Il lato oscuro della risata: La ballata dell’odio e dell’amore PDF 
Elisa Mandelli   

Figura affascinante ma insieme ambigua, il clown ha da sempre occupato un posto peculiare nell’immaginario cinematografico. Se non sono mancati personaggi genuinamente comici, così come figure romantiche e nostalgiche nella loro innocente goffaggine, proprio il cinema sembra infatti essere stato il medium che più ha colto e accentuato, non di rado portandolo al limite, il lato minaccioso e inquietante che si cela dietro il caratteristico naso rosso e quell’aria a metà tra l’attonito e il furbesco. Su questa linea, De la Iglesia fa dei suoi clown i portatori (letteralmente, fin nella loro fisicità) di un male che non è di origine trascendente o metafisica, ma si incarna in modo inequivocabile in un periodo storico ben definito, in un momento socio-politico sconvolto fin nel profondo dal giogo della dittatura franchista. Addirittura, si potrebbe individuare il moto contrario: quel male che nasce dalla concretezza di un sistema violento e corrotto dilaga a macchia d’olio facendosi persistente, invasivo, e nel diventare man mano sempre più astratto finisce per risultare inafferrabile, ineludibile. Esistenza individuale e vicende collettive si fondono così più per contagio che per rispecchiamento, e nessuna follia della Storia può trovare redenzione nella resistenza morale dei singoli.

Fin dall’incipit, l’inesorabile e distruttivo avanzare di una brutalità quasi farsesca nella sua illogicità spazza via ogni dubbio sulla tenuta di un mondo che, come quello dei clown, si vorrebbe ingenuo e innocente. Sono infatti proprio i due pagliacci ad essere reclutati, senza possibilità di appello, tra le fila dell’esercito repubblicano (siamo nella Spagna del 1937), e - con un rovesciamento ancor più paradossale - è il Clown Tonto (quello allegro, che fa ridere i bambini) a trasformarsi in una spietata macchina da guerra, in prima linea a massacrare a colpi di machete i nemici, o piuttosto, semplicemente, quelli che il caso ha voluto non fossero dalla sua parte. La stessa trasmissione di valori tra il Clown-padre e il figlio non può che rivelarsi intimamente segnata da questo scenario, e il messaggio che passa da una generazione all’altra è insieme una condanna (l’impossibilità di essere felice, per i troppi orrori conosciuti) e una missione (auto)distruttrice (una vendetta da inseguire ad ogni costo). Così l’arrivo di Javier nel circo (ormai in piena dittatura, nel 1973) segna, più che il compiersi di un destino di continuità familiare, la (ri)apertura di un fronte di conflitto: quello con il clown Sergio per l’amore dell’ambigua e perversa trapezista Natalia, che rivela tuttavia ben presto la sua natura più profonda di opposizione a un potere irrazionale e spersonalizzante, la cui forza devastante è tale da incidersi, irreversibile, fin nella carne.

I volti sfigurati dei due clown ne sono l’agghiacciante emblema, in uno spaventoso rovesciamento del destino di un altro pagliaccio del cinema (e ancor prima della letteratura): quel Gwynplaine protagonista di L’uomo che ride (di Paul Leni, 1928, tratto dal romanzo di Victor Hugo), cui un sadico chirurgo ha inciso sul volto un eterno sorriso. Lì la suggestione horror lascia spazio al melodramma, e il finale della pellicola riserva, a differenza di quello letterario, un destino di felicità al suo personaggio, buono e autentico dietro l’aspetto spaventoso. Pur mostrando un’analoga suggestione, La ballata dell’odio e dell’amore sembra lontano anni luce da questo orizzonte. In breve, cominciamo a sospettare che nel gioco delle parti messo a punto da De la Iglesia manchi un ruolo fondamentale: quello di un personaggio portatore di un’istanza positiva, seppur, eventualmente, complessa e problematica. Diventa ben presto evidente che le zone grigie nell’animo dei protagonisti tendono irrimediabilmente verso il nero, e nessuno spazio è lasciato a una risalita dalle sue profondità. Per quanto a tratti sembrino darsi possibilità di riscatto - l’amore, la solidarietà tra gli artisti del circo -, anch’esse si tramutano repentinamente in ennesime tappe di una degradazione inarrestabile e generale. Sta in buona parte qui la carica straniante di questa Ballata: l’identificazione diventa impossibile di fronte alla folle perversità dei personaggi, che non smettono di spiazzare lo spettatore mettendogli di fronte, senza riguardo e senza pudori, un’incontenibile escalation di violenza contro di sé e contro gli altri.

E proprio attraverso questo esasperato parossismo riescono, nel momento stesso in cui lo respingono, a trascinarlo intimamente e irresistibilmente con sé nel vortice della loro degenerazione, impedendogli un distacco troppo pronto a trasformarsi in pretesa superiorità. Una strategia che si esprime appieno nel ritmo incalzante del racconto, nello spericolato accumulo di svolte narrative sempre più rapide e di situazioni sempre più disumane, al limite dell’immaginabile, e del sopportabile. La sensazione tuttavia è che, alla fine, tutto imploda: se è evidente l’intento di non fare sconti nel rielaborare un passato (a ben vedere spaventosamente recente) le cui ferite sono tutt’altro che rimarginate, tale riflessione perde man mano di potenza, soppiantata da un gioco al rialzo vuoto e autoreferenziale, il cui unico obiettivo sembra essere rimasto il sondare i confini della propria stessa capacità di osare.

 


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