personaggio Alex, da intendersi come paradigma per quei registi dalla forte (immotivata?) ambizione e dallo scarso talento, ma, al contempo, si serve del mondo politico cotè del documentario (e quindi del film che ne narra le vicissitudini) per mostrare in filigrana un universo basato su compromessi e giochi di potere che trasformano l'insuccesso artistico di Alex in una sorta di tenera deriva da guardare quasi con indulgente compassione.

A metà tra il documentario e la fiction si situa K Street (la famosa strada di Washington in cui hanno sede le principali società in grado di esercitare pressioni sulle scelte politiche americane), lavoro in dieci puntate di Steven Soderbergh (e George Clooney come produttore) per la tv via cavo HBO che narra la sicura e arrogante attività di consulente del partito democratico di James Carville (che interpreta se stesso) fino alla rovinosa ed imprevedibile caduta dopo un'inchiesta del Dipartimento di Giustizia che ne mette in luce appropriazioni indebite e finanziamenti illeciti.

Non meno accusatorio, ma con quella verve sintagmatica che fa assumere a molti dei suoi racconti un afflato quasi epico, appare Silver City di John Sayles: un politico pressoché inetto (ogni riferimento a personaggi realmente esistenti è assolutamente voluto, ha detto Sayles durante la presentazione in sala del film) che punta alla carica di governatore del Colorado, un cadavere all'aroma di albicocca rinvenuto in un lago a rovinare un idillico spot elettorale, intrighi di potere, beghe familiari e un detective/giornalista giuggiolone che ha la disillusione languida e abbattuta di un antenato noir sono gli ingredienti di una storia corposa che ricorda le prove migliori del regista di Schenectady, pur non possedendo l'invidiabile dialettica tra cronologie differenti, l'intricata suspense da soap opera e la felice commistione tra i generi che aveva mostrato Stella solitaria, il quale, probabilmente, rimane il frutto più maturo colto dal ricco albero Sayles.

Altro capitolo, altro dito puntato. Questa volta nei confronti della guerra americana in Iraq: David O. Russell torna nei territori del suo successo Three Kings (1999) per realizzare un documentario da inserire nella nuova edizione in DVD del film, ma il risultato non è spensieratamente celebrativo, quanto, piuttosto, scomodamente rivelatorio, dato che le interviste ai veterani della Guerra del Golfo fanno emergere un quadro di contraddizioni, sproporzioni e corruzione che la Warner Bros. difficilmente può tollerare. Risultato: niente extra nel DVD ed intervento della casa di produzione indipendente Cinema Libre Studio per far circolare - limitatamente alle sue possibilità - quello che inopinatamente si è trasformato in un pamphlet.

Resta un retrogusto torbido e amaro, come di piatto già masticato più volte ma non ancora digerito completamente, che non può essere mitigato dal corretto documentario encomiastico sulla Statua della Libertà realizzato da Martin Scorsese e dal critico Kent Jones per The History Channel, Lady by the Sea, nemmeno metabolizzato dalle divertenti consuetudini di genere mostrate dall'abile artigianato di Tobe Hooper nel claustrofobico e concentrazionario The Toolbox Murder, né tanto meno dimenticato tramite la vera incognita della rassegna, My Scarlet Letter di Karen Dee Carpenter, corto di dieci minuti sulla provincia americana presentato come "imperdibile" ma sicuramente più interessante nella garbata presentazione della giovane regista che nel risultato artistico, già visto, già assorbito, già reso paradigmatico e quindi inutile.

Di provincia in provincia: degno di nota, invece, l'esordio al formato lungo per il trentunenne Jacob Aaron Estes con Mean Creek, atteso come un percorso di formazione à la Stand by Me e rivelatosi, piuttosto, un equilibrato racconto di colpa, espiazione e desolante senso di responsabilità, in cui l'empatia verso i personaggi subisce continui e antitetici contraccolpi, minando le certezze identificative di un pubblico condotto verso una supina accettazione di un destino immodificabile. Estes non possiederà mai, probabilmente, la franchigia critica di cui gode il quasi coetaneo David Gordon Green, ma è auspicabile tenere d'occhio il suo prossimo operato nella speranza che non si perda nel mare magnum delle produzioni inutili e dozzinali.

 


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