Dead Man’s Shoes PDF 
Piervittorio Vitori   

Due uomini sulla strada, due fratelli immersi nella brughiera del Derbyshire. Richard è un ex militare, a spingerlo a ritornare alla cittadina natale è l’urgenza di vendicare il fratello minore Anthony che, in assenza del protagonista, era caduto nelle grinfie di una gang di sbandati. Personaggi in cammino: sono un’immagine ricorrente negli incipit di Shane Meadows. Dal Tim di Ventiquattrosette ai ragazzini di A Room for Romeo Brass, dal ladruncolo di C’era una volta in Inghilterra al Tomo di Somers Town. Per il 38enne cantore delle Midlands, il movimento iniziale si presenta come una figura della dialettica tra l’individuo e il gruppo: i suoi protagonisti sono sempre degli outcast, che il caso mette di fronte alla possibilità di (ri)trovare un sistema relazionale nel quale (ri)elaborare la propria identità. In questo senso, Dead Man’s Shoes appare senz’altro come il titolo più atipico nella produzione del regista.

Richard è un singolare caso di marginale che non sembra perseguire alcuna forma di integrazione, tanto più che si è lasciato alle spalle l’esercito, esempio quanto mai paradigmatico di appartenenza. Al contrario, proprio il (falso) senso di appartenenza promessogli dalla banda ha segnato il dramma del ritardato e vulnerabile Anthony. Al più frequentato tentativo di costruzione sociale si sostituisce dunque quello di una distruzione sociale, dinamica che passa attraverso una rivisitazione dell’idea di violenza. È, questo, un altro topos dell’opera di Meadows, un fil rouge che dagli esordi arriva fino a This is England. Se però negli altri film la violenza è un tratto quasi connaturato ai personaggi che la esprimono, tanto appare priva di motivazioni oggettive ed esterne, il protagonista di Dead Man’s Shoes è l’unico che non solo l’ha sviluppata – possiamo presumere – attraverso un preciso percorso di apprendimento (non dev’essere un caso che si tratti di un soldato), ma che la mette in atto perseguendo un piano preciso, le cui ragioni ci vengono via via rese più chiare nel corso della vicenda grazie al susseguirsi di flashback. E se la violenza dispiegata altrove non necessita, nella sua istintualità, di elaborazioni più o meno consce, qui i tormenti di Richard aprono uno squarcio sulla dimensione morale dell’agire (chiamando in causa addirittura un Dio la cui propensione al perdono non è condivisa dal protagonista) e sviluppano una riflessione che detterà il finale del film.

Nel frattempo, la sensazione complessiva è quella di un racconto che, rispetto ai passati lavori di Meadows, trova un baricentro più chiaro e stabile: si verifica cioè un’inversione di rotta che lo pone in netta contrapposizione soprattutto rispetto al precedente più fresco, il non riuscito C’era una volta in Inghilterra (1). Se agli esordi il regista aveva visto le sue opere salutate da molti come una ventata d’aria fresca all’interno di un cinema comunque memore della lezione di Ken Loach, il film del 2002 era stato il tentativo di privilegiare decisamente i toni della commedia rispetto a quelli del dramma sociale. Ma la grana grossa di quell’umorismo, ricercato peraltro con eccessiva insistenza e a scapito dello sguardo sull’ambiente, non aveva giovato alla pellicola. Ad una fallita operazione di ampliamento dei propri orizzonti, Meadows ne fa dunque seguire una di segno opposto, sfrondando ed asciugando Dead Man’s Shoes da quegli elementi che, presenti nei primi film, qui sarebbero risultati fuori luogo. Si riducono quindi le sfumature “leggere”, circoscritte alla quotidianità dei villains: così, anche grazie a dettagli grotteschi (la vecchia Citroen Dolly), salta agli occhi la scelta anticonvenzionale – e moralmente passibile di ambiguità – di presentarli non come professionisti del crimine e della violenza ma come un gruppo di tossici sbandati che hanno spinto uno scherzo crudele troppo in là. La colonna sonora – le musiche sono degli Aphex Twin – è più calibrata e meno invadente che nei primi titoli (dove a volte le canzoni prendevano troppo la scena), mentre l’utilizzo quasi costante della camera a mano si concilia bene tanto con la tensione narrativa quanto con il ritorno ad un naturalismo descrittivo. A questo proposito, merita una citazione anche il soffermarsi della regia sull’ambientazione extraurbana: Meadows – che concede il primo credit nei titoli di testa, dopo il cast, al location manager Richard Knight – pone l’accento sulla natura e sugli spazi aperti come mai altrove, rendendo la placida campagna inglese (grazie anche alla luce naturale ben sfruttata dal direttore della fotografia Danny Cohen) un luogo di desolazione.

Al centro di questa scena si staglia la performance di Paddy Considine, anche co-autore, insieme all’ex compagno di college Meadows, dell’abbozzo di sceneggiatura che poi sarebbe stata integrata dal lavoro di improvvisazione tanto caro al regista. Facendo riferimento al citato processo di sottrazione, si può rilevare come la figura di Richard appaia quasi un contraltare più asciutto del Morell che proprio l’attore di Burton-on-Trent aveva interpretato in A Room for Romeo Brass. Senza l’isteria schizofrenica e l’improbabile guardaroba di quel personaggio, qui Considine può fare sfoggio di tutta la sua misura interpretativa, portando Richard ad essere ben più di un semplice strumento di morte. La dimensione morale di cui sopra è infatti vissuta dall’uomo in termini estremamente problematici: la colpa richiede un’espiazione terrena, ma la vendetta corrompe l’individuo, finendo con il configurarsi a sua volta come colpa. Declinare la giustizia nei termini del protagonista significa dunque proporre una violenza dal carattere “contagioso”, capace di innescare una scia di morte di cui il film non ci fa vedere una fine certa. La conclusione della pellicola, che solo ad una prima lettura riconcilia lo spettatore con un’idea più condivisa ed accettabile di giustizia, ci dice in realtà che anche Richard mira ad una forma di ricongiungimento. E lo ottiene, mentre il cerino acceso del delitto rimane in altre mani …

Note:
(1) L’inversione di rotta si sostanzia anche in termini economici: se dei suoi lungometraggi C’era una volta in Inghilterra era stato fino ad allora quello più costoso, Dead Man’s Shoes risulta quello dal budget più ridotto, circa 750.000 sterline.

TITOLO ORIGINALE: Dead Man's Shoes; REGIA: Shane Meadows; SCENEGGIATURA: Paddy Considine, Shane Meadows; FOTOGRAFIA: Danny Cohen; MONTAGGIO: Celia Haining, Lucas Roche, Chris Wyatt; MUSICA: Aphex Twin; PRODUZIONE: Gran Bretagna; ANNO: 2004; DURATA: 90 min.

 


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