Tensione e rischio: il cinema di Kevin Macdonald PDF 
Enrico Maria Artale   

L’esperienze documentarie di un giovane regista segnano indelebilmente la sua intera filmografia. Se questa affermazione fosse assunta come regola Kevin Macdonald non farebbe certo eccezione. La natura e la tipologia di tali esperienze costituiscono inoltre una chiave d’accesso alla comprensione di un regista, dei suoi metodi e del suo approccio. Nel nostro caso va detto che si tratta di un genere estremamente specifico di documentari, almeno inizialmente: intanto tutti i primi lavori di Macdonald sono incentrati sulla biografia di un personaggio; e in secondo luogo sull’opera, dal momento che si tratta prevalentemente di documentari su cineasti del passato, quel passato che ha provocato tanto la passione per il cinema quanto l’ingresso in quel mondo, in cui il nipote del leggendario Emeric Pressburger è potuto entrare proprio a partire da un documentario sul nonno. E poi Chaplin, Hawks, fino ad Errol Morris, a testimoniare inequivocabilmente la vocazione documentaristica di Macdonald.

Si può ragionevolmente affermare che da queste molteplici esperienze Macdonald abbia sviluppato una rara abilità nella costruzione dei personaggi, caratteristica peculiare del suo cinema a venire, sia nel campo della contaminazione con la finzione sia nei più recenti lavori di fiction. Pur non avendo partecipato alla stesura delle ultime sceneggiature (e la cosa va a suo favore, considerati i limiti intrinseci degli script), la sua attitudine ad insistere sui personaggi con la macchina da presa e il montaggio permette all’attore di restituire una credibilità e uno spessore fuori dal comune. Non è certo un caso che due grandissimi interpreti come Forrest Whitaker e Russel Crowe, nell'ultimo State of Play, si siano potuti esprimere al meglio, trascinando pienamente l’intera narrazione. L’intento di Macdonald è sempre quello di costruire l’intreccio narrativo attraverso l’approfondimento di una storia personale. La cosa si fa ben più evidente nel caso di One Day in September, in cui la focalizzazione iniziale sull’allenatore di scherma funziona come la corda di un arco tesa e trattenuta fino al momento fatidico. Poco importa che l’evento non costituisca una sorpresa o un colpo di scena: pur conoscendo il finale della storia, il film mette in gioco una tensione ossessiva e difficilmente aggirabile. Esattamente come accade in La morte sospesa: sappiamo che entrambi gli scalatori sono destinati a sopravvivere, e fin dalle prime immagini li ascoltiamo raccontare quell’esperienza in prima persona. Eppure c’è qualcosa di assolutamente viscerale che ci tiene incollati allo schermo per quasi due ore, senza che succeda nulla di assolutamente imprevedibile. Ed è innanzitutto questa abilità nel creare un legame emotivo tra lo spettatore e il personaggio a partire da una radicale credibilità di quest’ultimo la vera forza di Macdonald, ma anche e soprattutto la sua capacità di lavorare questo legame su un piano non intellettuale.

In un certo senso si potrebbe definire Macdonald un vero maestro della tensione. Anche nell’ultimo State of Play i momenti migliori sono quelli più vicini al thriller: l’inizio, ad esempio, è folgorante, estremo. Soltanto attraverso un misterioso inseguimento (non sappiamo da chi stia scappando il personaggio) il regista ci permette, grazie all’inaspettato realismo, di entrare subito in uno stato di empatia con il fuggitivo, salvo creare un primo violentissimo shock al momento dell’omicidio. E non sono passati che un paio di minuti. Lo shock funziona da avvertimento, e quando un’ora dopo Russel Crowe deve scappare dallo stesso assassino lo spettatore non è così sicuro che sarà in grado di salvarsi, nonostante sia in definitiva l’unico protagonista del film. Addirittura il secondo finale, che dal punto di vista della sceneggiatura sembra assolutamente fuori luogo, è interamente sorretto dal montaggio alternato tra le scene di Crowe e la vestizione del killer: una soluzione non originale ma perseguita con assoluta precisione. Musica e montaggio contribuiscono in modo decisivo, e non è certamente un caso se Macdonald si affida da anni agli stessi collaboratori soltanto in queste due sedi specifiche. Il compositore Alex Heffes è l’autore dei tessuti sonori che nei film del regista scozzese si ripetono di continuo, quasi fastidiosamente. Pur potendo a volte sembrare una sottolineatura esagerata di alcuni passaggi narrativi, è altrettanto vero che queste melodie minimali creano una sorta di tensione sotterranea che non abbandona mai lo spettatore, fino ad intaccare costantemente anche i pochi sprazzi di serenità , come avviene ne La morte sospesa, in cui ogni momento di gioia conduce inesorabilmente alla prossima angoscia. Di pari passo lavora la montatrice Justine Wright, che in parallelo con un montaggio del suono estremamente curato dispone ritmi incalzanti senza cadere nel manierismo: anche in questo caso le due sequenze iniziali di State of Play sono straordinarie, tanto l’omicidio nel vicolo, costruito attraverso un montaggio molto dinamico e libero, quanto quello in metropolitana in cui la giustapposizione di vuoto e pieno conduce alla stasi finale che sarà sublimata in un’ellissi.

La tensione profonda dei film di Macdonald è prevalentemente fisica, corporea. In questo risiede la sua abilità maggiore e il motivo per cui è lecito aspettarsi molto da questo autore, malgrado gli ultimi film abbiano segnato un passo indietro rispetto ai precedenti, soprattutto dal punto di vista della ricerca, regalando solo alcuni grandi momenti. La morte sospesa costituiva, invece, una sorta di inno alla fisicità del film, alla sua dimensione concreta, terrena, rocciosa: la scena in cui lo scalatore Joe è costretto a bere da una pozza di fango è esemplare in tal senso, ma tutto il film lavora in questa direzione, senza tuttavia rinunciare ad uno slancio visionario. Lo stesso slancio anima le sequenze più nere de L’ultimo re di Scozia, film probabilmente mancato nonostante le ottime premesse, in cui l’aspetto sinistro ed ambiguo si accompagna alla crudeltà e alla violenza insostenibile, in una sorta di contrappunto atmosferico.

Il cinema di Macdonald è sempre estremamente violento, ma la sua violenza risponde ad una necessità non narrativa ma espressiva, almeno nelle intenzioni. Laddove questo non accada, è più per un difetto dell’esito che per un errore della concezione. Kevin Macdonald è un regista che vuole arrivare al fisico, alla brutalità del reale, e per far questo è disposto a rischiare ogni cosa, anche la messa in scena o la testimonianza della violenza più cruda. È un autore spericolato, che non ha paura di incorrere nella gratuità e nelle accuse di ingiustizia, come anche gli è accaduto più volte (si pensi alle immagini scioccanti che chiudono One Day in September). La sua spettacolarizzazione narrativa e stilistica punta alla pancia dello spettatore, alla privazione di una libertà intellettuale che rischia di portare con sé delle difese emotive, difese che il cinema di Macdonald vuole assolutamente scardinare. Certo il rischio è grande, poiché ne va di un’etica, di un rapporto col mondo. Ma anche la posta in gioco è alta, perché il recupero di una fisicità piena sembra essere l’orizzonte più prolifico per un cinema del futuro. Se Kevin Macdonald saprà emanciparsi dai vincoli degli standard industriali in cui si muove, o comunque troverà al loro interno la dimensione per recuperare le sue abilità peculiari potrà partecipare in modo sostanziale alla definizione di quei nuovi orizzonti.

 


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