Amabili resti. Tra proiezioni percettive e travasi interdimensionali PDF 
Gianpiero Ariola   

Dopo le terre di mezzo tolkieniane, Peter Jackson si dedica ad Amabili resti che, oltre a riferirsi alle spoglie terrene di una giovane vittima di omicidio, sembrano indicare ciò che di buono rimane della sua pellicola, dopo essersi persa più volte in rallentamenti eccessivi e pesanti divagazioni. Nel suo complesso il film risulta infatti prolisso, imbrigliato in una struttura narrativa dispersiva, mentre sembra funzionare per frammenti, che racchiudono interessanti meccanismi configurativi. Reduce da una triplice fatica fantasy, il regista neozelandese non sembra certo propenso a distaccarsi dal genere, anche se qui tenta di coniugarlo con etichette thriller e ghost, in un tentativo di ibridazione a tratti molto efficace.

Pensando ad esempi eccellenti quali Il sesto senso o The Others, è chiaro come qui tutta la tensione e la suspense sia ottenuta mediante la coalescenza, sullo stesso piano contestuale, di presenze terrene e ultraterrene, in cui la verità emerge solo nel finale, sia per i protagonisti che per il pubblico. In Amabili resti, invece, la consapevolezza del trapasso è presto acquisita da Susie e si configura attraverso la sua particolare condizione di omodiegesi intradiegetica, ovvero apponendo al racconto una sorta di filtro emotivo. La sua giovane età, con i turbamenti e le eccitazioni che di solito la veicolano, sembra giustificare perfettamente un procedere narrativo frammentato, come per singulti narrativi, in cui le lacune mnemoniche diventano rimossi di sapore psicanalitico e vengono sostituiti dal suggestivo riaffiorare, in forma di flash visivi, di scene vaghe dal sapore onirico. La costruzione metafisica della terra di mezzo e il collegamento tra le due dimensioni esistenziali, terrena e ultraterrena, ha un andamento ondivago. Eppure, proprio l’affannoso tentativo di dirimere fili sottilissimi di rifrazione, mai riconoscibili in maniera esplicita, si erge a verifica dell’anomala fusione tra il genere thriller e quello fantasy, con il travaso della tecnica diegetica della suspense, tipica del primo, nella scenografia immersiva propria del secondo. Il pubblico è insomma informato di questa separazione di mondi ed è invitato ad esplorarli lungo due percorsi che bramano disperatamente i propri angoli di congiunzione, le proprie superfici comunicanti. Preso per mano, ma a tratti lasciato solo, dalla Susie narratrice, lo spettatore viene messo sulle tracce di queste membrane interstiziali, viene spinto a scoprirne la composizione e la natura della loro connessione.

Ed è proprio nel tentativo di disvelare il dialogo tra i due mondi che Jackson costruisce la chiave della sua opera, convogliandovi tutta la sua forza espressiva. La messa in scena di questa interazione assume la forma di vertiginose escursioni proporzionali, spingendo i rapporti di grandezza alle estreme conseguenze per cercare di evidenziare non tanto gli scarti che la storia mantiene dalla verità (verità che mai verrà appurata, almeno a livello delle indagini poliziesche), quanto piuttosto le possibilità di confronto e soprattutto di incontro tra la piccola protagonista e i suoi affetti terreni. Le dimensioni vitali dei due regni, la vita terrena e il transito verso l’ultraterreno, sono sottoposte ad alterazioni rappresentative, lasciando intravedere, in trasparenza, una dipendenza da leggi pseudofisiche straordinariamente credibili da un punto di vista psicosensoriale. Una stravagante regolamentazione sembra impossessarsi pertanto delle reciproche relazioni comunicative. Ciò che è vero percettivamente sulla Terra, dunque, non lo è per il “piccolo cielo”, e il limitatissimo passaggio di segnali tra i due universi sembra il risultato proiettivo di un bizzarro foro stenopeico, che restituisce informazioni invertite e sovvertite.

