Ben X PDF 
Gianmarco Zanrè   

Il confronto generazionale legato alla crescita e all’emancipazione del proprio Io è da sempre indissolubilmente parte del processo di eruzione interiore rappresentato a tutti gli effetti da uno dei periodi più difficili e controversi di ogni individuo: l’adolescenza. L’arte in genere, e il cinema nello specifico, ha avuto un ruolo primario nella formazione degli adulti del futuro, fornendo a volte gli spunti necessari a compiere il passo definitivo verso la crescita: opere come I fiori del male di Baudelaire, Siddartha di Hesse, Nevermind dei Nirvana, Stand by me di Rob Reiner o Il corvo di Axel Proyas hanno influenzato generazioni intere di giovani alla ricerca di un’identità, o di un modo per sentirsi ascoltati. Ben X, questa imperfetta eppure interessantissima opera di Balthazar, basa la sua riflessione proprio su uno dei punti più difficili da cui partire per comunicare con l’esterno, scegliendo di legare il suo protagonista ad una patologia, l’autismo, che solo in rarissimi casi definisce la felicità del suo portatore. Cinematograficamente parlando, si potrebbe dire che la poesia di Rain Man non è sempre di casa nella solitudine di una persona affetta da autismo.

Ed è proprio a questo dramma che il regista e sceneggiatore associa la sua idea di adolescenza, periodo più o meno lungo in cui l’incomunicabilità diviene un fatto quotidiano, e si traduce in isolamento o aggressività. Il confronto drammatico fra il protagonista e i suoi compagni di scuola è in questo senso emblematico, e trascende la denuncia di fenomeni ormai divenuti tristi realtà di cronaca come il bullismo per divenire una sorta di cartina tornasole di un abbandono quasi fisiologico che avviene in un periodo della vita in cui perdersi appare infinitamente più semplice che ritrovarsi. Di fronte a compagni di classe che divengono orchi aggressivi e crudeli, Ben trova unico conforto nella chiusura, sviluppando un’idea di mondo in cui comunicare è immediato, dove il suo ruolo è definito e vincente, privo dell’aura di dotato e talentuoso sconfitto destinato a continue lotte per sopravvivere. All’esterno di questi mondi opposti che si intersecano e scontrano, cercando di annientarsi l’un l’altro, pur se in modi differenti, l’universo degli adulti non trova risposte di fronte ai drammi dei suoi figli: la disperazione della madre di Ben e la sua tenacia, l’impotenza dei professori, l’indecisione del padre divengono fattori di amplificazione dei turbamenti interiori di questi “ribelli senza causa”, e se di certo a questo protagonista manca il piglio di un James Dean simbolo di una generazione, è pur vero che di una generazione con poco piglio è volto e specchio.

Ma è davvero così? Non è forse questo che ogni padre ha pensato almeno una volta del figlio? “Se ho torto darò loro ragione, ma voglio provarlo io stesso per scoprirlo” cantava Cat Stevens in Father and son. Ed è proprio quando la direzione pare ormai definita e decisa che il cineasta belga gioca la sua carta migliore, ribaltando l’incomunicabilità e cercando una riscossa decisa quanto priva di una vendetta fisica, o violenta, cercando in essa una complicità perduta fra generazioni lontane non soltanto per data di nascita o tecnologia, ma anche per reciproca percezione. Da questa complicità si muoverà il passo più importante per arrivare ad un “livello” più alto di crescita e accettazione di sé, forse il più importante e decisivo per lasciare alle spalle un’adolescenza terribile e traboccante solitudine. Se la parola è una delle basi dei rapporti umani, in quella tacita affermazione di una nuova consapevolezza sta il punto di partenza di un linguaggio alternativo, capace di aiutare figli e genitori ad incontrarsi, e ad andare avanti, anche nel momento in cui le strade paiono essere così lontane da spaventare.

Nonostante i riferimenti sparsi e profondamente voluti, sarebbe errato accentuare l’importanza dell’ambientazione video-ludica della pellicola per sottolineare uno dei fenomeni più diffusi negli adolescenti degli ultimi quindici anni: Ben X non è un film legato all’isolamento da videogioco o una pellicola di denuncia dei fenomeni legati al bullismo, quanto una metafora del disagio provocato dalla solitudine, più o meno percepita, legata al naturale percorso di crescita. Le stesse trovate del regista per sfruttare il media “videogioco”, e renderlo simbolo di queste solitudini, sono voce e strumento di una generazione, più che una sua prigione. Sta ad un linguaggio che deve ancora essere trovato creare un ponte fra questi figli e i giorni che verranno: l’epilogo, stilisticamente scontato, ha ad ogni modo il merito di affermare quanto sia importante comprendere e affrancare l’identità di ogni generazione affinché sia libera di affrontare la vita senza il peso, per l’appunto, dell’incomunicabilità.

Balthazar non è un grande talento, o un regista dall’avvenire assicurato, e difficilmente Ben X diventerà un nuovo Gioventù bruciata, capolavoro di contenuto e stile, o un nuovo Donnie Darko, imperfetto quanto perfettamente adatto al messaggio di una nuova generazione, ma di sicuro ha tutto il merito di aver compiuto un tentativo coraggioso e sentito, arricchito da un’ottima interpretazione e da idee ribollenti di passione e voglia di comunicare. Per una generazione che si dice ammutolita dai videogames non è affatto cosa da poco.

TITOLO ORIGINALE: Ben X; REGIA: Nic Balthazar; SCENEGGIATURA: Nic Balthazar; FOTOGRAFIA: Lou Berghmans; MONTAGGIO: Philippe Ravoet; MUSICA: Praga Khan; PRODUZIONE: Belgio/Olanda; ANNO: 2007; DURATA: 93 min.

 


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