Marco Toscano individua lucidamente uno dei primi e più immediati parametri di confronto tra i due universi riferendosi al rapporto categoriale grande/piccolo (1). Questo gioco di relazioni dimensionali non rimane tuttavia un’alternanza di poli statici, ma si manifesta quale dinamica dell’ingrandimento o del rimpicciolimento, partecipando a quell’azione di traduzione interdimensionale delle grandezze. Più in generale, però, l’impatto del mutamento da un universo all’altro si avverte a un livello percettivo più ampio, coinvolgendo anche sensazioni cromatiche, morfologiche, aptiche e cinestetiche. Si ricordi la scena in cui la giovane protagonista solca un campo di grano frustato dal vento, che si muta all’improvviso in superficie acquatica, inghiottendola e facendola precipitare lentamente sul fondo per poi trasferirla, nuovamente e senza logici collegamenti, all’aria aperta. Le sensazioni di solidità e di fruscio del grano si avvicendano con quelle di affondabilità (2) e di umidità dell’acqua, ritornando poi ancora a quelle peculiari della terraferma, ovvero di tepore solare e di freschezza per la leggera brezza di un bosco. Inoltre si passa dal giallo dorato del grano, alle sfumature prima blu e verdi dell’acqua, per ritornare ai toni caldi del bosco che si trasformano in piani traslucidi nell’aprire una finestra sul mondo reale. Insomma, il punto di vista della protagonista, quel suo sguardo puntato ostinatamente ai suoi cari o ai ricordi della sua vita, diventano lo specchio magico che trasforma l’esperienza in un riflesso e non in mondo altro. È l’esigenza emotiva della giovane Salmon che modella e reinterpreta tutto, la terra di mezzo è solo il frutto del suo sguardo rivolto indietro alla disperata ricerca di una vita ormai interrotta. La si vede infatti giacere ai limiti di un’immensa superficie riverberante con sullo sfondo un albero, che ad un suo sussulto trasforma le sue foglie in farfalle. I mutamenti cromatici e morfologici sono dunque l’effetto di una prospettiva affettiva, di un desiderio negato. E questo diventa ancora più evidente nella scena in cui si assiste parallelamente al trasporto in ospedale di Jack, dopo l’aggressione subita, mentre Susie resta inerme di fronte al crollo del gazebo nel bosco. Le sensazioni di dolore della prima scena, il cui senso di acutezza viene ricalcato da effetti di luce sovraesposta e soffusa, si travasano nel “piccolo cielo” con un rapido oscuramento dell’atmosfera e un repentino sgretolamento del legno della piccola costruzione, che sprofonda nel terreno. Insomma la luce forte e intensa diventa suono grave e crepitante unito al vuoto luminoso, enfatizzando il senso di disperazione per una mancanza già in atto e quello per il rischio di un’ulteriore perdita.

Si è detto, in precedenza, che per comprendere il trasbordo percettivo tra i due universi paralleli era utile immaginare una lente bizzarramente levigata. Eppure tale metafora risulta ormai incompleta, alla luce di queste ultime riflessioni. Si potrebbe allora bilanciarla corredando lo strano filtro ottico con un’altrettanto insolita cassa di risonanza, che fa vibrare gli avvenimenti del mondo reale su quello metafisico. Prestando infatti una particolare attenzione anche alla dimensione sonora, si chiarisce il valore della sintonia che Jackson vuole tracciare tra i due mondi, non solo appunto in forma di proiezione ma anche quale riverbero acustico. A tale scopo il regista pare attribuire una differenza di “peso” tra le due esperienze, quasi a voler contrapporre una materialità corporea, propria delle scene terrene, a una consistenza più aerea e gassosa, tipica del paesaggio ultraterreno. La prima dominata dalla pervasività sonora, la seconda intrisa della labilità visiva. Ad esempio, nella scena in cui Lindsey entra nella casa del signor Harvey, il suo gesto di voltare lentamente le pagine sortisce un effetto di amplificazione, come un piccolo scoppio che, echeggiando nel silenzio della casa, alimenta l’effetto di suspense creatosi. Il dettaglio delle dita che scivolano sul taglio della pagina, associato al fruscio che si disperde nel silenzio, funzionano come un colpo di cannone, che fa sussultare ulteriormente lo spettatore, già in ansia per la tensione creata dalla diegesi. L’ingrandimento visivo non fa che esasperare l’allarme uditivo, nonostante i rumori siano debolissimi. Il padrone di casa sembra quasi possedere un super-orecchio, grazie al potenziamento audiovisivo. Questo stesso suono, però, è appannaggio esclusivo della vita corporea, perché quando si propaga nel regno esplorato da Susie sembra quasi perdere i suoi riferimenti visivi, e finisce per riverberare vanamente. Nella scena delle bottiglie infrante, infatti, lo stesso fragore della rottura che si propaga nello spazio angusto della camera, in penombra, genera un impatto forte, mentre nello spazio aperto della spiaggia pluricromatica i giganteschi galleggianti di vetro producono rumori che presto si dissolvono nella sonorità di sottofondo e in quelle roboanti e monotone del faro, ma soprattutto si perdono nel metamorfico paesaggio visivo. Ciò che domina nel “piccolo cielo” sono infatti la leggerezza delle immagini e la loro funambolica proprietà di creare cangianti illusioni spaziali. 

Un altro esempio della dicotomia suono/immagine ci riporta alla scena in cui il Jack fa sviluppare l’ultimo rullino della figlia: il suo gesto di sfogliare gli scatti rievoca in lui flash del passato, ma in particolare fa rivivere in lui la voce di Susie che lo chiama. Per dare sensibilità alle immagini interviene ancora il suono. Il suono della voce sembra essere speciale perché, dopo poco, in forma di sussurro, si trasforma in illusione ottica: il fiore sembra rinascere, per pochi istanti, prima di riappassire. Per la prima volta, sotto l’influenza del suo mantice emotivo, Susie non solo inverte la proiezione/risonanza, ma fa trapelare la sua forza emotiva, in un chiasmo sinestetico, dal mondo ultraterreno a quello reale. Come per dimostrare che se vi è una vibrazione per rompere il muro tra i due mondi non può che essere acustica, e non può che essere fatta di quel particolare suono prodotto dal corpo stesso (3).

Come si diceva in precedenza, in queste traduzioni sensoriali tra le due dimensioni vitali sta uno dei punti forti del film, anche se talvolta vi è un abuso dell’effetto di incanto nel tratteggiare la paesaggistica della terra del trapasso (in alcuni passaggi la rappresentazione degli stati umorali della protagonista sembrano quasi virare verso un’improbabile sindrome metereopatica, ove l’ambiente muta forma con la stessa leggerezza di un impeto adolescenziale). Nei momenti di maggiore equilibrio, invece, le due dimensioni si influenzano reciprocamente e subiscono allontanamenti e avvicinamenti, fino a scivolare in illusorie sovrapposizioni. Le inconsapevoli esperienze extracorporee della ragazzina, subito dopo la sua morte, non possono che contenere questa ibridazione. In particolar modo, è emblematica la scena della vasca da bagno. Il tutto ruota, ancora una volta, su eccessi dimensionali, che in questo caso, non essendovi distanza di proiezione, fondono e si confondono in un contrasto che non può che confermare lo stato di transito. La diffusa luce bianca che uniforma lo sfondo contrasta fortemente con i luridi oggetti e il sudiciume cosparsi sul pavimento e sul lavandino, mentre a livello sonoro il riverbero del respiro del signor Harvey fino al grido disperato di Susie creano una sensazione di irrealtà. L’assenza di vita, e la fragilità del suono, cominciano a farsi strada e la sporcizia dei resti terreni già ammicca agli scenari sfavillanti dell’immaginario.

Verso il finale, poi, si assiste alla scena in cui il killer si disfa del corpo. Il rumore della cassaforte in cui quest’ultimo è rinchiuso, che sparisce quasi (unito all’effetto ralenty) nel ruzzolare nella discarica, forse rappresenta l’alleggerimento psicologico che finalmente si diffonde tra coloro che amavano Susie, ma decreta anche l’impossibilità di comunicazione sancita proprio dall’assenza del suono. Se l’immagine aveva stabilito un pur flebile contatto tra i due universi rappresentati, quest’ultimo sembra incarnarne l’assoluta negazione. Il miracolo che si era verificato precedentemente con la voce di Susie ora si dilegua nella prigionia dei suoi resti corporei. Un corpo che, fatto ormai a brandelli, conficcato nello spazio vuoto di spesse lamiere metalliche (la cassaforte isola la vista ma soprattutto il suono), è incapace ormai di risuonare. Ecco perché il grave tonfo del rotolamento finisce per dileguarsi, ormai la sua potenza risulta inconsistente, quasi avesse assorbito l’incapacità del proprio contenuto di emettere vibrazioni. Un incontro mancato che si consuma, però, proprio durante un ultimo miraggio: il bacio tra Susie e Ray che, impastato di forza onirica, inconsistente e incorporea, può affidarsi ormai soltanto alla visione, fatta di evanescente leggerezza, mentre poco distante si consuma l’ultima traccia (sonora) dell’esistenza corporea.

Note:
(1) Secondo Toscano Amabili resti insiste a livello strutturale sul continuo confronto tra le due dimensioni opposte, coinvolgendo l’intero percorso artistico-produttivo del regista neozelandese. Marco Toscano, Piccolo cielo, in Duellanti, febbraio 2010, pp. 28-29.
(2) Tale descrizione dell’ambiente qui adottata intende esplicitamente riferirsi al concetto di affordance di James Gibson e alla sua teoria eco-psicologica. Cfr. Gibson, J., Un approccio ecologico alla percezione visiva, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 205-207.
(3) Tale associazione voce-vita è in fondo alla base di tutto il lavoro di Alfred Tomatis. Cfr. Tomatis, A., L’orecchio e la voce, Milano, Baldini & Castoldi, 2000.

 


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